Pubblicato il 26/03/2010 16:35:00
Raccolta poetica di Eugenio Nastasi – che si è meritata il Premio Erice Anteka per la poesia edita – in cui aggetta un poeta nel pieno possesso dei suoi mezzi espressivi. Con la più vivida efficacia, Nastasi, instaura un discorso poetico che fa leva su una metrica pervasa da sonorità e assonanze molto prossime, a mio avviso, ad una scrittura tipicamente montaliana, si ha infatti, da subito, dai primi persuasivi versi, la sensazione di una scrittura importante ma familiare, che scorre fluida e innesta il lettore in una più ampia tradizione poetica esistenzialista che intinge il sentire negli umori di una immediata evidenza visiva. Mi permetto di accostare, al fine di un più esplicativo risalto, alcuni versi del poeta Nastasi ad alcuni versi noti di Montale, tratti da “Ossi di seppia”:
Abbiamo già percorso lo stesso luogo tante volte, estinta nelle fibre la dimora dove attigue le voci convivono, […]
Ora sia il tuo passo più cauto: a un tiro di sasso di qui ti si prepara una più rara scena […]
La vicinanza di sonorità e di contenuti rende i due testi avvicinabili e mette in evidenza l’abilità del poeta Nastasi, ponendolo in un luogo di serena vita poetica, poiché dalla solidità della più prossima tradizione, l’autore di “Un sogno guidato”, sa spiccare un volo suo proprio nel cielo della poesia contemporanea, lasciandosi alle spalle il nido e raggiungendo nuove frontiere espressive in una scrittura pulita, accerchiante, decisa, mai cedevole poiché sorretta dal pieno significato di ogni parola, quest’ultima ricercata nel campo della musicalità e della semantica. È una poesia che sa ospitare, tra i propri versi, amicizie e confidenze che seguono, talvolta, la quotidiana mutevolezza della natura, senza mai arretrare in vezzi poetici fuori calibro, e riuscendo invece a evidenziare le parti sostanziali dei sentimenti umani attraverso analogie e profonde considerazioni: “[…] lo specchio insegna che il legame / con quello che più gli somiglia / è insensato.” (Lo specchio ci guarda, pag. 24); “[…] qualcuno comincia a pensare / che non v’è porta ma muro / e solo muro.” (L’occhio del custode, pag. 23). Nastasi sa ben marcare, e strettamente, le relazioni con il Sé poetico, aperto ad un ascolto e a un dialogo vero con il mondo, fatto di oggetti e scenari ai quali, il suo poetare, riesce a dare o a togliere valore: “[…] / Si direbbe / che niente cambia di una vita / se non distinguere / la brezza che la sveglia. / […]” (Passano accanto le cose, pag. 22). Vi sono, inoltre, perle, o briciole, di saggezza disseminate con continuità in tutta la raccolta, seguendo le quali ci si arricchisce di significati metabolizzati dall’autore e generosamente, oltreché piacevolmente, proposti fin dalla prima pagina della raccolta, ma senza mai privare il lettore del suo spazio di elaborazione critica: “[…] / A un uomo occorre nascere / più in alto / dove una preghiera / mette a posto le cose.” (Via san Martino, pag. 36). Segnalo inoltre la bellissima poesia dedicata al fratello Nicola “In viaggio con mio fratello maggiore”: “[…] / Mio fratello e io siamo dello stesso / segno, quanto a letture / abitiamo in camere separate. / […]” (Pag. 61). Un poeta da leggere, soprattutto per questo suo retrogusto che si innesta nella più prossima tradizione poetica del Novecento, ma che procede ad ali dispiegate sul mare della modernità.
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Proponiamo infine un contributo critico di Antonio De Marchi-Gherini al libro di Eugenio Nastasi:
Quello che Eugenio Nastasi ci consegna è un libro dalle varie interpretazioni possibili. Dialogo con sé stesso o con un altro/a che fa capolino . discorso e dettato poetico volutamente basso nei toni e nella cernita dei lemmi. E d’altra parte lui stesso ci facilita il compito. Leggiamo a pag.55:”Scrivo su note basse/ chiosando i fatti della vita/ e non perdere memoria dei pensieri/ che segnano gli errori./ Note subliminali ci guidano,/ labirinto segreto/ tra il bene e il male come trama/ di un broccato./ Liberi?/ L’intreccio ci irride e debole il suono/ della tua nota/ lotta in attesa di essere seguita.” Alcuni tracciati della poesia contemporanea sembrano passare per cunicoli forzati , per aperture ove il rovello dello spirito non cerca di riplasmarsi per delimitare o contenere. Non è così per il vissuto e l’immaginario rappresentato in queste pagine di Eugenio Nastasi. Lieve e sottaciuta, ma presente, un’ironia amara ci conduce ad una sorta di cadenzato passo epigrammatico. Il discorso esplorativo tiene ben presente gli ultimi esiti della psicanalisi e della psicosintesi applicata all’arte. Potremmo parlare di ‘poesia scientifica’ nella disanima dei sentimenti umani, degli umori e delle folgorazioni che appartengono e pertengono all’essere umano e alla vita quotidiana. Insomma la parola feriale di Nastasi non è, come in molta poesia attuale, il labirinto chiuso della propria coscienza, è parola evocativa di rappresentazione della coscienza. Leggiamo “training autogeno” (pag.41): “Riposati, mio cuore, dormi, non é/ così vicina, né legata al polso/ che batte, l’ora che può cambiare/ il corso della tua vicenda,/ niente sprona più intensamente/ l’avidità della luce/ se non la gioia e la paura di sapere; (…)” Bisogna riconoscere ad Eugenio Nastasi un tenace lavoro di lima, di scorporo di concetti e levature, per lasciare il netto e non il lordo di certa poesia prolissa e vaniloquente. Lavora di bulino e anche di raspa: Il respiro a volte si fa affannoso e grave, ma poi si riprende. Sotteso al testo, non poi tanto nascosta, vi è una fede cristica che lo sorregge e corrobora. In altro luogo ho parlato di somiglianza a certa poesia anglosassone per l’uso del quotidianese e per la folgorazione di certe immagini icastiche, una lussureggiante descrizione dell’animo umano e delle sue pulsioni, anche le più nascoste e dissimulate, inserite in un paesaggio interiore ed esteriore quasi metafisico. A volte i testi paiono prose poetiche di una semplice e luminosa chiarezza. Paesaggi illuminati e compenetrati dal motivo amoroso. Viene alla mente il miglior Cardarelli dove l’intensa riflessione brucia il fondo prosastico e alimenta quel martellante recitativo, quel monologo che giustamente fu detto drammatico. Poesia autobiografica la si potrebbe definire, ma di un autobiografismo che non ha nulla di intimistico, o quand’anche lo sfiora, lo fa con grazia leggera. Ora sarebbe il caso di illuminare o abbuiare il lettore con altre citazioni, ma credo di aver detto l’essenziale e per il resto rimando alla lettura della raccolta, compatta e coesa nel suo dire. Il poeta offre un lavoro che si distingue per la tendenziale organicità e completezza, mettendo in essere l’energico fluire del verso che, come limpida acqua lustrale, purifica lo sguardo e invita a seguirlo in questo suo cammino nel paesaggio interiore dell’anima e nel suo viaggio verso l’infinito. Anche se il nostro i piedi li tiene saldamente ancorati a terra, buon per lui, con alcuni punti fermi, che come dicevo poc’anzi, gli derivano da un fede cristiana e cattolica priva di dubbi, almeno nei suoi contenuti essenziali.
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