A CHE SERVE LA POESIA
Quando mi capita di parlare di poesia, mi viene in mente il vecchio calzolaio del mio quartiere, che mentre riparava le scarpe recitava, a me adolescente, brani interi della Divina Commedia.
Oppure, bambino, l’immagine della folla silenziosa attorno al cantastorie, l’applauso e le poche lire che molti, pur nelle ristrettezze del dopoguerra, mettevano nel suo cappello; o anche, ai nostri giorni, i milioni di telespettatori incantati ad ascoltare lo straordinario Benigni che recita la non facile “Preghiera alla Vergine”, l’ultimo canto del Paradiso, gli ultimi versi della Divina Commedia.
Allora, mi dico, non è vero che la poesia, quella scritta in versi, è estranea al comune sentire delle persone.
Ma, allora, perché così rara nelle nostre frequentazioni culturali?Perché leggiamo quasi esclusivamente opere di narrativa, spesso anche molto scadente?
La risposta, si capisce, non è facile: la poesia, come ben sapevano greci e latini, è nata per la recitazione, probabilmente necessita di spazi, occasioni, tempi, più adeguati al nostro sistema di vita, e forse anche di contenuti stile e linguaggio che non siano espressione di un chiuso individualismo, di un intimismo fine a se stesso.
Sicuramente, questo lo possiamo dire, la poesia è la forma d’arte meno adatta alla attuale civiltà della dissipazione, per un motivo molto semplice, ma fondamentale:essa ha bisogno di particolare attenzione, cioè di silenzio, di concentrazione, di attiva partecipazione.
Non consente distrazione:trascurare anche una sola parola compromette il senso complessivo del discorso, come su un quadro una macchia che sfigura il paesaggio.
Insomma, la poesia, per tanti motivi, è l’ “oggetto” che meno si presta al consumo, non fa “divertire”, non si vende, non dà profitti(rari gli editori che investono qualcosa nelle opere di poesia), non “spiattella i fatti” già belli pronti e confezionati, non si presta alla propaganda…insomma, a che serve?a chi può interessare?
Non “serve” a niente, e questo è il suo limite, ma può interessare tutti, e questa è la sua inespugnabile forza, che spiega, tra l’altro, perché la poesia da sempre ha accompagnato le vicende umane.
Essa è un sogno, un’aspirazione, un desiderio che non trova le condizioni per realizzarsi;chiama in causa indirettamente la coscienza, ciò che nell’affanno del vivere quotidiano rimane inascoltato; si rivolge a quella parte del nostro essere che non si rassegna, a quello che il furbo maneggione chiama, a giustificazione del suo cinismo, “ i dati della realtà”.
L’essenza della poesia consiste proprio in quel fenomeno misterioso che nel mentre che rappresenta la realtà così com’è, rimanda a immagini e pensieri del come dovrebbe essere.
Voglio citare due dei nostri più grandi poeti del Novecento, Montale e Zanzotto:
…il mondo/
così com’è immerso in un pattume/…
(Montale,C’è chi)
Mondo, sii, e buono;/
esisti buonamente,/
fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto/
…su, bravo, esisti,…/
…
Su, munchhausen.
(Zanzotto, Al mondo)
Implicitamente o esplicitamente ci dicono che il mondo nel quale viviamo ha qualcosa di insopportabile, di inaccettabile, ma nello stesso tempo ci fanno immaginare un mondo “pulito” e votato alla “benevolenza”, alla volontà di essere “bravo”, e capace di salvarsi dal “pattume”.
(Munchhausen è il leggendario barone che si salvò dalla palude tirandosi per i capelli).
La magia di questi versi, della poesia vera, è quella di suscitare, di contro al caos, una nostalgia del possibile bello e del possibile buono.
E’ un’allusiva esortazione a non accontentarci di quel che siamo, di come viviamo, un invito a trascendere le brutture nelle quali siamo immersi.
In questo senso la poesia è una tensione alla libertà, una forma di preghiera che tende a congiungere il naturale col soprannaturale, l’effimero con ciò che vi è di perenne nella condizione umana.
E di perenne vi è, ad es., una recondita memoria dell’innocenza perduta, del luogo paradisiaco, di cui Dante dice “qui fu innocente l’umana radice”.
Un’immagine, “un’ombra del beato regno”, possiamo ancora trovarla nell’incanto(se non violato) dell’infanzia e della fanciullezza.
Il Pascoli, come sappiamo, sosteneva che poeta è colui che sa guardare e sentire con gli occhi della meraviglia, con lo stupore, il naturale candore dei bambini.
Quello che chiamiamo la Bellezza del Vangelo, ad es., la poesia di ogni forma sacra di scrittura, è l’allegoria della parola, i suoi molteplici significati che parlano agli “adulti” esortandoli a farsi “piccoli”.
C’ho messo anni a capire la profondità e lo splendore delle parole di Dostoevskji:<la Bellezza salverà il mondo>;o anche, per il contrario, le parole di Stendhal:<dove manca la Bellezza, lì è in agguato il delitto>.
La Bellezza, non è un imbellettamento, ma un fondamento, una forma costitutiva, senza la quale la vita intristisce, dilaga l’imbarbarimento, “il pattume” abbrutisce i comportamenti.
Se non nell’arte, sempre andiamo cercando attorno a noi qualcosa che ci appaia bello: dal paesaggio, all’armonioso profilo di una città, dalla magnificenza di un monumento, al fascino di un bel corpo, fino all’ordine e alla pulizia dell’ambiente in cui viviamo.
La poesia è un soliloquio/dialogo con la Bellezza, un punto di resistenza, un argine alla sconcezza che tenta di sommergerci.
Se io fossi nelle grazie del Ministro dell’Educazione, visti la tristezza e il nonsenso della Scuola italiana, oserei chiederLe:perché non istituire dei corsi di formazione alla Bellezza (non “beauty farm”, per favore), dove insegnare solo poesia, in modo da far crescere i nostri giovani nel gusto del bello tanto bello da provare disgusto di ciò che li attornia?
Noi, intanto, ritagliamoci un piccolo spazio in cui fare entrare di tanto in tanto la lettura (e, ove possibile, la memoria)di una bella poesia, essa ci appartiene, non trascuriamola.
Non sempre, ma è vero, capita che una parola può cambiare il destino di
un uomo.
Dice il mio amico poeta Nicola Amoruso da Nicosia, al centro della Sicilia:
<Scrivo poesia per provocare poesia>.
NICOLA LO BIANCO
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