I figli della Libertà
come tutti i bambini del mondo
aspettano
il ritorno della madre.
( da Maram-al.-Masri, Arriva nuda la libertà, Edizioni Multimedia, 2014 )
Siria, carcere di Tadmur, luglio 2014
Nel silenzio di queste umide mura ascolto il silenzio del mondo. Tocco sulla mia pelle l’ingiustizia subìta. Nella mia terra, schiacciata tra la violenza di un regime sanguinario e l’estremismo del fondamentalismo jihadista, sembra non esserci più spazio per chi crede nella libertà o professa una religione diversa. Ci definiscono “terroriste” o “collaborazioniste con Paesi stranieri” pur di non ammettere che la fede cristiana e il coraggio di far sentire la propria voce contro la dittatura di Assad ci hanno portato qui. I paesi occidentali sanno del dramma che si consuma quotidianamente in Siria; sanno delle scorrerie dei ribelli fondamentalisti, delle violenze perpetrate dalla truppe del regime nei villaggi cristiani; sanno delle decapitazioni e dei rastrellamenti, delle bombe sganciate dal regime sui civili, delle scuole e degli ospedali distrutti, del fuoco incrociato dei cecchini, delle razzie di casa in casa, della mancanza di cibo, di medicinali e persino di acqua. Politica, interessi, alleanze e menzogne; l’unica cosa che so io, ora, è che sono rinchiusa qui, in questo carcere lontano dal mondo, nel deserto vicino a Palmyra. A stento scrivo queste righe, e spero che nessuno si accorga di questo piccolo quaderno, l’unica cosa che sono riuscita a nascondere dopo il mio arresto. Ma ha ancora un senso sperare? Sono qui da poche ore e non so che cosa ne sarà di me e, soprattutto, cosa ne è stato della mia famiglia, dei miei figli. La realtà è crudele e le favole, nella mia vita, hanno sempre avuto un tempo breve. La giustizia, in questo mio Paese, è diventata una chimera. Per non cadere nella disperazione penso ai miei figli. Mi basta questa magia, questa mia personale vittoria sulla solitudine per sentirmi più forte dei carcerieri, baldanzosi nelle divise nere, con tanto odio dentro il cuore e la mia vita nelle loro mani. Stanotte ho sentito le grida delle altre recluse. Non mi illudo: tra poco le torture toccheranno anche a me. In questo luogo senza tempo cerco di non perdere il conto dei giorni ma la solitudine è più forte di qualsiasi proposito razionale. La reclusione è una forma di abbandono in un tempo prolungato.
Non ho idea di che cosa succeda nel mondo esterno, ho perso ogni contatto. Per sentirmi viva ho iniziato a immaginare storie ma i miei eroi, puntualmente, vengono sconfitti. Purtroppo la fantasia non riesce ad andare oltre… e il cerchio si chiude. Per non impazzire e per non spengere la mente - cosa che i nostri carcerieri desiderano più di ogni altra - escogito allora un altro sistema: cercare in ogni modo qualcosa da leggere ( attività severamente proibita ). Così una settimana fa, durante l’ora d’aria, ho intravisto nel cestino del cortile un pezzetto di carta; senza farmi notare, l’ho preso per divorarne il testo. Era una vecchia scheda del carcere che riportava nome, numero, reato e pena di una detenuta come me; al dolore per un’altra vita perduta si è contrapposta, per reazione, la forza della libertà e ho deciso che anche quel pezzo di carta accartocciato avrebbe contribuito a mantenermi viva. Dopo averlo accuratamente nascosto, nella penombra della sera, in cella, l’ho ripreso in mano e ho cominciato a scorrere le lettere di quelle parole stampate per cercare, nell’incerta memoria di un gioco infantile, i nomi di città, animali, frutti, fiori e qualsiasi altro riferimento a quella realtà da cui sono stata tagliata fuori.
Oggi ci hanno radunato in cortile e ci hanno ordinato di lavare le loro divise, di pulire le latrine e di preparare la cena. Ho visto, finalmente, qualche volto diverso da quello dei miei carcerieri e questa tragica solidarietà con le altre recluse ha ravvivato il ricordo delle manifestazioni con cui riempivamo le strade per chiedere libertà, giustizia, democrazia, rispetto dei diritti. Chiedevamo a gran voce una Siria libera, un futuro degno di questo nome. Il nostro grido, come quello di tanti altri attivisti, è stato soffocato nel sangue della repressione. So perché sono qui: non potevo più restare a guardare, se volevo un Paese libero anche per i miei figli.
La settimana scorsa mi hanno sorpreso, nella cucina, a parlare con una giornalista occidentale francese, credo ), rapita con altri colleghi nei pressi del villaggio cristiano di Ghassianeh. Uomini con abiti scuri, il volto coperto e la bandiera della Sharada ( la dichiarazione di fede islamica ) li hanno sorpresi a documentare la barbarie di cui i fondamentalisti sono capaci: nella Chiesa di San Simeone Stilita, dopo aver ucciso il sacerdote, e aver decapitato la statua della Madonna, avevano sventrato animali, mangiato, dormito e gozzovigliato, senza parlare delle violenze sulla popolazione. Tutti gli uomini della troupe sono stati sequestrati e il materiale fotografico e filmico cancellato. La giornalista, Marie, si trovava nel mio carcere di passaggio perché c’erano trattative in corso per la sua liberazione; dopo quel giorno, infatti, non l’ho più vista. Ma quel breve scambio di battute mi è costato cinque giorni in cella di isolamento. La cella era talmente piccola che per stare in piedi dovevo piegarmi ed era così piena di scarafaggi che, alla fine, mi sono dovuta rassegnare alla loro nauseante presenza. Nel tempo della solitudine più atroce ho cercato in me tutta la forza per non impazzire; con la mente andavo alla mia casa, alla mia famiglia, agli amati libri, pur di estraniarmi da quell’inferno. Un giorno ho chiuso gli occhi e, provando ad appoggiare la testa, da seduta, a un angolo di quel laido muro, ho intravisto le confuse lettere di molti nomi incisi sulla parete. Quei nomi mi hanno fatto sentire meno sola: più di cento persone avevano condiviso quel luogo! Mi sono sorpresa a piangere, versando ancora lacrime che non credevo di avere.
Quella stessa notte piovve. Nel buio e nel silenzio della cella cercavo disperatamente di inspirare l’odore di terra bagnata che proveniva da non so dove; uno struggente ricordo di libertà mi solleticò il volto e il cuore, rattrappito dal dolore, si ammorbidì come il pane secco nell’acqua. Poi alcune gocce di pioggia, infiltratesi dalle crepe di quello che a stento si potrebbe definire “soffitto”, intonarono la musica più dolce che avessi mai sentito: plaf-plaf…clunk-clank…clin-clon…clin-plaf… furono le note di una sinfonia riconciliatrice. La freschezza dell’acqua, raccolta avidamente nelle mani, mi rigenerò il viso, regalandomi una sensazione di pulito e di buono che mai avrei pensato di poter provare in quella cloaca dell’umanità.
Pensando di indebolirmi con giorni e giorni di isolamento, una volta condotta fuori dalla cella mi hanno sottoposto all’ennesimo interrogatorio, con la precisa volontà di provare che ero una “collaborazionista” di Paesi stranieri. Seduta forzatamente su una sedia e con gli occhi bendati, hanno cominciato a schiaffeggiarmi, a colpirmi sulla testa e a offendermi con frasi oscene, per inculcare in me il terrore di ciò che tutti quegli uomini avrebbero potuto farmi. Di fronte ai miei silenzi, come belve inferocite mi hanno legato supina su un letto e, dopo avermi gettato uno straccio sulla testa, ho sentito un durissimo colpo alle piante dei piedi: una, due, tre e non so più quante scariche elettriche di dolore mi hanno attraversata finché, quasi svenuta, mi hanno fatto di nuovo sedere sulla sedia. Uno dei torturatori, allora, mi ha afferrato il volto e con gli occhi infuocati di perfidia mi ha tempestato di domande sulla mia attività clandestina anti-regime, cavandosi fuori di tasca un volantino simile a quello sequestratomi il giorno dell’arresto, quando i miliziani dispersero con le armi la nostra manifestazione. Sentivo l’odore del suo fiato nauseabondo mentre mi urlava minacce sul viso, ripetendo frasi stereotipate che, recitate a turno con gli altri due che mi tenevano ferma, gli consentivano di mantenere inalterato l’odio. Poi non ricordo più nulla, se non di essermi svegliata in una cella diversa, col corpo abbandonato su una coperta umida, unico riparo dal pavimento gelido e sporco.
Nella nuova cella c’erano già cinque donne e con me eravamo arrivate a sei, in uno spazio di circa due metri per due. Le mie nuove compagne mi aiutarono a togliere dai piedi le bende con il sangue essiccato e questo gesto fu per me un barlume di luce, una flebile speranza che qualcosa di umano sopravvivesse ancora. Le nostre condizioni igieniche erano spaventose e ciò contribuiva a ferire quotidianamente la nostra dignità di persone: i vestiti indossati erano, per tutte, quelli del giorno dell’arresto; la doccia era un sogno irrealizzabile e persino i denti, sporchi da settimane, ci facevano sentire ancor più umiliate nel fisico ma non nell’animo che, per rivalsa, trovava la forza di resistere.
La fame è una terribile tortura. Non è solo la sofferenza della mancanza di cibo a farti soffrire, quanto le conseguenze che questa provoca nell’organismo. La bocca secerne saliva amara; i crampi ti attorcigliano lo stomaco; il vuoto che senti dentro sembra paradossalmente bucarti dappertutto, tanto da darti la sensazione che il corpo si possa sbriciolare da un momento all’altro, mentre le gambe galleggiano a mezz’aria. Il cervello, purtroppo, continua inesorabilmente a funzionare: sei lucida e mille angosce ti penetrano la mente come un ferro arroventato.
Vengo prelevata per l’ennesimo interrogatorio. E’ l’alba. Gettata con forza in un angolo della famigerata stanza della tortura e liberati gli occhi dalle bende, assisto alle percosse inflitte ad una giovane studentessa, arrestata durante una delle tante retate in strada. Infieriscono sul suo corpo con particolare crudeltà perché, come intuisco dalle offese gridate, la ragazza - bellissima e con dei lunghi capelli neri - era riuscita, durante il tragitto verso il carcere, a inghiottire i documenti che aveva con sé, in modo da vanificare le accuse contro di lei. La stavano facendo pentire amaramente di questa sua astuzia e, contemporaneamente, intendevano terrorizzarmi perché confessassi ciò che volevano sentirsi dire. Da me non ottennero nulla e dalla ragazza, sebbene allo stremo delle forze, ricevettero solo sputi in faccia. La notte udimmo colpi di fucile nel cortile. Al mattino circolava la voce che avevano giustiziato delle detenute; non ci volle molto a capire che la bella ragazza dai lunghi capelli neri era tra queste. Era morta senza arrendersi. Nel silenzio bastò uno sguardo: nemmeno noi ci saremmo arrese, in nome di quella segreta ricchezza, la libertà che, proprio in momenti come quello, mi portava alla gola respiri colmi di vita.
Oggi sono stata chiamata in tribunale e vi sono stata condotta assieme ad altre prigioniere. Il “tribunale” altro non è che una stanza, molto simile a quella delle torture, con una vecchia scrivania e qualche sedia. Il carceriere che nelle stanze degli interrogatori decideva il tipo di punizione, aveva il ruolo di giudice, e due torturatori, tristemente noti, erano il pubblico ministero. Non avevo riconosciuto il loro volto, dati gli occhi bendati, ma avevo impresse nelle mente le loro voci, per cui non era stato difficile associare il timbro della voce ai volti. Dopo aver ripetuto le accuse, mi hanno invitato, in una tragica farsa, a replicare brevemente ma ho preferito tacere, consapevole che anche una sola parola avrebbe potuto costarmi la vita. Quella scelta è stata la mia salvezza: interpretando il silenzio come una non ben definita forma di pentimento, dopo una patetica lode del governo di Assad e nell’agghiacciante, quanto casuale, euforia per la notizia, giunta in quel momento, di un’altra repressione di civili, hanno deciso per un proseguimento della detenzione. Sono stata riportata in cella come le altre detenute graziate.
Il tempo passa e nel carcere continuano ad arrivare molte persone. Ora ho il permesso di ricevere visite e così, oltre al conforto dei familiari, vengo anche a conoscenza di molte informazioni per quello che noi detenute definiamo “lo scambio di notizie”, contravvenendo ancora una volta al regime, che ci vorrebbe isolare dal mondo.
Ieri è stato il mio ultimo giorno da detenuta. Dopo essere stata convocata dal capo-carceriere, mi hanno comunicato che avevo terminato di scontare la mia pena. Mio marito lo sapeva da una settimana senza essere, però, a conoscenza della data precisa; ogni giorno era fuori ad aspettarmi con i bambini. Finalmente le porte si sono aperte. Una ventata di aria fredda mi ha riportato nel mondo. Ho preso i miei bambini per mano e ci siamo incamminati verso casa.
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Nota al testo : La crisi siriana ha causato oltre 190.000 morti e costretto oltre 11 milioni di persone a lasciare le loro case; circa 7,6 milioni sono profughi interni, altri quattro milioni hanno lasciato il Paese. Nelle carceri del regime sono reclusi, secondo le recenti stime delle organizzazioni internazionali per i diritti umani, più di 110.000 detenuti politici, comprese donne e bambini.
[ Racconto quinto classificato al Premio Letterario Nazionale Il Giardino di Babuk - Proust en Italie ]
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