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Non è tempo di bachi da seta

di Andrea Olivo
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Pubblicato il 28/04/2015 18:10:32

 

La stagione dei bachi da seta era quasi finita, quando mio padre tornò a casa dal consorzio portandone una discreta quantità e soprattutto annunciando, con insolita fiducia, che la guerra di lì a poco sarebbe terminata.

Quella notte, svegliata da alcuni rumori, mi accorsi di un mormorio al piano di sotto, così decisi di alzarmi e aprire leggermente la porta della mia camera per capire chi stesse parlando: una voce era di mio padre, ma l’altra non la conoscevo, apparteneva a una donna, e la cosa mi sorprese: da quando c’era la Repubblica avevo sentito solo voci maschili, sporche e stanche, entrare le sera nella stalla e sparire prima dell’alba. Ero curiosa, ma altrettanto sicura che se fossi scesa sarei stata battuta con la cinta. In quella casa ai margini del paese, sola con mio padre, avevo quattro semplici regole da seguire: dare da mangiare ai bachi, dire le preghiere, sputare sulla foto del duce prima di lavarmi le mani, e non scendere mai e poi mai al piano di sotto quando mio padre s’intratteneva con un ospite.

La sua severità era degna di un generale dell’esercito e, da quando mia madre se n’era andata, non ricordavo una sola volta in cui ci fosse stata un po’ di gentilezza nei suoi gesti; si limitava a farmi da mangiare, concedendomi meno attenzione di quella che impiegava per rastrellare l’erba secca del prato.

A colazione avrei voluto domandargli perché, a quell’ora della notte, avesse fatto entrare una donna in casa nostra, ma non appena alzai lo sguardo, incrociai il suo che mi fissava: era un muro di pietra che non me la sentii di scavalcare. Dietro c’era il mondo dei grandi, e a me era proibito.

- Sbrigati. Finisci il latte e poi vai a prendere le foglie per i bachi- disse con un tono che mi fece scattare sulla sedia.

Era incredibile vedere con quale voracità quegli esserini le divorassero, attività che interrompevano soltanto per dormire. Il mio era un compito di grande responsabilità: dovevo assicurarmi che non rimanessero mai senza, perché, come diceva mio padre, se mangiano loro, mangeremo anche noi. Così, sotto il peso di quel monito, andavo e venivo dall’albero di gelso alla stalla, senza badare agli eventi che avrebbero cambiato il corso della storia, alle notizie che avevano le gambe ferite dei soldati e agli aerei che volavano bassi, facendo tremare i tetti e scappare i gatti.

Per giunta con l’oscuramento verso sera, in paese c’era un fuggifuggi generale; tutti a rinchiudersi nelle proprie case fino al mattino seguente: persino gli uomini più robusti, della stazza di Pietro Fracassa il taglialegna, diventavano come topini di campagna al suono delle campane. Eppure quella voce, così piena di vita, tornò di nuovo in casa nostra, a notte inoltrata, quando nel silenzio assoluto solo i grilli si sentivano cantare.

Per la prima volta arrivai, con un coraggio insolito, in punta dei piedi fino al confine delle scale, spingendo la testa oltre lo spigolo del muro. La porta della cucina era aperta, quel tanto che bastava per vedere un’ombra invadere il pavimento e arrampicarsi sulla parete. Poi sentii quella voce così chiara e sicura di sé. Chiamava mio padre per nome.

 - Franco, non ti preoccupare, andrà tutto bene, ce l’abbiamo quasi fatta.

Sentirlo chiamare per nome da una donna che non fosse mia madre, m’imbarazzò. Era come se quella voce mi avesse mostrato mio padre nudo. Me ne tornai in camera. Provai a pensare ai bachi da seta: mancavano poche settimane alla consegna, ed era importante che non ne facessi morire nessuno; ma il pensiero di quella donna mi stringeva la testa, e poi quella frase: “Quasi fatta”; a far che cosa?

All’esterno, sotto la luce del sole, i giorni passavano nell’incertezza, e in paese la gente si raccoglieva come in una preghiera davanti alla radio, nell’attesa di un miracolo che tardava ad arrivare mentre la sera, dopo un piatto di polenta e un padre nostro recitato senza troppa convinzione, io attendevo il ritorno di quella voce. Diventò per me una presenza familiare; entrava e usciva da casa come il vento di primavera, ma cosa più importante ne avevo scoperto il nome.

- Giglio Rosso, ho sentito che i gappisti si stanno dando da fare giù in città- disse mio padre con un entusiasmo composto.

- Sì è vero, ma anche noi. Tra qualche settimana è previsto un attacco a un camion tedesco carico di armi, che deve transitare dal lago. Ufficialmente è un camion che trasporta vino. La soffiata ci è arrivata dalla Gina, quella che lavora giù  all’osteria.

- Ma chi, quella che se la filava con l’Uberto, il fascista?

Chiese seccato mio padre, che quando ne vedeva uno passare tirava certe ciccate per terra che parevano pozzanghere d’odio.

- Questo prima della guerra. Diciamo che sono rimasti amici e lui quando alza il gomito… ci siamo capiti?

- Certo - concluse tra i denti mio padre.

Poi si spostarono nella stalla accanto alla cucina, dove tenevamo i bachi. E non riuscii più a sentire niente di ciò che si dicevano.

Così, durante il giorno, vedevo crescere i bachi mentre la sera aspettavo il ritorno di Giglio Rosso. Una notte la sentii raccontare di un partigiano che era riuscito a disarmare un soldato tedesco, puntandogli alla schiena un solo dito. A difesa del tedesco però devo dire che fu colto di sorpresa: mentre la faceva contro un albero.

Dio solo sa quanto avrei voluto aprire quella porta e dire: “Ciao, io sono Aurora e la pipì la faccio da seduta.” Forse lei mi avrebbe preso nella sua squadra e saremmo persino diventate amiche, e io le avrei spazzolato i capelli, che immaginavo lunghi e setosi.

Tuttavia in quel corridoio in discesa, fatto di gradini scricchiolanti in legno che di più ripidi non ne ho più visti, ascoltai storie cattive e feci bottino di parole che suonavano come avventure: Squadra, Distaccamento, Brigata. Parole importanti, parole che al solo pronunciarle mi facevano sentire grande. Ce n’era una che Giglio Rosso aveva sempre in bocca: Resistenza.

- Ma è importante Franco, non capisci? Non ci si può chiamare fuori quando si vuole. Siamo tutti coinvolti. Anche noi donne. Bisogna dare un segnale forte per la Resistenza, come lo sciopero generale di marzo. Bisogna piantarla con questo attendismo. - Aveva un modo di parlare che avrebbe convinto anche un sordo.

Da sotto la porta sentivo entrare l’odore della pipa di mio padre. Mi aveva sempre fatto starnutire, perciò mi portai le mani a coppa sul viso nel tentativo di non respirarlo, poi mi tornò in mente il rumore della cinghia, quando, poco tempo prima, avevo fatto cadere un uovo, così il cuore prese a battermi come un tamburo.

- E gli americani? Dico gli americani stanno salendo? - chiedeva intanto mio padre con un filo d’apprensione.

- Franco qui gli americani non c’entrano nulla, è una questione di riscatto morale. Alcuni giù in paese iniziano ad appoggiarci sai? Anche il parroco, in segreto.

“Hai capito don Enzo, nonostante i suoi occhietti piccoli e vigliacchetti aiuta Giglio Rosso.” Pensai stupita mentre tentavo in tutti i modi di non respirare quel fumo che mi faceva pizzicare le narici; era questione di secondi e sarei esplosa. Forse mio padre non mi avrebbe fatto niente davanti a una donna, ma non appena saremmo rimasti soli, sarebbe stato anche peggio.

- Questa notte passerà il camion tedesco, Cartuccia e Alfredo stanno già battendo la zona per preparare l’imboscata. Nel camion ci sono anche delle granate, quelle le usiamo per la repubblica in paese. E’ ora di farci sentire.

- E io come posso aiutarvi?

- Stanotte verrai con me in montagna. Prenderai le granate e domani mattina… - ma non fece in tempo a finire che mio padre la interruppe bruscamente.

- Oh, aspetta un attimo! Una cosa è farvi entrare in casa mia, darvi pane e salame o farvi dormire nella stalla, e un’altra è trasportare delle granate. - Mio padre non era mai stato un uomo forte del coraggio.

- Porta con te anche tua figlia, darai meno nell’occhio. Quando sarai la ti verrà incontro Giorgio, lui sa già cosa fare- la voce di Giglio Rosso rimase calma e accogliente come una locanda d’inverno.

- Ah, questa poi- ribatté mio padre - credi che se mi scopriranno, chiuderanno un occhio perché ho una figlia? Se ti fermano con un’arma, quei vigliacchi ti fucilano sul posto, senza se e senza ma.

Seguì un lungo silenzio durante il quale trattenni il fiato, fino quasi a scoppiare. Poi, prima di uscire, mio padre fece cadere due parole di consenso. Fu l’ultima volta che sentii quella voce.

 Rimasi per ore alzata ad aspettare il rientro di mio padre; inutilmente abbracciata al cuscino, faticavo a respirare in quel silenzio nero come il cielo; fuori si sentivano solo i gufi e l’ululare lontano dei lupi sembrava averlo inghiottito; poi lo sfregare sul pavimento dei chiodi, con cui aveva riparato le suole delle sue scarpe,  mi arrivò all’orecchio con una  dolcezza infinita. Mi girai su un fianco e crollai in un sonno pesante.

  La mattina, con gli occhi ancora appiccicati dal sonno, andai nella stalla a controllare i bachi, ma non li trovai. Corsi fuori e vidi mio padre coprirne con un telo le ceste, caricate sul vecchio carretto.

- Aurora, sei pronta? Dobbiamo andare al consorzio per la vendita. - La sua voce era morbida e la ascoltai dire il mio nome come fosse la prima volta.

- Sì - bisbigliai, guardandomi le punte dei piedi.

- Forza, andiamo allora. - Una luce fioca bagnava la sua espressione, diventata silenziosa e severa.

Si era alzato un forte vento e la porta della stalla aveva iniziato a sbattere più volte. Andai a chiuderla e la vidi enorme, tirai con tutta la forza il chiavistello: fece il rumore di un temporale. Mio padre già spingeva il carretto fuori dall’aia, quando mi misi dietro di lui, sforzandomi di non piangere mentre guardavo la sua schiena piegata portare il peso di quel segreto. Allora corsi in avanti e mi voltai a fissarlo, volevo fargli capire che sapevo, che potevamo ancora tornare indietro, ma i suoi occhi sembravano laghi scavati in quel viso magro e spigoloso, avvolto da una barba ispida e nemica. Mi superò senza dire una parola e io rimasi a guardare la nostra casa, e l’albero di gelso che frustava l’aria.

 

Arrivati in paese, incontravamo gli sguardi duri della gente e i volti che diventavano scuri al nostro passaggio, mentre il sole andava nascondendosi.

Il consorzio era in fondo a una ripida discesa a forma di serpente, un ragazzo tentava di risalirla a zig-zag, spingendosi in piedi sulla bicicletta; mancavano solo due tornanti e se ne poteva intravedere il tetto. Quando batterono le dieci sul campanile, desiderai che tutto si fermasse. Allungai la mano su quella nodosa di mio padre che era diventata un tutt’uno con il manico del carretto.

Iniziata la discesa, lo fissavo, tentando di non inciampare; volevo urlargli di tornare indietro mentre un vento prepotente ci prendeva alle spalle e le gambe acceleravano, e la sua espressione via via s’increspava per la fatica, facendolo sembrare più vecchio ad ogni passo.

Intanto la discesa aumentava e una ruota del carretto iniziò a cigolare. Una signora con la faccia da corvo si affacciò da una finestra: il nero delle sue pupille mi punse il cuore facendogli fare una capriola. Il carretto ora spingeva come se avesse avuto premura di arrivare, la ruota tremava e mio padre faticava a tenerlo mentre le gambe gli presero a correre in avanti spinte da quel cigolare che cresceva insieme alla discesa, diventando uno sferragliare maleducato che richiamò l’attenzione di molti; le ceste iniziarono a sbattere una contro l’altra, poi il telo che le copriva volò via come un aquilone sotto i colpi di una tempesta; i piedi di mio padre si avviarono al cielo, prima di ripiombare eroicamente a terra nel tentativo  di puntellare il carretto, che s’inclinò sul fianco come una bestia ferita. Le ceste caddero e iniziarono a rotolare per la discesa, prendendosi gioco della fatica di mio padre che se ne gettò all’inseguimento. Subito dietro, gli correvo appresso, vedendo le suole delle sue scarpe rimbalzargli sui talloni, lasciando nudi i chiodi che minacciosi tornavano al loro posto; poi un buco e mio padre finì lungo disteso con le mani in avanti ad accarezzare la strada.

 Con le lacrime agli occhi e le ginocchia che mi sbattevano, tentavo di raccogliere ciò che avevamo perso, ma non avevo forza nelle mani. I bachi volavano e le granate rotolavano. Mi misi gattoni sulla strada nel tentativo disperato di raccogliere tutto, anche se ormai ero cieca da quanto i miei occhi si erano stretti. “Dov’è Giglio Rosso, dove sono i partigiani? Siamo rimasti soli. Non è giusto.” Intanto la strada prese a vibrare: passi pesanti, a centinaia si muovevano verso di noi; mio padre giaceva ancora a terra.

 Fuori dalla chiesetta, circondata dalla strada, si era formato un capannello di persone come fosse domenica, ma la prima voce che udii non fu quella piana del parroco ma quella roca dell’arrotino precipitarsi famelica su mio padre, per poi scavalcarlo.

- Guardate lassù. Li hanno presi.

 Dalla strada in alto al paese scendevano decine di soldati in fila come formiche, con gli elmi calati sulle fronti, marciavano nelle loro uniformi grigie e, sotto il rumore dei loro tacchi, la terra sembrava dovesse spaccarsi per inghiottirci; con i volti paonazzi dallo sforzo, cantavano in modo violento ed esaltato facendo tremare l’aria; dalle loro bocche spalancate sembravano uscire nuvole nere cariche di pioggia. In mezzo a loro camminavano uomini con i volti pesti, gli occhi da bambini e le spalle da giganti, con vestiti che parevano stracci in confronto a quelle divise luccicanti.

Guardai verso mio padre e vidi salire, con passo veloce, un intero battaglione con i fucili spianati. Nel tempo di un respiro ci furono addosso, poi mi sentii sollevare per il collo e in un attimo mi trovai con la faccia a guardare un muro: da una crepa vidi uscire un ragno illuminato da un raggio di sole, e ne fissai le zampe.

Mio padre era accanto a me insieme agli altri partigiani. Uno di loro disse che una donna era riuscita a scappare. Non fece il suo nome, ma io capii che era Giglio Rosso, e in quel momento la odiai. Avrei voluto dire a un ufficiale che noi non c’entravamo, che era tutta colpa sua se ci trovavamo in quella situazione; noi al massimo avevamo sputato sulla foto del duce, ma mai e dico mai avevamo fatto del male a un fascista o a un tedesco che fosse uno. Iniziai a pensare che forse, se gli avessi regalato i miei bachi, ci avrebbero risparmiati. Poi sentii i soldati mettersi dietro di noi e caricare le armi. Urlai ma non mi uscì la voce.

Guardai le scarpe grandi di mio padre e le mie ancora così piccole; lui prese la mia mano e con il pollice cominciò ad accarezzarla, disegnando un cerchio, leggero… poi il rumore di un tuono, i piedi freddi, il mio corpo rigido e gli occhi spalancati: Era l’estate del 44’. E fuori pioveva che Dio la mandava.

 

 

[ Racconto quarto classificato al Premio Letterario Nazionale Il Giardino di Babuk - Proust en Italie ]

 


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