“Com'è triste il giorno di maggio dentro il vicolo povero e solo! Di tanto sole neppure un raggio, con tante rondini neanche un volo..”
Cominciava così “La gioia perfetta”, la poesia che la Maestra ci spiegava quella mattina di maggio. Una poesia che in quegli anni andava per la maggiore nelle scuole elementari che narrava di una povertà ben portata; una povertà serena perché “pure, c'era in quello squallore, in quell'uggia greve e amara, un profumo di cielo in fiore, un barlume di gioia chiara.”
Non c’era da dolersene, in fondo non era drammatica, una condizione della vita che non era colpa di nessuno, e poi bisognava anche sapersi accontentare di quello che si aveva, gioendo delle piccole soddisfazioni che non erano per niente negate. I fiori, per primi, ma anche i bambini.
“C'era... c'erano tante rose affacciate a una finestra, che ridevano come spose preparate per la festa. C'era, seduto sui gradini d'una casa di pezzenti, un bambino piccino piccino dai grandi occhi risplendenti.”
Si sa i bambini stavano seduti sui gradini delle case, magari soli; non crescevano molto perché le vitamine e le proteine non abbondavano. Gli occhi sembravano più grandi per la magrezza atavica dei pezzenti, anche se risplendevano della luce che veniva da dentro, visto che il vicolo era strettissimo, tanto il sole non penetrava e neanche le rondini riuscivano a volare tra le case.
Va bene, via, non si potevano lamentare, e neanche noi alunni. Una bella poesia che si mandava bene a memoria, che non avrebbe richiesto molte ripetizioni; ma non era finita.
La signora Maestra ci dette, quel giorno, una lezione che non avremmo scordato facilmente. Ci insegnò il significato della parola “razzismo”.
Le bastò spiegare il verso successivo:
“C'era, in alto, una voce di mamma
così calma, così pura!
che cantava la ninna nanna
alla propria creatura.”
Non fece la parafrasi del verso, ma una frase di sei parole con la quale definì il suo giudizio su alcune persone. Disse:
“Non come le mamme di Corea.”
Una frase detta “appena sussurrando, ma sembrava che stesse urlando” per l’enfasi e il disprezzo che trasudava.
La signora Maestra non intendeva riferirsi al paese asiatico, né al nord né al sud Corea. La sua frase era un giudizio sulle mamme e gli abitanti di un quartiere molto popolare di Livorno che, secondo lei, non erano degni neanche di essere poveri, perché non lo erano serenamente.
Ci dette una lezione indimenticabile! Non ci spiegò cosa volesse dire razzismo: lo dimostrò. Un “tipo ideale” weberiano, uno stato puro, non inquinato da ragioni di concorrenza lavorativa, di religione, di razza o di colore. La semplice avversione e il disprezzo per chi non era, nella sua versione, né calmo né puro e forse neanche molto degno di mettere al mondo figli.
La poesia terminava con la morale positiva.
"E poi dopo non c'era più nulla... Ma, di maggio, alla via poveretta basta un bimbo, un fiore, una culla per formarsi una gioia perfetta."
La nostra Maestra quel maggio, in aula, c’insegnò molto di più.
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