Pubblicato il 16/11/2008 08:53:14
Carissimo Lunedì, mi permetto di darti del tu perché ci siamo incontrati circa duemilacinquecentotrentadue volte. O, meglio, tante sono state le occasioni in cui ti ho visto passare. Probabilmente, in mezzo a tanta gente non ti sei mai accorto di me. Ma io c’ero. Non ho mai voluto mancare all’appuntamento anche se ci sono stati momenti in cui sarebbe stato bene che non mi facessi trovare. Spesso, quando sei arrivato, mi hai trovata sveglia ad attenderti. Erano le domeniche in cui rileggevo nella memoria “Il Sabato del villaggio” ed era un sollievo sapere che tu saresti giunto per tirarmi fuori da quella mancata festa, dal precetto del riposo non rispettato. Il 3 settembre del 1990 mi hai sorpresa, sposa novella, avvinta al sogno che l’amore sia eterno, immersa tra le braccia dello sposo, cullata dal profumo salmastro dei fiori di Apragopolis, città del dolce far niente. Quanto ero bella mentre, sentendo l’odore della sparita scala fenicia, salivo ad abbracciare Axel, con i capelli lunghi e sciolti che il vento impastava, intrecciandoli alle dita del mio uomo. Il 26 aprile del 1993 mi hai trovata Eva, a scontare la maledizione ereditata da una curiosa alla quale piacevano troppo le mele, frutto che non ho mai apprezzato. Pare che nel giorno del misfatto con lei ci fossero un serpente astioso ed un uomo succube e spione. Non so bene perché ma, per colpa loro, mentre tu giungevi, stavo urlavo di dolore e terrore. Poi, venne una strega, vestita da dottore che mi disse: “Biancaneve, mangia la mela”. Ancora? “Non mi piacciono le mele”. Comunque, dopo averla addentata, caddi in un sonno di morte. Non fu un bacio a risvegliarmi ma un caldo corpicino tremante che stringeva i pugni appoggiato sul mio cuore, una creatura palesemente scontenta per il fatto che qualcuno, approfittando della mio decesso apparente, l’avesse stanata dal liquido utero e punita con un immeritato ceffone. Il 25 febbraio di quest’anno sei venuto per me ma non per mia madre. Per lei hai portato due egregi sconosciuti che l’hanno tirata su come un sacco di patate e schiaffata dentro una cassa. Era un bel forziere di legno chiaro, foderato di bianca seta. Il suo vestito a fiori profumava come fosse primavera ed io, di nuovo, ero lì a voler disperatamente credere che l’amore sia eterno. Baciavo quel viso marmoreo esaudendo il desiderio di una vita, tenuto a bada dai guardiani dei musei, di appoggiare le labbra sui volti delle statue più belle, di accarezzarne i gelidi capelli, di seguirne con puri polpastrelli il profilo, di premere un po’ di più sulle nodose vene per trovarne il battito. No, non c’era battito se non, furioso e soffocante, in fondo alla mia gola. Domani ancora una volta, sarò all’appuntamento, anche se non ne ho voglia. Allora, scusa se te lo chiedo, non buttarmi in pasto al traffico e al senso del dovere senza prima avermi salutata, non dico con un carezza ma, almeno, con una schietta stretta di mano. E, se posso permettermi ed è in tuo potere, tieni a bada le Moire e torna a trovarmi. Poi, per quando arriverà l’ultimo giorno, ti prego, chiedi ad Atropo che recida filo di sabato. Così, finalmente, me ne andrò a ballare.
Sempre tua.
Maria
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