Paolo Ottaviani
TRECCE SPARSE
ASSOCIAZIONE CULTURALE
“LA LUNA”
Il GIOGO DELLA RIMA E L’«HOMME TRÈS-FAIBLE»
«Malgré toutes ces réflexions et toutes ces plaintes, nous ne pourrons
jamais secouer le joug de la rime; elle est essentielle à la poësie française.
Notre language ne comporte que peu d’inversions: nos vers ne souffrent
point d’enjambement, du moins cette liberté est très rare: nos syllables
ne peuvent produire une harmonie sensible par leur mesures longues ou
brèves: nos césures et un certain nombre de pieds ne suffiraient pas pour
distinguer la prose d’avec la versification; la rime est donc nécessaire
aux vers français. De plus, tant de grands maîtres qui ont fait des vers
rimés, tels que les Corneilles, les Racines, les Despréaux, ont tellement
accoutumé nos oreilles à cette harmonie, que nous n’en pourrions pas
supporter d’autres; et je le répète encore, quiconque voudrait se délivrer
d’un fardeau qu’a porté le grande Corneille, serait regardé avec raison,
non pas comme un génie hardi qui s’ouvre une route nouvelle, mais
comme un homme très-faible qui ne peut marcher dans l’ancienne
carrière».
Questo passo di François-Marie Arouet (1694-1778), tratto dal suo
Discours sur la tragédie à Mylord Bolingbroke è risuonato con insistenza e
a lungo nella mia mente. Qualche capoverso prima Voltaire aveva parlato
dell’esclavage de la rime nella poesia francese rispetto all’heureuse liberté
del verso inglese quasi rammaricandosi che un poeta d’oltremanica
potesse dire tout ce qu’il veut mentre un francese ne dit que ce qu’il peut.
Eppure, nonostante questa libertà limita, chi dovesse abbandonare
la strada maestra dei versi rimati non verrebbe considerato come un
audace genio precursore che apre inimmaginati orizzonti ma piuttosto,
avec raison, come un pavido omuncolo talmente sciocco e debole che,
dopo aver perso lungo il cammino il carico più prezioso della propria
eredità, non riuscirebbe più nemmeno a camminare.
Le stesse limpidissime ragioni stilistiche e metriche che Voltaire
adduce per la rima nella poesia francese credo che, perfino con qualche
argomento in più, possano valere per la poesia italiana e, più in
generale, per la poesia delle lingue romanze. Ma la mia mente rimaneva
inchiodata su quel avec raison e qualcosa mi diceva che le ragioni più
vere e profonde del connubio rima-poesia non erano state ancora né
esplorate né esplicitate interamente. Doveva esserci un’ulteriore raison,
più intima al discorso poetico, decisiva, essenziale e che tuttavia mi
rimaneva ostinatamente nascosta.
Non potevo certo sospettare che l’aiuto più significativo a risolvere
il mio problema giungesse da un genio famosissimo per ogni virtù
poetica tranne che per la rima, pur avendo egli scritto delle satiriche,
tragicomiche sestine - I Paralipomeni della Batracomiomachia - che a
torto, molto a torto, sono state, rispetto al resto della sua opera, poco
studiate e amate: Giacomo Leopardi. Sfogliando lo Zibaldone infatti
mi sono imbattuto in alcune assai proficue riflessioni «circa l’infinita
varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto all’armonia
delle parole… Osserverò solo - dice Leopardi - alcune cose relative
all’armonia de’ versi. Un forestiero o un fanciullo balbettante, sentendo
versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all’orecchio, ma non
si accorge di verun’armonia, né li distingue dalla prosa; se pure non
si accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella
conformità regolare della loro cadenza, cioè nella rima». E più oltre:
«Ne’ versi rimati, per quanto la rima paia spontanea, e sia lungi dal
parere stiracchiata, possiamo dire per esperienza di chi compone, che
il concetto è mezzo del poeta, mezzo della rima, e talvolta un terzo di
quello, e due di questa, talvolta tutto solo della rima. Ma ben pochi son
quelli che appartengono interamente al solo poeta, quantunque non
paiano stentati, anzi nati dalla cosa».
Ecco finalmente risolto in modo assai evidente, persino matematico,
il mio ostinato quesito! La necessità della rima è una necessità della
poesia molto più che del poeta. Incatenarsi a questa schiavitù non
solo può produrre un sia pur «menomo diletto» a chi legge o ascolta,
ma soprattutto offre la possibilità al verso di sprigionare insospettate
energie, inimmaginati rimbalzi di significato, ignoti allo stesso poeta,
talvolta totalmente, qualche altra per metà, talaltra per due terzi, più
raramente per un terzo. Ma quasi mai il concetto - come dice Leopardi
- appartiene totalmente al poeta. È una stima assai credibile perché
costruita non su una congettura ma sull’«esperienza di chi compone».
E questo significa che in quella raison di cui parlava Voltaire erano
racchiusi tesori forse neppure intuiti dal pensatore francese. Scrivere
piegati sotto il giogo della rima da una parte obbliga il poeta a liberare il
massimo della propria creatività, dall’altra lo rende impotente, in balia
del verso, dei suoni e dei significati che la poesia esige e il verso stesso,
più che il poeta, detta. Avere l’umiltà di abbandonarsi consapevolmente
a questo potere permetterà poi di godere di frutti di cui si ignorava
totalmente il fiore e il seme. È il verso cadenzato, regolamentato e
rimato quindi il maggior responsabile della creazione poetica. Voltaire,
paradossalmente e un po’ inconsapevolmente, aveva colto nel segno:
il poeta dice soltanto quel poco che può. Il miracolo della poesia non
gli appartiene. Se davvero le cose stanno così - e dopo aver ascoltato
Voltaire e Leopardi diventa più difficile dubitarne -, allora non resta
che scegliersi o, tutt’al più, inventarsi una regola nuova e poi, costruito
il giogo, chinare il capo sotto il suo peso e camminare lungo i solchi
che faticosamente ci si apriranno davanti. Con questa consapevolezza
mi sono apprestato ad allestire il fitto reticolato metrico e rimico delle
«trecce»: in questo quaderno ne vengono presentate 15 inedite.
Ogni «treccia» si snoda in sei strofe di cui quattro di versi martelliani
(o doppi settenari) e due di versi senari. In sequenza si dispongono,
ripetendo lo schema, due quartine di martelliani e una di senari. I versi
vengono ordinati e scalati in modo perfettamente bipartito da una
immaginaria linea ortogonale che solca dall’alto in basso il centro della
pagina. Viene così a formarsi una sorta di disegno in forma di treccia.
Le quartine di senari, disposte a rima alternata secondo lo schema abab,
fungono da nodi: qui i versi si chiudono o si raccolgono per poi riaprirsi
nelle ampie quartine dei doppi settenari. In questa libera accezione
entrambi gli emistichi dei versi martelliani possono essere piani, tronchi
o sdruccioli. E le relative strofe presentano, secondo un disegno costante,
rime esterne, rime interne e “rime al mezzo”: i primi due versi infatti
costituiscono un distico a rima baciata; il primo emistichio del verso 1
rima poi con il primo emistichio del verso 3; il primo emistichio del
verso 2 rima con il secondo emistichio del verso 3; il verso 4 presenta
infine la “rimalmezzo”.
Le joug de la rime, così rifinito e lucidato, può ora operare con tutto il
peso della sua musicale, poetica potenza e il poeta, se c’è un poeta, potrà
soltanto sostenerlo camminando chino lungo i solchi, un po’ come
l’homme très-faible di Voltaire.
Febbraio 2012
Treccia della parola nella Poesia
Più bella incatenata da libertà eloquente
sta incisa la parola nel ritmo della mente:
non può vagare alata né far la capriola
ma sarà lei a guidarti con sempre nuove arti
per tortuose vie tra dubbi, salti, errori
finché giunge un mattino dischiuso sui bagliori
di sogni e fantasie notturne: cristallino
tra ardue rime ora il verso splende come un disperso
bucaneve viola
nel vergine bianco
di umile parola
che era già al tuo fianco.
Quanti assennati Orlandi vanno in cerca d’Angelica
tra boschi e praterie! Dalla bolla babelica
che i padri venerandi, tra nausee e allegrie,
ignora, il verso brado s’alza sul più alto grado!
Ma io amo quella voce che ingenua uno spartito
tenacemente insegue col brivido infinito
di mai veder la foce. Qui non ci sono tregue:
la parola t’assilla. Poi, incastonata, brilla
di un più impetuoso
fuoco e, con sorpresa,
rende il generoso
dono dell’impresa!
Treccia per Glenn Gould adolescente
L’odore dell’abete rosso, quel muso buono
di Nickolson, le zampe del setter già dentro il suono
come corna d’ariete che il gregge sulle rampe
spinge nei carri e i pesci rossi quando al lago esci:
Bach, Beethoven, Haydn guizzano nell’acqua trasparente,
a casa il pappagallo Mozart guarda paziente:
sulla tastiera schizzano le dita e il tuo cavallo
sogni nella riserva con Oliver, una cerva
puritana amica,
i cani randagi
presi tra l’ortica,
curati negli agi
caldi di Manitouli. Revive us again canti,
ultimo sognatore d’austeri disincanti!
Diatonici cuculi suonano il tempo e le ore
si perdono tra un nero tasto e un bianco levriero.
Il tempo degli accordi lavora nel profondo:
ogni nota una stella nel tuo cuore errabondo
e raccolto, ricordi? “Cesellata è più bella!”.
Profumi di tastiera. Toronto in primavera
s’apre alla foresta,
si specchia nel lago:
la tua anima è in festa
e insegue il suo drago!