Libero, trentacinque anni, assolato dentro, sta con Sena da dieci almeno. Impiegato nella società di scommesse a pochi chilometri da casa se ne va di domenica in pieno luglio a passeggiare sulla tiburtina ancora più assolata. Lascia la compagna presso la madre affetta da grave malattia, costretta a letto.
Ha una camicia senza pretese, Libero, bianca e imbolsita dal vento; un bastone lungo, un virgulto tratto da un arbusto, intrecciato sotto le foglioline spesse. Di solito, dopo aver attraversato il ponte che passa la stazione, cammina fino all’altezza del cinema. C’è sempre qualcosa di interessante da vedere, in quel posto, e se è in anticipo all’appuntamento si ferma volentieri. Perché Libero ha un appuntamento ogni domenica pomeriggio, e lo giustifica così, con una passeggiata.
Ecco, ora da un’occhiata all’orologio: le tre e venti. Il momento di andare. C’è ancora tempo per le quattro, ma a lui piace far presto ed essere sul posto un po’ prima.
Così torna indietro per un tratto, fino alla sopraelevata, a osservare i treni costringersi una volta ancora nella tela dei binari. Quindi, senza più guardare l’orologio, percorre il ponte senza fretta, incrociando i negozi chiusi. In giro non c’è nessuno e sulla strada infuocata non può fare a meno di portare continuamente la mano alla fronte per asciugare il sudore.
Quindi, dopo il McDonald, dopo l’edicola e la libreria, svolta a sinistra per una salita ombrosa, allentata dai frassini. Solo le taccole reagiscono stizzite, pensa tra sé. Sarebbe un posto sempre deserto se non fosse per la lunga fila di auto parcheggiate. Così che la domenica - quelle pettegole - possono confabulare a loro piacimento, nervosamente; Leo lo capisce dagli schiocchi improvvisi, dal becchettare ciarliero.
Al termine della salita, finalmente, scende a sinistra per un viottolo sterrato al riparo di una palazzina a tre piani, da cui una signora si affaccia ogni volta che Libero passa di lì. Un giorno o l’altro attaccherà discorso, ne è quasi sicuro.
Svoltando a sinistra, poi, costeggia una palizzata dalla rete fitta fitta; dietro, un paio d’automobili e una veranda scalcagnata, attaccata a una catapecchia troppo lunga.
Lì accanto c’è un cancelletto; Libero lo apre e lo richiude con la solita gentilezza. Poco più in là abbaia un cane.
Dalla casupola esce una ragazzetta scalza, di vent’anni appena, i capelli ben pettinati all’indietro. Allatta un bimbo, la giovane, tenuto in braccio con grazia inconsapevole. Alle sue spalle una donna sulla quarantina. Entrambe con una gonna lunga, i piedi tra le pieghe, nudi.
Libero compie i suoi ‘tradimenti’ (così li definisce in cuor suo per il solo fatto di tenerli per sé) col massimo garbo. A Sena non ha il coraggio di dir niente. Porta qualcosa al figliolo (cosi ama definirlo) e bacia la ragazza come farebbe con un bambino.
Appena finito di allattare, la giovane glielo offre sorridendo e lui se lo porta a spasso per lo spiazzo soleggiato e deserto.
Poi ritorna dalla madre mentre l’altra rientra nella casupola per uscirne con due sedie.
Non parlano. Sembrano non avere confidenza con le parole. Libero d’altronde è creatura laconica per eccellenza. E, in quel luogo, sa solo sorridere. È una bellezza vederlo.
Non c’è un colore in quello spiazzo. Tutto è polveroso; si va dal grigio al marrone senza eccezioni. Ogni oggetto capace d’assorbire la luce attraverso la propria opacità.
Opaco è l’universo delle cose miserevoli.
Neanche gli occhi riflettono la luce. Gli occhi del bimbo come quelli della ragazza e della donna; gli occhi di Libero, anche. Sono pozzi che divorano ogni cosa intorno a sé. E cosi come sono avidi di luce tanto appaiono soddisfatti di un sorriso senza inganni. L’unico inganno conosciuto il fregarsi a vicenda un paio di mutande.
Poi, però, giocano col bimbo sonandogli il sonaglio.
Nuvole oblique e lente avanzano su un fondale che si muove per incanto.
La donna invita a entrare e ognuno avanza scomparendo tra le assi di legno scuro. Dentro, un odore acre di fumo e di donna. La tinozza un tenue bagliore contro la finestra. Da lì s’affaccia Libero verso una linea digradante di orti e piccole bicocche dai comignoli rivoltati come calzini. Qualche sbuffo si innalza repentino. Anche se i frassini dominano incontrastati fino in lontananza, proprio sotto le enormi palazzine degli anni sessanta e settanta, con le loro moli prodigiose: un grande castello incomprensibile tutto intorno, una corona di case per la città vuota, assediata da un luglio troppo vivace.
Sennonché la luce, improvvisamente, muta di un nulla, quel tanto che basta a incendiare la chioma del vecchio acero al margine della campagna. Basta persino un albero, pensa Libero, per aprire una ferita tanto grande. Sebbene sia felice. Tanto da sorridere negli occhi della giovane. La donna, dietro, s’è fatta più clemente invitandolo a sedere. Libero acconsente solo perché si sente stanco, negli occhi un’improvvisa nostalgia, la sua Sena che lo rimprovera con amore: «Perché non mi porti con te nelle tue passeggiate? Cosa mi nascondi? Lo so che vai a tradirmi, che non mi vuoi più bene come dieci anni fa. Il tempo passa e io divento un po’ più piccola, un po’ più timida, un po’ più insignificante».
«Ma no» gli risponde chiuso dentro i suoi occhi, «tu non puoi venire, devi assistere la mamma inferma e io ti sarei d’impaccio. Le mie passeggiate sono innocenti; vado per orti, sulla tiburtina mi inoltro tra i canneti lungo prati gonfi d’ortiche. Qualche biscia, lì, striscia colma di terrore; tu non potresti sopportarne la vista. Vorrei portarti, lo giuro, ma non posso».
«Non hai nulla da nascondermi?» gli chiede abbassando lo sguardo vergognosa.
«Tutto devo nasconderti, mia adorata Sena, se voglio salvarti da un inganno che non sopporteresti».
«Di quale inganno si tratta, amore mio?».
«L’amore del mio amore e l’inganno più grande a cui non potresti perdonare la tenacia. Che amandoti amo e son riamato. Che l’amore mio viene da un luogo che non m’appartiene e a un luogo che non m’apparterrà e già destinato».
Così Libero racconta a se stesso, come sempre in quell’ora della domenica, il suo tradimento; poi bacia la giovane e il bambino e ringrazia la donna con un gesto. Esce dal cancelletto per salire sul piccolo viale alberato a sentire ancora un po’ i discorsi eccitati delle taccole. Quelle servette son delle temibili pettegole, ma lui le sente amiche e non ha paura.
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