Sto seduta ad un tavolino del bar interno al nosocomio dove Giovanna venne ricoverata.
Oramai sono tre mesi che, ogni mattina, vengo qui. Mi siedo, ordino un caffé schiumato e un micidiale croissant che farà lievitare il mio peso corporeo il più possibile, così sarà in perfetto equilibrio con l’anima: entrambi ignobilmente gravosi.
Resto almeno tre ore, con lo sguardo fisso all’entrata dell’ospedale, fumando un numero indecente di sigarette. Non faccio altro: guardo il flusso di persona in entrata e in uscita, digrignando i denti ad ogni paziente amorosamente accudito da un qualsiasi parente.
Sono occupata nel mio stalking visivo quando, come fosse sorta dal nulla, una voce maschile mi distoglie dalla mia occupazione. Vorrei girarmi e mandare affanculo questo ridicolo quanto disperato moscone. Invece, alzo gli occhi e dico: “Cosa?”
“Mi sono presentato: piacere, Sandro.”
Lo guardo e, sinceramente, tutto sembra meno uno che voglia provarci. È piuttosto giovane, almeno se lo paragono a me; è bruno, snello, alto ed ha due occhi neri che quasi non lasciano distinguere fra iride e pupilla.
“Una strana coincidenza: io mi chiamo Sandra!”
Mi sorride e si scusa per avermi disturbata: è il gestore del bar e, nel vedermi tutti i giorni seduta lì, ha sentito di doversi avvicinare. Mi chiede se, per caso, ho qualcuno ricoverato lì. Così, senza un perché, mi ritrovo a raccontargli la mia (la nostra, Amore mio bellissimo) storia.
- Avevo 27 anni, quando conobbi Giovanna. Fino ad allora avevo avuto solo due brevi storie, durate niente. Mi ero convinta che, nella mia condizione, era meglio rimanere sola. D’altra parte, avevo tanti amici, ero impegnata socialmente, in famiglia mi amavano e non facevano pressioni perché io mi trovassi una sistemazione autonoma. Certo, mia madre era preoccupata per me. Affermava che se avessi continuato ad allontanare gli uomini con quel mio fare “da maschio”, non avrei permesso a nessuno di capire che bella persona fossi. Quando diceva “da maschio” si riferiva alla mia indipendenza, al mio innato sarcasmo e alla tendenza a non assumere atteggiamenti che venivano reputati femminili mentre a me apparivano civettuoli e leziosi (“mi apri la bottiglietta che non ce la faccio?”, detto alla fine di un allenamento durante il quale avevo scagliato un centinaio di palloni, del peso di mezzo chilo, da una parte all’altra del perimetro di gioco e, spesso, ripetuto serie di cinquanta flessioni a bordo campo ad ogni risposta data, senza il suo permesso, all’allenatore).
Giovanna comparve nella mia vita in una soleggiata giornata autunnale, una di quelle “ottobrate” romane che tanto amo.
C’eravamo dati appuntamento in uno spiazzo nei pressi del casello autostradale di Roma. Un bel gruppo di amiche e amici che andavano all’assalto della casa di proprietà della nonna di Paola a Capalbio, armati di chitarre e spartiti vari. Lei era un’amica della nostra ospite e mi colpì immediatamente per la sua bellezza da mozzare il fiato. Alta, snella, muscolosa ma aggraziata. Una massa di riccioli neri le incorniciava il volto lievemente squadrato e illuminato da due occhi insolitamente pervinca.
Sembravamo essere state create per rappresentare gli opposti: lei olivastra e io candida, lei corvina e riccia e io bionda e liscia, lei efebica e io giunonica.
Ma si sa: gli opposti si attraggono. Sin dal primo contatto, avevo avvertito che fra noi c’era una “canale aperto”, attraverso cui cominciava a fluire un’immediata simpatia.
La sera, dopo aver cenato, su richiesta del gruppo, presi la chitarra e cominciai a intonare una canzone dietro l’altra. Malgrado avessi gli occhi attenti al libro d’accordi, non mi era sfuggito lo sguardo penetrante di Giovanna che si era appuntato addosso alla mia persona.
Poco prima che facesse giorno ci congedammo. Io uscii per fumare una sigaretta e lei mi seguì.
Ci ritrovammo affacciate ai merli delle mura medioevali del paese. Parlammo a lungo, sommessamente, scoprendo tante piccole e grandi affinità: la musica, la letteratura, le riflessioni sul senso della vita e dell’oltre… andammo a coricarci che il sole sorgeva. Quello che non immaginavamo era che stava nascendo, in quell’esatto momento, un indissolubile amore.
Quando mi resi conto d’essermi innamorata di una donna, la mia prima reazione fu di terrore allo stato puro. Era peccato. Se avessi assecondato quel sentimento avrei dovuto rinunciare alla fede nella quale ero stata educata, ai sacramenti e, pensiero atroce, alla mia famiglia. I miei genitori non avrebbero mai compreso, mai!
Il fatto era che, sapendo chiaramente d’essere ricambiata, più mi riproponevo di non incontrarla più, più la cercavo. Ad ogni incontro, il nostro rapporto si faceva più solido e appagante; ad ogni rientro a casa, la mia depressione aumentava in maniera proporzionale alle bugie che andavo raccontando. In realtà non ce ne sarebbe stato alcun bisogno ma, visto che mi sentivo terribilmente in colpa, infiorettavo di menzogne una realtà che sarebbe stata interpretata solo come una buona amicizia. A nessuno sarebbe passato per la testa che lei fosse la mia donna: era del tutto naturale che avessi una “migliore amica”.
Per Giovanna era diverso: orfana e figlia unica non aveva parente alcuno e viveva da sola già da cinque anni. Per lei, non praticante e consapevole della propria omosessualità da molti anni, tutto evolveva con più serenità e meno inciampi. Però mi comprendeva e pazientava. Ma la pazienza ha un limite: cosa stavamo aspettando? Avevamo traccheggiato per quasi tre anni a causa mia. Non potevamo continuare a salutarci da buone amiche, sotto il mio portone, ogni santa sera tranne quelle in cui, con l’ennesima scusa, rimanevo a dormire da lei.
Così mi decisi ed affrontai il primo dramma familiare. Perché dovevo andarmene? Nessuno mi cacciava di casa e, per giunta, da anni ero ormai il sostegno morale e fattivo dei miei genitori. Spiegai che i trenta anni s’avvicinavano e sentivo di dover vivere da sola. Avevo un lavoro ed un posto in cui andare a vivere: la mia amica Giovanna aveva spazio in casa e mi chiedeva un piccolo affitto. Arrivò il giorno del trasloco: me ne andai fra abbracci muti e sguardi colmi di lacrime, con il cuore a pezzi e la coscienza sporca.
Ma quello fu il giorno più bello della mia vita. La sera, a “casa nostra”, ci fu una sorta di festa nuziale, durante la quale, al cospetto dei più fidati fra amici e amiche, ci scambiammo le nostre promesse d’amore. Ci regalarono una torta a più piani sulla quale, in cima, troneggiavano due spose: una mora e l’altra bionda, infilate in due “meringosi” abiti bianchi con tanto di velo ed assolutamente identici. -
Sandro mi interrompe, offrendomi un bicchiere d’acqua e mi chiede: “A parte i bruciori d’anima sembra una favola. Tutto così idilliaco, come in un film da prima serata?”. Rido, roca e cupa: “No, decisamente non lo considererei un film da prima serata… in Italia? Ma immaginati. Due lesbiche monogamiche in prima serata!” E riprendo il mio racconto proprio dalla parte meno idilliaca della storia.
- All’inizio, a parte gli sguardi interdetti e, in alcuni casi, scandalizzati di alcuni coinquilini, tutto andava più o meno liscio. Eravamo ormai avvezze agli epiteti e alle battute sconce che ci raggiungevano, come sassate contro la nuca, quando passeggiavamo mano nella mano. Però, al contrario di Giovanna che osteggiava un’olimpica quanto efficace indifferenza, il mio carattere passionale ed emotivo mi portava a reazioni meno eleganti. Una vaffa o un dito medio alzato mi scappavano e lei mi guardava con evidente riprovazione. Era un’attivista e, nei modi e luoghi deputati, non mancava né di far sentire la sua voce né di esporsi. Però riteneva che non bisognasse “andarsela a cercare”. Da romana doc quale era, soleva ripetere: “La madre degli imbecilli è sempre incinta. Che te ne frega?”.
Poi, arrivò la sera in cui, durante una cena con i miei ineffabili colleghi, si arrivò a parlare delle leggi a favore delle coppie di fatto. La Contini, fervente cattolica e castigatrice del mal costume, smise improvvisamente di fare piedino sotto la tavola al Senigallia, contabile arcigno ma amante focoso di mogli altrui, e cominciò a pontificare su come Dio “maschio e femmina li creò”, sulla fine fatta dagli abitanti di Sodoma, sulla dottrina della Chiesa e concluse benedicendo il fatto d’essere nata in Italia, paese civile e religioso nel quale, mai e poi mai, sarebbero passate leggi a favore di “quelli”. Fino a lì, devo ammettere, Giovanna ed io non facemmo una piega, limitandoci a scuotere la testa. Prima che una delle due potesse dire la sua, il Bagatin, ragioniere e cavaliere del lavoro nonché datore di lavoro, rubizzo in volto per il troppo vino ingollato, intervenne con voce stentorea e stridula: “Du’ màsci che xe confóndan el bòfice mi me fa' rimétare; du’ fémenè, ciò, me fa' incancarìre l’osèlo!” Fu prontamente tradotto da Proietti, il più abile lecchino dell’azienda: “L’avete ‘nteso er Capoccia: du’ maschi che se scambieno er culo lo fanno rimettè ma du’ femmine jelo fanno venì duro!”. Grasse risate, botte di gomito, porcate da trivio… un successone: un po’ per somma ignoranza, molto per grande piaggeria!
Giovanna si alzò sorridente, tenendo stretto nella sinistra un bicchiere colmo di rosso e con grazia si avvicinò al vecchio che la guardò voglioso e pronto al brindisi. Una volta che gli fu accanto, levò il calice e, lentamente, ne svuotò il contenuto sulla testa canuta che, insieme a giacca, camicia e pantaloni, andò a tingersi di un bel rubino. Il Presidente fece per alzarsi ma lei lo rimise seduto sibilandogli: “Brutto maiale, sono io che vomito e ringrazia Dio che vado a farlo in strada invece che sulla tua capoccia piena di lerciume!” Poi, si rivolse a me, e mi intimò: “Sandra, alzati che ce ne andiamo. E saluta ‘sti quattro stronzi trogloditi perché tu non li vedi più!”
Mi tirai su dalla sedia con le gambe molli e tremanti e la seguii, dopo aver lanciato il tovagliolo ed un’occhiata di fuoco all’intero consesso.
In macchina non dicemmo una parola: le mani di Giovanna, aggrappate al volante, tremavano e io piangevo sommessamente, impigliata tra il disgusto per quanto accaduto e la tragica evidenza di essere rimasta disoccupata.
Lei frenò all’improvviso, facendomi sobbalzare. Eravamo ancora distanti da casa, a margine di una strada male illuminata. Si voltò verso di me, guardandomi con gli occhi colmi di un dolore inimmaginabile: “Perdonami. Non avrei dovuto. Ho scelto al posto tuo… ho fatto un casino.”
Non le risposi. Presi le sue mani e le baciai poi cominciai a lambire la sinistra, leccando via ogni rimasuglio di vino; compiuta l’opera, le dissi: “Ecco è pulita. Ora non c’è nulla che ci ricordi questa serata orrenda.”
Seguirono giorni duri, passati a consegnare curricola, postare annunci e pregare tutti i santi. Ma alla fine, arrivò una delle più belle mail che abbia mai ricevuto. Mi scriveva un’Associazione no profit; mi volevano come segretaria di redazione della loro rivista. Contratto a tempo indeterminato e una dignitosa retribuzione. Fu così che cominciai a capire che il lavoro può veramente nobilitare l’uomo.
Furono tre mesi perfetti fino al giorno in cui, mentre ero al giornale, squillò il cellulare. Avevano trovato il mio numero e mi chiedevano di recarmi prima possibile al Policlinico Casilino, presso il Pronto Soccorso dove tal Giovanna Bassi era stata portata in seguito ad un incidente d’auto.
Mi scapicollai, terrorizzata. Mi chiedevo cosa avrei fatto se l’avessi trovata morta.
Una volta giunta all’accettazione, chiesi di lei. L’infermiera mi disse cortesemente: “È una sua parente?”. Risposi che mi avevano chiamato loro, che ero la compagna e aggiunsi, quasi urlando: “È viva?” L’infermiera, visibilmente imbarazzata e infastidita, mi rispose di attendere; c’era un problema e doveva chiedere al responsabile sanitario. Mi parve fossero passate ore quando la vidi ricomparire a fianco di un giovane medico che mi comunicò che, non essendo una parente, non avrebbe dovuto dirmi nulla ma, data la grave situazione e l’indicazione espressa del mio contatto come persona da chiamare in caso di emergenze, si sentiva autorizzato a comunicarmi che Giovanna era giunta priva di conoscenza, con gravi lesioni craniche ancora da accertare con la dovuta precisione e che la stavano trasportando al reparto di neurochirurgia del CTO, alla Garbatella. Sussurrai un grazie, corsi all’auto e ripartii. Una volta al CTO, la scena si ripeté quasi invariata, non fosse per il fatto che ci misero un giorno prima di constatare che l’unica persona a cui riferire fossi io. I Carabinieri avevano accertato l’assenza di parenti o affini e, alla fine, in assenza di procedure e data la gravità delle condizioni di Giovanna, finalmente mi dissero che era stata operata d’urgenza ma posta in coma farmacologico. Sarebbe rimasta in quello stato sino al momento in cui il primario non avesse deciso che si poteva rischiare di richiamarla alla coscienza. Solo allora avrebbero potuto constatare la gravità dei danni subiti.
Chiesi di poter accedere al reparto di rianimazione negli orari stabiliti. E lì, ricominciò la trafila. A che titolo potevano accordarmi un tale permesso? Rimanevo attaccata al vetro ma potevo solo scorgere dei ciuffi rossi che spuntavano da una sorta di letto/lettiga dal quale si dipanavano mille fili. Poi, tornavo alla carica: perché gli altri potevano entrare, bardati di tuta sterile, soprascarpe e mascherina, per sussurrare ai loro cari parole che li confortassero o che confortassero loro stessi? Finalmente, al quinto giorno di degenza, comparve il primario: era una donna ed era lei che aveva operato Giovanna. Si avvicinò alla caposala e le vidi transitare in uno studiolo accanto alla sala di rianimazione. Udii chiaramente le sue parole. “Ma siete bestie o cosa? Quella è sua moglie da venticinque anni e me ne frego se non sta scritto da nessuna parte. Ora lei va, le fa indossare il necessario e la porta dalla compagna: sono stata chiara?”
Così, finalmente, ebbi modo di stare accanto a Giovanna anche se, quando il gatto non c’era, i topi tentavano di ricominciare con la loro macabra danza.
Ed il balletto riprese quando, incapace di comunicare se non con gli occhi e tetraplegica, fu trasportata nel reparto di neurochirurgia.
Potevo andare a trovarla nelle ore di visita ma, quando tentavo di avere notizie sul decorso post risveglio, la caposala, una suora arcigna e scostante, mi ripeteva stizzita che non era autorizzata visto che non ero una parente.
Le cose non andarono meglio una volta a casa. Erano passati mesi, Giovanna era stata licenziata avendo superato il periodo consentito di assenza per malattia ed essendo stata dichiarata inabile al lavoro. Ricevevamo un assegno che era poco più di un quarto dello stipendio che percepiva da lavoratrice; il CAD forniva l’assistenza di base ma io non potevo più chiedere permessi per assisterla. Mi rivolsi persino alla ASL per ottenere almeno il beneficio della 104 ma venni a scoprire che le modifiche all’originario testo dell’art. 33 comma 3° legge 104/1992, se da un lato avevano consentito di estendere il beneficio dei permessi lavorativi ai parenti ed affini non conviventi con la persona portatrice di handicap grave, avevano anche totalmente eliminato qualsiasi possibilità di interpretazione analogica della norma, al caso del convivente more uxorio che assista stabilmente la persona affetta da una grave minorazione.
Non avevamo soldi per pagare una assistenza domiciliare, io ero distrutta dalla fatica e dalla rabbia che montava ad ogni porta che mi si chiudeva in faccia e gli occhi di Giovanna si andavano spegnendo di giorno in giorno sino a quando, alle tre di un mattino invernale, si chiusero per sempre. –
Sandro mi porge un fazzoletto. Non me ne ero accorta ma ho il viso inondato di pianto.
Mi meraviglio: non avevo versato una sola lacrima sino a quel momento, chiusa in un livore torbido e muto che nutrivo contro tutto e tutti; ora, di fronte allo sguardo limpido di quel giovane, quell’odio si era sciolto e tramutato in una purificatrice pioggia di accorato dolore.
Sandro mi prende una mano e mi dice con dolcezza: “Posso presentanti Matteo? Matteo questa è Sandra, Sandra ti presento mio marito.”
Poi, solleva una bambinetta di colore e se la mette sulle ginocchia: “E questa è Fatima, nostra figlia. Fatima, saluta la signora!” La piccola solleva una manina paffuta e la agita verso di me.
Sandro sente di dovermi delle spiegazioni. Si erano sposati all’estero e avevano adottata la bimba. Poi, erano tornati in Italia ed avviato l’attività del bar. Ora, dopo che il Sindaco aveva registrato la loro unione, attendevano speranzosi che passasse la legge e che, finalmente, potessero essere considerati una famiglia. Lo desideravano perché era un sacrosanto diritto ma, soprattutto, per Fatima.
No, non ce la faccio. Non è invidia ma non posso tollerare la loro felicità, la speranza che ride tutto intorno a loro.
Giovanna ed io volevamo tanto avere dei figli, invecchiare insieme. Ora non c’era nulla e nessuno che potesse ridarmi ciò che mi era stato tolto: un amore così grande!
Sono passati tre anni: ho continuato a frequentare Sandro e Matteo, che ora sono regolarmente sposati. Fatima mi chiama nonna e spesso, i suoi papà me la affidano per qualche ora e giochiamo insieme.
So che in tanti pensate che siamo dei malati, degli anormali ma a me non interessa: sto qui che cucio un abitino a fiori per la mia nipotina e so che Giovanna, da lassù, mi guarda e sorride; ci rincontreremo un giorno, là dove l’amore non ha etichette né limiti: è solo amore e solo su esso saremo giudicati.
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