Pubblicato il 09/10/2015 15:09:02
MADAMA DORE’
Si fermò un attimo. Nella stanza la luce impietosa mostrava tutte le pecche e la polvere che non era riuscita a nascondere. Sui mobili, il lampadario, i vetri delle finestre c’erano i segni del tempo e dell’imperfezione ma la luce che li metteva in evidenza era calda e amichevole. Bianca correva in attesa degli ospiti: i suoi compagni d’asilo e i relativi genitori. Per la festa di compleanno di sua figlia sarebbero venuti anche i loro amici, era la festa dell’estate e dell’inizio vacanze. Nonostante fosse ansiosa e quindi inquieta per il pomeriggio intenso che l’attendeva, riusciva a godere la bellezza dei fiori sul tavolo, i colori dei cibi disposti sui vassoi, le sfumature dei ricami su cuscini e tovaglie. Erano belli persino i volti sani e integri degli zii che non erano ancora tanto vecchi dentro da non essere attratti dagli altri. Rughe e capelli bianchi, leggera pinguedine, espressione benevola, disposizione al divertimento non sfiguravano accanto allo splendore degli occhi dei piccoli. Lo zio preferiva i maschi e i loro giochi un po’ violenti, la zia le bambine con i loro vestitini graziosi. Iniziò un mulinello di vita e di risate, di corse e di commenti fino alla torta, quando si ritrovarono tutti intorno alla tavola, vicini. Solo Marta rimase a sedere lontano, guardata a vista dal marito. Se le stringevi la mano sorrideva ma non era chiaro a chi. La mente le si era disintegrata insieme alle maglie che aveva intrecciato, ai pranzi preparati, alle pulizie fatte. Le dette il piattino con il dolce già tagliato a pezzetti. Arrivò Marco, il loro amico dei tempi dell’università con un insolito piccolo regalo: la foto incorniciata di un animale della savana scattata durante un safari. Amava i viaggi e i racconti, avrebbe intessuto storie anche su quello scatto e passato in rassegna i piccoli album da disegno che aveva incoraggiato Bianca a riempire. - Ti ricorderanno l’infanzia, ti commuoverai quando li riguarderai. - le aveva detto.
Gli adulti intanto passavano come meteore lasciando masse di ragazzini con fratelli mai visti né conosciuti prima, altri si piazzavano nelle poltrone e non si spostavano se non per alzarsi a mangiare. Un bambino aveva rovesciato un crostino sul divano e lei era riuscita solo a dire balbettando: -Oddio… lo puliremo.- Giornate intere ci sarebbero volute per rimettere tutto in ordine.
Una madre ad un certo punto sbiancò, uscì dal salotto e vomitò nel bagno, piangendo. La rassicurò, succede. Quella però le raccontò di essere incinta e di non volere il bambino. Sua madre era malata come la signora di là… - Marta? - - Sì. - - Terribile davvero. - - E così non solo sto male per lei ma non posso nemmeno avere il bambino. - singhiozzava. - O curo lei o lui. - Non sapeva che dirle, che si dice? Un groppo alla gola. Ascoltava sudando, aprendo la finestra, badando a non staccare gli occhi dai suoi. Era quello che faceva con Marta e funzionava: prestare attenzione. L’altra si calmò un poco, si era sfogata. Riprese il figlio e se n’andò. Mondi in movimento come animali irrequieti. Mise della segatura sul pavimento del bagno e corse a sfornare bei biscotti dorati. Poi tolse la segatura, usò la varechina e pulì. Infornò schiacciate e fece conversazione mentre dirimeva questioni più o meno infantili e stappava bottiglie.
Alle otto in punto si sarebbero presentati i parenti di suo marito. Una minestra era stata ufficialmente richiesta. Che ci voleva a preparare qualcosa di caldo per le otto? Avevano un’altra esigenza, altrettanto problematica nella loro piccola casa: mangiare sul tavolo con piatti di ceramica perché quelli di carta sono scomodi, specie per tagliare la carne, ergo era necessaria anche la carne. Non si capacitava della protervia altrui.Voleva dire togliere i vassoi e ri-apparecchiare, predisporre le sedie, dare udienza mentre i ritardatari venivano a prendere i bambini, mangiavano noccioline e patatine aspettandosi un aperitivo, mentre lei controllava se l’acqua per la famosa minestra bolliva e chiudeva i sacchi della spazzatura accumulata nel corso del pomeriggio. Doveva accendere il forno ora per scaldare pizze e salati, preparare crostini scuri caldi e tagliare il roast beef, se possibile tiepido.
Arrivarono in fila indiana come i Sioux. - Dove è la principessa? - - A giocare. - Era leggermente infastidita dai soprannomi che usavano. Aveva sempre e solo sorriso ma la scelta di una parola o di un’altra dice molto e lei, che le amava, lo sapeva bene. Bambina fortunata, certo, ma perché sottolineare il piccolo bene presente, le gioie che potevano offrirle di fronte all’imponderabile della sua vita futura? Fortunata rispetto a cosa, poi? Rispetto alla loro vita? Anche rispetto alla sua se è per quello, ma non le veniva in mente di dare soprannomi agli altri. Alla figlia, in fondo, non avevano offerto che compagnia d’amici piccoli e grandi, vacanze al campeggio, vecchi zii; consapevoli peraltro che non si può assicurare una vita da principesse nemmeno alle principesse. Bianca arrivò correndo e si fermò un attimo, anche se spintonata dalle amiche; li salutò e ripartì, ben educata. - Va già via? - - Vuole giocare. - - Ah! Non ne ha mai abbastanza! - - A cinque anni …- - Eh, sì. - Forse anche suo padre, se fosse stato vivo, avrebbe detto frasi simili, non se lo nascondeva. Aveva notato, nel corso del tempo, che soprattutto quelli che si disinteressano degli altri vorrebbero attenzione. I Sioux si sedettero in cerchio, poi parlarono tutti insieme come ad un primo appuntamento. Avevano lanciato occhiate alle persone rimaste: uno sguardo infastidito e anche un po’ sorpreso. Non erano soli come evidentemente si aspettavano. Qualcuno si avvicinò a salutarli. Loro rimasero immobili, girati solo con la testa, come in attesa della fine di quei convenevoli che, s’immaginava, trovavano superflui. Mentre andava e veniva dalla cucina, sentiva pezzi di conversazione tra suocera e cognato. Si sentì seria e professionale come i camerieri che ascoltano parlare di qualsiasi strano argomento pur restando sempre compunti e con un’espressione imperturbabile. - Entro più tardi domattina quindi non vengo a pranzo. - - Come mai? - - Ho cambiato turno perché Giovanni è malato.- Parlavano delle cose di casa come se fossero a casa. Disinteresse, incuria, arroganza? Chissà di cosa si trattava. Maleducazione. Suo marito intervenne ma dovette farlo su argomenti generici tipo il tempo e il cibo. Dopo un poco suo suocero chiese: - E la Madama è sempre a giocare? - - Sì. Ci sono ancora dei bambini. - L’altro soprannome era appunto la Madama. Forse era un termine benevolo ma si poteva anche pensare fosse ironico, affibbiato ad una bambina così piccola. La Madama, nella sua infanzia, era una qualche smorfiosa, dai modi artefatti, sopra le righe. Nella sua mente una tizia con una gran gonna, il corpetto attillato come la Pompadour, i capelli biondi a boccoli, non sua figlia quindi con i bermuda, i sandalini rosa e i capelli alla maschietta. Era poi più probabile che quel nomignolo, dato da persone che provenivano da una cultura contadina, intendesse prendere in giro loro - genitori per le cure, l’amore, l’interesse ritenuti eccessivi. Attenuante non giustificazione. Chiamò sua figlia ma Bianca non arrivò e loro non la cercarono, specie dopo la laboriosa fatica di essersi disposti intorno al tavolo e aver aperto un varco tra i vassoi, i tovaglioli e le bottiglie. Inflessibili i giovani cognati parlavano tra loro con un’urgenza che non poteva che esser finta dato l’argomento banalissimo, gli altri si guardavano intorno, impacciati. Tutta quella fatica per una semplice festa di compleanno! Quando presero un po’ di coraggio conversarono, sempre da lontano, con quelli che erano ancora in salotto. Capì che era una specie d’addio: speravano che partissero presto visto che era ora di cena. Sentì chiedere a bassa voce: - Ma non vanno a casa? - Sarebbero rimasti delusi, c’era ancora da mangiare per un battaglione d’Indiani e di Yankees e lei aveva già invitato a cena tutti quelli che potevano rimanere, anche se impegnata a salutare chi usciva e chi entrava, chi cercava un golf e chi non voleva lasciare un giocattolo. - Me lo renderai all’asilo…- diceva Bianca con mascherato disappunto. - Me lo rendi domattina, eh! - Suo marito lavorava in cucina, sentiva spadellare e sbattere. Era stanco anche lui, meno male erano al rush finale. Chiudendo la porta nell’ingresso, distratta, girandosi intravide i Sioux con delle immaginarie penne colorate sulla testa: aspettavano come al ristorante, osservando i quadri. Non poteva suggerire loro di alzarsi, parlare con gli altri, aiutare, inserirsi nella calda vita di tutti i giorni come avevano fatto gli zii ottantenni che per ore avevano guardato i bambini, intervenendo nei giochi, offrendo riparo e consigli.
- Un bacino! - Chiese la nonna a Bianca che si era avvicinata, incuriosita nel vedere così tanti cambiamenti intorno al tavolo. Ubbidì ma il viso non era stato girato abbastanza e il bacio risultò troppo familiare. Si pulì la bocca e si allontanò. I bambini non mentono, pensò dura, ma non era il gesto che contava, era tutto quello che non era esistito in precedenza che contava: interesse, frequentazione, comunione, consuetudine, familiarità. Finalmente furono trasbordati cibi caldi, bibite fresche, fette di torta e caffè bollente. Fu anche aperta una nuova bottiglia di spumante ma non appena lei e suo marito riuscirono a mettersi a sedere, i Sioux dissero che sarebbero ripartiti. - Subito? - Troppo caldo…e poi erano stanchi anche loro due, no?, dopo una giornata simile. Che voleva dire simile? Stancante? No, non l’avrebbe definita così. - Arrivederci! - E si alzarono uscendo in fila e guardandosi l’un l’altro per non scontrarsi sulla porta. Gli Indiani, le venne in mente, sono molto più coordinati nei movimenti. - E la Madama? - La chiamò. - Ciao, ciao. - Finito. Quasi tutto.
La seguì nella sua stanza. C’erano ancora delle amichette. - Che fate? - - Un girotondo. - - Allora cantate Madama Dorè.- Disse, tanto per esorcizzare l’esistenza di quel “Madama” che la infastidiva e al quale doveva abituarsi. - Non me la ricordo tutta. - - Vi aiuto, la cantavo anch’io da piccola. - Marco la guardò divertito, con gli album da disegno in mano. - Cento anni fa. - I sopravvissuti alla festa ora erano quasi tutti nel corridoio, davanti alla porta della cameretta e canticchiarono. “O quante belle figlie, Madama Dorè. O quante belle figlie!(Davvero lo erano.) Son belle e me le tengo, Madama Dorè. Son belle e me le tengo! ( Sì, me le terrei tutte.) Me ne dareste una, Madama Dorè? Me ne dareste una? (No, per davvero, nooo.) Che cosa ci vuoi fare, Madama Dorè. Che cosa ci vuoi fare? La voglio maritare, Madama Dorè. La voglio maritare. (Troppo piccola.) Con chi la maritereste, Madama Dorè. Con chi la maritereste?” Lei emise un sospirone e anticipò il canto delle bambine che si fermarono ad ascoltare. - Ora che ci penso non la voglio maritare, Madama Dorè; ora che ci penso non la voglio maritare! Perché è piccolina, Madama Dorè, perché è piccolina- e me la tengo io, Madama Dorè, e me la tengo io!- - Non dice così. - - Sì, ma bisogna intervenire sul mondo quando si può. - Prese il mento della figlia, lo scosse e la baciò con foga. Tornò in salotto. Marta le disse: - Ciao Giovanna, mi portano via. - - Non sono Giovanna. Giovanna è tua figlia e io sono una sua amica. - Dunque non ricordava chi era; anche sorridere e stringere la mano serviva a poco. In quel momento i loro visi si specchiavano e Marta sembrava pensare: - So chi sei.- - Sono…- Che importavano i discorsi difficili, a Marta erano già venute due rughe sulla fronte dallo sforzo di tutti quei “sono”. Lei riusciva ad essere così poco, ormai. Ebbe un’idea; voleva rivedere il sorriso sul suo volto. La spinse verso la cameretta. Cantavano ancora a squarciagola Madama Dorè, cambiando le parole, inventandole ma la musica era quella. - La ricordi? - Marta annuì e l’abbracciò, piena di calore. Senza fiato pensò che davvero l’affetto arriva da strani, inaspettati lidi. - Notte, a domani. - Andarono via tutti, piano piano.
Si sedette sul lettino con una sigaretta in mano, suo marito aveva l’aria beata che prelude il sonno. Ne incrociò lo sguardo. Sapevano che quella giornata per loro significava felicità. Lei ripensò a tutti gli invitati: ai Sioux, a Marta, ai bambini, agli zii, alla donna che aveva detto che avrebbe rinunciato ad un figlio perché doveva seguire la madre malata… Era rimasto solo Marco, come tutti gli anni. Bianca gli stava mostrando i suoi disegni. - Allora vediamo cosa c’è su questi fogli! - - Il mare blu e le vele bianche nel porto…- - In alto c’è un castellaccio. E questi che sono? - - Uomini, no? - - Ah, sì; ma dove sono? - - In un parcheggio. - - Mmm, queste sono le macchine e questi? - - I fari spenti! - - Brava! Doveva essere proprio una bella giornata. Guarda che sole splendente! Non hai scritto dove eri? - - No, mamma, come si chiamava? - - Talamone. - - Ricordati sempre di scrivere il titolo, il luogo e la data sui tuoi disegni. Ha un titolo questo? - - Talamone e basta. - - Bene. - Creavano ricordi. Bisogna creare ricordi, Madame o non Madame. - Dovrai disegnare anche quello che è accaduto oggi. Cosa disegnerai? - Bianca rispose con la voce impastata dalla stanchezza. - Il tavolo con il dolce rosa.- - OK. - - I fiori color fucsia e gialli. - - Gli zii sul terrazzo che ridevano tra le piante. - - La pizza con i wurstel. - - La Marta. - - Il girotondo tutto colorato e…Marco! - Poi, con un gran colpo, buttò all’aria tutti i disegni e scappò via.
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