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Lettera di Veltroni al ministro Alfano

Argomento: Politica

Saggio di Walter Veltroni 

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Pubblicato il 23/03/2010 23:20:03

“Il sangue, i vestiti, il plantare
Riapriamo il caso Pasolini”
Un enigma del passato che «non possiamo considerare chiuso»
Veltroni scrive ad Alfano: “Oggi la scienza può dirci la verità su quel delitto
Lettera al ministro Alfano
di Walter Veltroni
22 marzo 2010
Gentile Ministro Alfano, vorrei cominciare questa lettera aperta con parole che vengono da lontano
nel tempo: «Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte
all’Idroscalo il Pelosi non era solo». È così che il presidente del Tribunale dei minorenni Alfredo
Carlo Moro fissò il suo giudizio e il senso della sentenza con la quale il Pelosi fu condannato a
quasi dieci anni di reclusione per l’uccisione di Pier Paolo Pasolini, intellettuale italiano. Le
sentenze successive hanno confermato la responsabilità del ragazzo ma hanno sostenuto che lui
fosse solo, quella notte. La verità processuale è fissata in quel giudizio della sentenza di secondo
grado: «È estremamente improbabile che Pelosi abbia potuto avere uno o più complici».
«Estremamente improbabile» non significa «assolutamente impossibile». D'altra parte quel ragazzo,
uno che sembrava sociologicamente e fisicamente l'incarnazione di un personaggio pasoliniano,
aveva fornito una confessione piena che escludeva il concorso di altri. Dunque perché cercare
ancora?
Ma l’inchiesta, come hanno documentato in modo inappuntabile su «Micromega» Gianni Borgna e
Carlo Lucarelli, fece acqua da tutte le parti. Come molte indagini di quegli anni. Ho rivisto in tv, in
questi giorni, le immagini girate da quel grande giornalista che si chiamava Paolo Frajese a via Fani
il sedici marzo del 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro, presidente della Dc e fratello del
giudice Alfredo Carlo. Frajese faceva il suo dovere indugiando con il suo cameraman in mezzo ai
corpi riversi a terra, ai berretti delle false divise, ai bossoli dei colpi sparati da terroristi e dai poveri
agenti della scorta. C’erano decine di persone che passeggiavano sulla scena del più clamoroso
attacco alla Repubblica. Qualcuno calpestava i proiettili, qualcun altro armeggiava con le portiere
delle auto. Una follia. E non credo che ci appaia così solo perché ora tutti hanno imparato
dall’America che la prima cosa da fare è isolare la scena del delitto. Era una follia, e peggio, anche
allora. Era successa la stessa cosa nelle ore immediatamente successive all’omicidio di Pasolini nel
buio desolato dell’Idroscalo di Ostia. Quando la polizia si era portata lì, nelle prime ore del mattino,
c’erano dei curiosi attorno al corpo e di lì a poco, nel campetto attiguo, si sarebbe giocata una
partita di calcio con tanto di pallone che cadeva nella zona del delitto e veniva rinviata da poliziotti
gentili. Spariscono tracce, specie quelle degli pneumatici e dei passi. Indizi che credo sarebbero
stati utili per accertare quante persone si fossero trovate lì e la dinamica dei fatti. L'automobile, la
«stanza» fondamentale delle prove, viene consegnata alla scientifica solo quattro giorni dopo il
delitto. In quella Alfa 2000 ci sono un maglione e un plantare per scarpe che non appartengono né a
Pasolini né a Pelosi. C'è sulla portiera del passeggero, non quella del guidatore nella quale il
ragazzo dice di essersi infilato di corsa per fuggire, una macchia di sangue, come l'impronta di una
mano appoggiata. Ma l’auto, nel deposito della polizia, era rimasta aperta e sotto la pioggia.
Poi c’è un altro particolare. Pelosi ha solo un graffio sulla testa e una macchia di sangue sul polsino.
È assai strano che sia così se le cose sono andate come lui ha raccontato, se c’è stata la feroce
colluttazione che il ragazzo descrive nel suo volume «Io, angelo nero»: «Lui si trasformò in una
belva. I suoi occhi erano rossi rossi e i tratti del viso si erano contratti fino ad assumere una smorfia
disumana... Lo stesso bastone me lo tirò in testa, io mi sentii spaccare in due, il cuore mi batteva
fortissimo. Lui si fermava poi ribatteva ancora... Fatto qualche metro mi afferrò e mi tirò un
cazzotto sul naso...», poi il racconto di una rissa selvaggia. Pasolini verrà ritrovato pressoché
irriconoscibile, un «grumo di sangue». Ma a Pelosi basta, come raccontò, fermarsi ad una
fontanella. Potrei continuare. Ma vorrei tornare alle parole del giudice Moro. Non credo che fosse
un «complottista». Credo avesse osservato dati di fatto e incongruenze. Chi poteva avere interesse
ad uccidere Pasolini? Sulle colonne di questo giornale aveva scritto meno di un anno prima il
famoso articolo «Il romanzo delle stragi », quello in cui diceva di sapere «i nomi delle persone serie
e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai
malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer o sicari... Io so
perché sono un intellettuale, uno scrittore che... coordina anche fatti lontani, che mette insieme
pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là
dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero».
Non so se queste parole abbiano preoccupato qualcuno, se abbia preoccupato il lavoro che
conduceva per la scrittura di «Petrolio». Ma erano anni bastardi, non dimentichiamoli. Anni in cui
da destra e da sinistra venivano compiuti, come fossero normali, atti inauditi. Ai quali spesso
seguivano appelli ben firmati per la libertà dei responsabili. Come accade per gli assassini dei
fratelli Mattei che ora sono liberi in Sudamerica. Anni bastardi, nei quali poteva bastare essere una
donna e civilmente impegnata per essere sequestrata e violata, come accadde a Franca Rame. Anni
nei quali si facevano stragi e si ordivano trame. Non bisogna essere «complottisti» per domandarsi
cosa diavolo c'entrasse la banda della Magliana con la scomparsa di una giovane cittadina vaticana
o con l'intricata vicenda del Banco Ambrosiano o con il rapimento di Moro. Ma al di là delle
convinzioni personali e persino al di là della ricerca di una matrice politica del delitto Pasolini
esistono una serie di evidenze sulle quali oggi forse si può fare chiarezza. E non solo perché nel
2005 Pelosi ha ritrattato tutto dichiarando che ad uccidere Pasolini erano stati tre uomini che lui non
conosceva. Ha detto molte verità il ragazzo e, dunque, forse nessuna verità. Mi domando che
interesse avesse, in quel momento, a riaprire una vicenda per la quale aveva già scontato la pena. Mi
domando se forse il tempo passato non avesse rimosso ciò che, negli anni del delitto, gli faceva
paura.
Ma non conta. Stiamo ai dati di fatto: il paletto insanguinato, i vestiti, il plantare. Oggi le nuove
tecnologie investigative consentono, come è avvenuto per via Poma, di riaprire casi del passato.
Anche qui voglio usare parole non mie ma quelle che nascono dall’esperienza di Luciano Garofano,
che ha diretto il Reparto Investigazioni scientifiche di Parma. Garofano è coautore con il biologo
Gruppioni e lo scrittore Vinceti di un libro che si è occupato del caso Pasolini. «Oltre alle analisi del
Dna che si potrebbero effettuare su molti reperti (alcuni dei quali mai sufficientemente presi in
considerazione: il plantare, il bastone, la tavoletta...), attraverso lo studio delle tracce di sangue e di
sudore, le scienze forensi vantano oggi un nuovo, importante alleato... La disponibilità degli abiti di
Pasolini ma soprattutto quelli di Pelosi, ci consentirebbe di ottenere importanti informazioni sulla
modalità dell’aggressione. Dallo studio delle macchie di sangue ancora presenti, si potrebbe infatti
stabilire (e magari confermare) la tipologia di armi usate per colpire, le posizioni reciproche
dell’omicida e della vittima e riscontrare quindi l’attendibilità della versione fornita allora da
Pelosi... Un caso che, come tanti altri enigmi del passato, non possiamo considerare chiuso».
Ecco, signor Ministro, è questo che voglio chiederle. Per questo, come per altri fatti della orribile
stagione del terrore (come il caso di Valerio Verbano o gli altri che con il sindaco Alemanno
abbiamo proposto alla sua attenzione) ora si può, si deve continuare a cercare la verità. Forse
saranno smentite le convinzioni del giudice Moro, forse ci sarà una nuova ricostruzione. I magistrati
a Roma hanno lavorato con dedizione e scrupolo alla soluzione del delitto di uno dei più grandi
intellettuali del nostro tempo. Ora la scienza e le tecnologie possono aiutarci a dire una parola
definitiva. E lei, fornendo un impulso all’iniziativa della giustizia potrà assolvere ad una funzione
assai rilevante. Conviviamo da anni con un numero di ombre insopportabile. Più ne dissiperemo e
meglio sarà per tutti noi, per il nostro meraviglioso Paese. E più ancora della verità giudiziaria credo
ci debba oggi interessare la verità storica. Grazie, Signor Ministro, della sua attenzione.
Walter Veltroni, 22 marzo 2010

fonte: www.pasolini.net

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