La poesia è magnifica.
Si regge da sola, corolla
senza gambo, sospesi cerchi
concentrici con al centro
un’essenza ineffabile
catturata in un momento
di rara grazia. Le parole venute
prima al labbro e poi alla penna
come un respiro puro e adorno di un’aria
di luna che si consumava nello spazio
siderale in una sera di un inverno
di un anno in cui procedevo
prossimo a un nirvana.
Gli a capo sono decisi
con la cura di chi da maestro
pota un bonsai millenario.
Le parole fluiscono l’una
nell’altra e sembrano essere state create
per questa destinazione,
per la felicità di questo approdo.
A volte, anzi sempre, sono così le rose:
foglie che stringono foglie e si aprono
guardando nello stesso punto magico del cielo.
Sono così talora i giardini, una pausa
nel mondo, celeste che si fa terrestre
perché ciò che sta sopra sappiamo
è come ciò che sotto si strugge nel suo desiderio.
Non c’è che dire, la poesia è memorabile,
peccato che non mi sia venuta, che non abbia
potuto fissarla sul foglio, donartela come acqua sorgiva
nel cavo delle mani che non l’hanno trattenuta.
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