ANTOLOGIA POMPEIANA
(di Guido Lattuneddu )
“O Muse, che tanto ascoltaste le sterminate peripezie dell’ umana stirpe,
narrate ora
agli immemori
ai posteri
alle persone lontane
quella lontana sciagura nel tempo
che colpì le ignare genti del Sarno.
Essa non fu lanciata da mano straniera,
non da invidia o ira divina
ma
dall’ignoto crudele Fato.
Sappiate che quell’infelice Rocca pompeiana sorgea,
proprio alle basi di un grande vulcano, Vesuvio.
Ebbe quello un giorno
non diverso dagli altri,
a ridir con la misera gente
che a val gli facea la corte.
E venne il dì più lungo,
quando i visceri de la Terra crepitarono,
tonando in orribile strepitio tale a quello di cento biche allo Stadio.
Non il tuono annunciò la pioggia,
non il rumore di un esercito in marcia,
leggera e calda iniziò a cader
una densa foschia di polvere nera.
Notte senza stelle,
inesorabile calò sul sacro colle dei padri Sabini,
il sulfureo miasma di Ade così reclamò la preda sua.
Non contento però di tal empio oltraggio,
ferocemente il suolo trafisse,
con aguzze pietre e rutilanti lapilli.
Grida di donne,
urla di vecchi e bambini,
intonando insieme
il tristo lamento.
Quell’ odiosa morte
ritegno non ebbe
né per la veneranda vecchiezza,
né per l’innocente giovinezza
e così tutti trascinò con essa
nel nero baratro dell’oblio più profondo.”
“ Se il tempo lo concederà,
molte allora saran le voci
dall’Ade
che saliran all’ampio cielo dei mortali.
Triste è ricordare,
ciò che è da dimenticare,
ma ancor di più,
non rimembrare quel ch’è da celebrare.
Sventurate genti,
non foste divorate dalla scura terra,
non diventaste banchetto di cani e uccelli d’ogni tipo,
non un solo congiunto vi tenne la mano nell’ istante ultimo,
ma ancora lì dove la morte vi colse,
giacete.
Narrate ora all’ indolente viaggiatore,
ciò che un tempo foste,
per rinnovare in parte
quel che di vivo
ancor in voi si cela.”
Emilio : “ Mai in vita credetti alcuna cosa,
per me pastore,
del lupo più odiosa.
Ed eccomi qui ora,
rinchiuso,
premuto sotto uno strato di scuro tufo.
Gli armenti pascevo sereno,
ove là neppur v’è più uno stelo.
I boschi rigogliosi prima,
dimora eran del cervo e dell’ispido cinghiale.
Sul monte quel giorno,
Le nubi in ciel eran turbate,
spedite andavano le correnti di Eolo,
profetiche voci.
Volavano inquieti gli ugelli
Tradendo gli alti rami
E i più sottili fuscelli.
Ed ora
Quel che pensai,
io pastore,
come il male più grande,
divenne minore.
Ricordati, oh viaggiatore,
che giacciono qui le spoglie,
di colui che un tempo benigna Natura
in seno ebbe a chiamar, Emilio, figlio suo. “
Ispanico : ” Sempre pensai,
non a com’io potessi de la vita sfuggir i colpi,
ma infliggerli.
Coperto in volto da gelida lega,
Eracle sul bronzeo mio scudo vigeva,
con funesto sguardo al rivale contro.
Sempre devoto fui alla real insegna e a Marte mio Dio.
Sangue e sudore,
sull’arena sparsi,
con ardita tenacia ressi l’incursione,
d’indomite fiere e genti di lande remote.
Genti che,
in tutta una vita,
mai giunte sarebbero ad imbattersi l’un l’altre,
ecco che vennero allora
ad un’italica arena,
annientandosi l’une con l’altre.
Così in breve sai tu la mia storia,
o viaggiatore,
Ispanico fui,
de la vorace arena,
un prode. “
Diogene di Smirne: “ O Divino Apollo,
Arte doni
e pronta cura porti,
a quelle misere schiere mortali,
insieme sole,
dinanzi le ricorrenti pene de la Vita.
Volesti Tu, o Lossia,
così narrò il mito,
che pochi solo fra le genti,
potesser far onor a l’arte tua,
quella curativa.
E fra tante ferine folle,
affiorar vedemmo,
persone da le miracolate palme.
Con uso solo del grave ferro,
capaci eran di portar sollievo a le dolenti carni.
Io fui tra quelli,
e grande fu l’angoscia mia,
nel non poter recar aiuto,
in tal carco giorno di follia.
Ovunque scendevano lenti gli spirti all’Ade,
e,
tempo dopo,
io pur andai con loro.
Maligno fu il Fato,
che quel giorno mi travolse.
Io fui, Diogene di Smirne.”
Manilio :“ Muoveva il legno mio,
diritto per le vie del mare.
E veder scanditi i giorni,
da noi lontani,
passati su di un mar color del vino.
O infide acque,
quanto sperar a noi faceste un sicuro approdo !!!
sbattuti rabbiosamente
ad ogni tua frontiera,
assenti trascorravam l’ore,
fidando che fra tante,
l’ultima non fosse ancora .
A dispetto d’ogni cosa,
O Labirintico mare,
ringraziarti io volli.
Tu rivelasti me,
ancor in giovine età,
l’impensabile immensità delle contrade note
sì che io da principio,
mai da desiderio fui colto
di te rinnegar.
Ancor ora navigo,
senza più saggiar l’ intensa brezza salina,
senza più udir del gabbiano i fragori.
Dritto io sto dinanzi
a Caronte dello Stige il nocchier,
e solo mi dirigo
su per la via dell’Ade.
Troppo breve fu il tempo, Manilio, a te fissato. “
Cinno : “ O Almo Giove,
consacriamo a te divino un’ecatombe,
giacché lieti hai reso noi ,
offrendoci gran copia d’uve feconde.
Ballino i giovani,
graziosi versi scrivano le sibille,
qui noi celebriamo le sacre Vinalia
nel giorno di Augusto il mese.
La dolce vite dai nocchiuti rami,
dai prosperi verdi tralci,
dai rigonfi grappoli di vermiglio umore,
colmò con mielati suoi liquori,
otri e taverne
sicché la penosa vita degli uomini fu presa,
da gradevole torpore.
Va sciogliendosi ora in bocca la lingua
Che più non teme
E più non duole.
Ricordatevi di Cinno un giorno,
dell’umano bene latore .”
“ Tra tutte queste confuse schiere spettrali,
fra superflue chiacchere d’ogni compagine e compagnia,
trova posto una vita che a te rivelo, o viaggiatore.
Non meriterei di certo,
io poeta,
temibile per lingua quanto per stilo,
di restar a bassi gradi appresso.
E a parlar di paura,
mi domando se i posteri a venir,
crederan sotto i propri piedi
città e genti
che nulla trovaron di meglio
se non sprofondar.
Veder si doveva quant’ero per lettere operoso,
quanto in Vita conteso,
quanto litigato.
Umile servitore di palati sopraffini,
all’occasion mirabile arcier
dai grandi artifici nella faretra sua.
E’ assai gran piccola cosa ciò che può
sollevare o abbattere ,
animo avido di lodi.
Veder mi rattrista la fin di un così raro verseggiatore,
alla stregua del calar lo spietato sipario sull’opera di un nobile attore.
Dà valore a queste mie parole,
poiché ora,
solo mi affliggo,
nelle fredde case di Ade,
ove sorde le orecchie son alle dolci parole,
di quel che un tempo fu un abile cantore. “
Scribonia : “ Mio consorte insigne voto all’armi fece,
sì che io in solitudine lasciata,
lungo tempo,
doppio amor dovetti,
a due sereni infanti.
Donne nella mia stessa condizione poste,
due crucci avrebbero non da poco in sorte :
che troppo presto i fanciulli loro,
fretta avessero a crescer oltremodo,
e lo sposo
non prima del tempo concesso,
morisse la dove,
genti dal ferino aspetto assalivan
la fiera romana insegna.
Quel tempo però,
il nemico che tanto pensammo al confino,
a viso scoperto attaccò,
e nulla potemmo far se non,
soccomber all’orda sua.
Scempio divenne il bene all’uomo più caro,
non cesellato o lavorato da antica esperienza,
non da cercarsi in cave o spelonche ne la terra profonde,
ma quello che ricco rende ogni uomo :
l’amabile vita.
Così come accolse i figli alla luce ogni madre,
dando luminose speranze loro,
allo stesso modo,
vederli dovette lontani dipartirsi.”
Quartilla : “Donne fummo noi tutte,
accesi riflessi,
di una divina Bellezza.
Lisce e levigate carnagioni d’odorose fragranze di Lidia,
celate in preziose vesti rosso murice e bisso.
Profumi d’incensi e aromi rappresi.
Danza sinuosa la fiamma di una candela,
e scendono copiose gocce di cera ,
così illuminata è la stanza di aura dorata,
sì che il nostro corteggiamento
sé mostrasse,
tal ad arcano rito.
Ozioso trascorreva mollemente il tempo,
soltanto scandito,
da deboli soffusi sospiri.
Impetuosa la Passione al modo di una marea,
lieve brezza che candida rosa scompagina inerte.
Innumerevoli eran i miei amanti,
alla stregua della rosa, i petali ;
loro delicati, belli e innocenti.
Non schiava di reo patrizio,
non di avaro lenone,
fui libera,
l’arte mia esercitando,
al suon di flauti beoti,
al suon di timpani frigi,
estro di Dioniso e Rea dea.”
Quinto : “ Solo fui lasciato,
ai fianchi scoperto,
dinanzi la sventurata sorte.
Fui legionario,
sotto la regal insegna di Tito mio Imperator,
e l’esser sì di quel ruolo,
me permise di veder orizzonti assai lontani.
Radici di quercia secolare,
le vie che portavano al Mondo eran sterminate.
Ebbi a conoscer
le incolte e nebbiose terre di Germania,
sicura dimora di crudeli druidi e urlanti demoni.
Passando poi Bisanzio,
Cappadocia e Giudea,
ecco che allora il verde manto silvano,
il posto a calide sabbie lasciava,
illecito dominio
di predoni e Garamanti armigeri,
che di rosso dissacravan quelle funeste sabbie.
Mai nulla ebbi a ridir ad alcuno,
fiero com’ero dell’onere mio.
Quel giorno però,
nulla il combattere valse
e parve tenero,
il rigido scudo,
inutile
l’aguzzo ferro.
Mi trovai a camminar silente,
ondeggianti i campi di spighe a me attorno,
con fulgente sole innanzi,
non più urla né lamenti appresso.
Allora là capii d’essere finalmente giunto,
ove ciascun guerriero d’esser sogna,
là nel sereno ventre dei Campi Elisi. ”
Tarquinio : “ fui e foste voi tutti schiavi,
a spregevoli mansioni destinati.
Chi si prestava ai sollazzi del padrone,
chi alla beffa e allo scherno di ospiti e abiette matrone.
Nacqui e nasceste tutti soli,
a viver crudele afflizione.
Ma accadde che,
la pesante catena che al collo portavo,
tolta fosse.
Giunsi un giorno,
ora Liberto e non più schiavo,
a varcar del mio futuro le soglie.
Quella vita prima,
che scarsi denari valeva,
altre molte ne salvava.
Per le vie di notte solevam far la veglia
e respinger pronti,
vampa inattesa.
Troppo fuoco quel giorno ci travolse,
noi quasi tutti condannati a bruciar,
su di un’ enorme pira.
Quando già altrove il giorno,
rischiarava la puntellata volta di stelle,
qua invece,
notte era d’ombra e pece.
Convulse urlanti correvan le genti,
ondeggiavano i caseggiati a ritmo di colpi
ed il ciel spietato assaliva,
con raffiche di cocente pomice.
Noi tutti tacemmo,
solo infatti una qualche divina mano,
avrebbe potuto freno porre,
a quella funesta fornace
che parve invitar noi,
alla dimora di Ade.”
Lucio :“ Chiuso in un guscio di cenere,
sempre mi rimarrà la bella giovinezza,
passando le stagioni intorno come battito d’ali.
Infinito e vuoto è il gesto d’amore materno che mi cinge,
vana protezione contro la morte incombente.
Insieme bloccati dalla nube improvvisa,
portatrice di tenebra.
Ora di nuovo alla luce,
uniti,
confusi per statue e non persone vittime del Fato. “
Clodio : “ Qualora non possa tu contar su la Forza,
non sull’Astuzia,
o la Tenacia,
prepara la Voce
che tutte insieme acclude.
Non fidar che qualcosa ti sarà dato,
spera piuttosto che nulla ti sia tolto,
costoro serpi malefiche sono.
Larga parte passò de la mia Vita,
entro il freddo marmo del Senato,
ove là trovi
persone più fredde ancor d’esso.
Attenta è la folla di sguardi addosso,
serpeggianti bisbigli dalle tribune si levano,
là ero al centro,
a far valer la ragion giusta.
Mai ci fu alcuna cosa,
che concorde colse ogni uomo,
impegnato com’era o
a corteggiar vana ambizione o
a seguir il fantasma di una qualche reputazione.
Persone che piuttosto alla facciata guardaron
e mal de la forma si curaron.
“ Ingannate codesti Ingannatori !!! “
Mai legherà di più alcuna cosa
se non del pericolo la forza.
Troppo tardi quei rei uomini che io conobbi,
capiron d’esser fatti ,
non a divina ma a mortal foggia.
Viaggiatore : “ Mai sì triste vicenda mi commosse,
mai vidi cotanta vita nella morte.
Rattrista il crudele pensier che a me sovvien,
di tante persone che della Vita non si curan
e sbadiglianti quella passan
in ozio e turpe vizio.
Non lanciaste parole a vuoto,
o anime somme:
per quanto breve il tempo a voi fissato,
sempre cari rimarrete a color
che della vita ne fecero
non Diritto,
ma Dono”.
- FINE -
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