Pubblicato il 16/03/2010 19:52:00
“Il macaco”, quattordicesimo volumetto della collana “Coincidenze” diretta da Mario Fresa per le Edizioni L’Arca Felice, si tratta di un poemetto sviluppato in nove brevi composizioni poetiche su altrettante pagine. Fuori testo, una grafica dello stesso autore, intitolata “Testa n. 31”, elaborazione digitale del 2008, rappresentante, in tonalità che sfumano dal rosso al viola, passando per un tenue rosa, su sfondo nero, un volto con la fisionomia di un macaco. Segnalo l’ottimo lavoro grafico dell’autore, che conferisce alla figura un certo tono inquietante a causa del gioco delle forme e dei colori degradanti l’uno nell’altro e che emergono dall’oscurità di sfondo, oscurità che riverbera negli incavi degli occhi e nelle narici, completamente oscure anch’esse. E’ la testa di un vivente dalla natura incerta che appare come in uno specchio deforme, effetto dovuto al farsi vago dei contorni e dei colori sui bordi della testa che rende il tutto diafano come in fase di materializzazione da un indefinito dove. Ebbene i testi poetici ben rappresentano quella sorta di inquietudine dello sguardo e che diventa, attraverso la parola (capacità propriamente umana) inquietudine esistenziale cosciente; mi sovviene alla mente, non so se a ragione, “Il libro dell’inquietudine” di Fernando Pessoa. Nel poemetto di Ricciardi vi è una sorta di tentativo di penetrare la realtà – e addirittura, in questa penetrazione, plasmarla – ben oltre l’evidente materialità del presente, usando la parola come discensore verso il mare dell’inquieta indefinita virulenza dei corpi, un mondo di pulsioni interiori talvolta misterioso depositato nella nostra creaturalità (non a caso il richiamo al “Chin p’ing mei” famosa costruzione letteraria cinese in cui vi è dissolutezza e un totale abbandono, anche nelle vicende criminali, al corpo e ad una sorta di animalità insita nell’uomo), creaturalità che unisce l’uomo al mondo naturale e terrestre, il macaco, e in cui si rispecchia un cielo ampio quanto la coscienza di esistere e del sapersi destinato alla morte, quest’ultima un non senso che la creatura, dal “volto riarso di rosa”, rappresenta in quanto vi è destinata: “è chiaro / nessuna lacrima scenderà / sul volto riarso di rosa / come bagnato nel sangue / del calmo macaco / che mette davanti a noi / la morte del mondo / senza sapere / senza fatica”.
Insomma se l’uomo da una parte è sospinto verso il cielo da una potente ascesi interiore che è rappresentata dalla parola, dalla voce, dalla comunicazione, dall’altro vi è la creatura, rappresentata dal macaco – così talvolta indolente quanto irriverente ed egoista –, che pesa sull’uomo. Nel suo essere creatura l’uomo ha un’unica direzione possibile verso il cielo (“- non ho due direzioni! -”), in una unitarietà tra spirito e corpo determinata dall’amore, udibile, verificabile e sostenibile nel peso del respiro.
E' ciò che ho letto tra le righe dei versi di Ricciardi, versi tesi e visionari che hanno destato questa mia personale meditativa interpretazione.
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