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Puccini e la luna

di Nunzio Campanelli
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Pubblicato il 21/07/2015 11:03:38

Milano, 26 aprile 1926. Teatro alla Scala, première della Turandot di Giacomo Puccini. Dirige il Maestro Arturo Toscanini. A metà del terzo atto, dopo il verso “Dormi, oblia, Liù, poesia!” il gande direttore arresta la rappresentazione. L’intera sala precipita in un silenzio tombale. Fermo in una posa statuaria, Toscanini avverte il pubblico che la rappresentazione terminava perché a quel punto il Maestro Puccini era morto. Gli applausi quella sera sembravano non avere mai fine.

 

Ansedonia, comune di Orbetello, Settembre 1922. Torre della tagliata. Lungo il ciglio del canale scavato nella pietra dalle mani di antichi scalpellini oltre ventidue secoli prima, passeggia solitario un uomo vestito d’un completo  leggero. Si ferma per godere di un po’ ombra fornita da una piccola rupe, la testa imperlata di sudore. Con un fazzoletto cerca di asciugarsi, ma subito altre gocce sostituiscono quelle appena deterse. Approfittando di un leggero rialzo vi si siede sopra, lasciando le gambe ciondolare all’interno del canale, dove la risacca spinge l’acqua marina in una vorticosa risalita fin sotto ai suoi piedi, per fermarsi alcuni istanti come preda di un’illusione d’infinito, e poi precipitare nella ridiscesa al mare.

-       Maestro!

L’uomo, immerso nelle sue meditazioni, sembra non sentire la voce che lo sta chiamando.

-       Maestro Puccini!

Il secondo richiamo giunge a segno. Il celebre compositore si volta verso la persona la cui insistenza sembra non volersi arrendere.

-       Che c’è?

-       Il signor Adami, Maestro!

-       Che vuole?

-       Ma… lo abbiamo chiamato noi!

-       Sì, sì. Digli di aspettare.

Il domestico, soddisfatto della risposta si avvia verso la torre. Poi, come preso da un dubbio improvviso, si volta di nuovo per chiedere.

-       Scusi Maestro. Aspettare…quanto?

-       Ma…vi siete coalizzati?  Quanto, quanto… digli che, se vuole, può raggiungermi qui.

Il servitore si allontana in direzione della villa, una vecchia torre di guardia del sedicesimo secolo rimessa a posto, dove negli ultimi tempi Puccini aveva preso ad abitare.

“Bianca al pari della giada, fredda come quella spada, è la bella Turandot!”

Quei versi gli giravano in testa da alcuni giorni, ed erano il suo cruccio, il dilemma che non riusciva a sciogliere. Come poteva rendere in pieno la metamorfosi della principessa, da algida sanguinaria a tenera innamorata. I librettisti poi non lo aiutavano certo, lui parlava, parlava, e loro sempre ad annuire, ma non capivano… quel mondo così lontano, così… cinese!  

Si rimette in piedi. Il sole ha preso con decisione la via di ponente, e alta nel cielo si può distinguere una pallida luna che tenta di confondersi con un gruppo di nuvole. Il mare sembra più gonfio, e le onde entrano nel canale con fragore.

-       Maestro! Maestro!

Puccini si volta verso il punto da cui proviene la voce, scorgendo un uomo che agita le braccia nel tentativo di richiamare la sua attenzione.

-       Chi è?

-       Maestro, sono io! Adami!

Come sorpreso da quella apparizione, Puccini segnala all’uomo di raggiungerlo. Questi si avvicina con una cartella in mano, visibilmente preoccupato per il fatto di dover percorrere quel sentiero così accidentato.

-       Maestro, ho portato l’ultima stesura. Questa volta ci siamo!

-       No.

-       Ma… almeno le dia un’occhiata. Come fa a rifiutarla se non l’ha nemmeno letta!

-       Certo, la leggerò con cura, ma ora mi ascolti. Lei sa da quanto tempo lavoro per riuscire a concludere quest’opera. Ogni ora, ogni minuto del mio tempo ormai la dedico a Turandot. Sono arrivato al punto che tutta la mia musica finora scritta non mi piace più. Perché?

-       Ma… non saprei.

-       Certo che no. Io stesso l’ho capito solo pochi minuti fa, guardando quella luna, quella stessa luna tante volte invocata da Turandot. Chi come lei? Forse Mimì, Manon, Tosca, Minnie, Suor Angelica? Ho cercato nel mio universo, ma una come la principessa cinese non c’è. Allora ho capito che finisce qui.

-       Cosa?

-       L’opera. La Turandot, no?

-       Scusi, ma non la seguo.

-       È finita. L’opera è finita proprio nel punto in cui mi sono fermato, dove si racconta del compianto per la morte della schiava Liù. Oltre non posso andare, lì ho raggiunto il massimo splendore. Scriverò subito una lettera a Ricordi.

Adami lo guarda sconsolato. Le sue mani stringono l’ennesima versione del finale del libretto della Turandot, e Puccini sostiene che non solo non va bene, ma che addirittura non serve più.

-       Vede, Adami, Una donna come Turandot non l’avevo mai incontrata. La morte, gli enigmi, il rifiuto del matrimonio, il pensiero incessante dello stupro subito dalla sua antenata, il piacere di vedere decapitati i suoi pretendenti, la rivalità con il padre e la volontà di sfidare il popolo. Turandot è una ribelle, una donna in rivolta. Turandot è nel mito, è un mito. Turandot è Medea. E, con Medea condivide la stessa angoscia, ferocia, fragilità. E una donna come questa volete che io la rappresenti mansueta come un agnellino, come voi avete fatto nel finale? Non posso. Non esiste musica che possa farlo. Guardi la luna, Adami, ora che il sole va spegnendosi nell’imminenza della notte, guardi come dilaga la sua luce smorta. Noi possiamo solo ammirarla da lontano. Come la bella Turandot.

I due uomini s’incamminano verso la torre. Il mare sempre più grosso s’incunea nella tagliata etrusca muggendo come un toro. Nella torre Puccini una macchia di luce disegna i contorni di una porta, che pian piano si chiude.

 

Bruxelles, Novembre 1924. Giacomo Puccini muore di infarto, stremato da un tumore alla gola. La Turandot rimarrà incompiuta. Al musicista Franco Alfano fu commissionata dall’editore Ricordi la stesura delle ultime due scene.

 

 

 

Il racconto tratta di Turandot, principessa orientale, fiaba teatrale di Carlo Gozzi, che Adami e Sironi usarono come base per la stesura del libretto dell’omonima opera lirica di Giacomo Puccini. Ma la vicenda della principessa bella e crudele ha origini molto più antiche derivando da un brano de “Les Mille et un Jour” di Francois Pétis de la Croix, un orientalista francese che a sua volta fece ampio riferimento a un manoscritto del XII secolo, “Haft Paikar” (Le quattro bellezze) del persiano Nizàmi. Nel racconto si fa riferimento al mito di Medea, ma tale richiamo deve considerarsi assolutamente non esaustivo, essendo Turandot un groviglio di costellazioni mitiche, dove meccanismi narrativi intrecciano la donna e la morte nel duplice ruolo di protagoniste. Turandot come Medea, quindi, ma anche come amazzone orientale, come Atalanta, come Medusa, come Circe. Per Turandot il rapporto con l’altro sesso deve essere mediato dalla morte, in una sorta di battaglia tra i sessi dove si celebra la vittoria della femmina sul maschio.

Naturalmente il racconto, pur trattando di personaggi storici e luoghi realmente esistenti, è frutto di pura fantasia.

 

 


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