DO. Strade bianche
Vorrei perdermi in questa strada innevata, senza speranza di ritorno. Sono seduto sul vagone di seconda classe di un treno malandato, vicino a una signora con un cappellino viola. Ho molto freddo ma il mio cuore è abituato a queste temperature, anzi le brama, le accoglie con impazienza.
E finalmente, sto per tornare a casa.
Vorrei ripercorrere quei sentieri intrappolati nel loro silenzio e ritrovare le mie impronte seppellite dalla neve, scheletri, cimeli, tesori nascosti. Vorrei Gabriele al mio fianco. Nonostante fosse bravissimo a perdere le cose che lo circondavano senza fare distinzione tra giochi, sogni, amici, perfino se stesso, ho la sensazione che stavolta saprebbe indicarmi la via migliore. Forse perché vive ancora in una costante danza di smarrimento, lontano da tutto, e nessuno meglio di lui sa quanto sia importante fare la scelta giusta.
Ma non c’è più tempo per pensare, questa è la mia fermata.
Vorrei tirare fuori il mio violino e lasciarmi andare.
Le mani già tremano al desiderio di pizzicare la corda dorata centrale, nuova, luminosa come le ali di un angelo. La signora accanto a me mi lancia uno sguardo perplesso. Accarezzo la custodia rossa che ho in grembo e le sorrido. Il treno sussulta, comincia a rallentare, me lo immagino sbuffare, con il fumo che si alza nel cielo e poi si disperde, ecco, si è fermato. In un attimo mi lascio la stazione alle spalle e noto che sopra di me si è steso un manto nero e uniforme in cui fioriscono piccole stelle bianche. Il freddo comincia a penetrarmi nelle ossa e le parole diventano pezzi di ghiaccio, immobili, pesanti, bellissime. Niente sembra cambiato da queste parti a eccezione di qualche strana sensazione che mi vibra nel petto. Ma non importa.
Sono tornato per un solo motivo: Sara.
In questi sette anni ho dovuto ammettere a me stesso che non sono stato capace di dimenticarla.
Ecco perché sono qui. Ecco perché ho il violino con me.
Vorrei davvero, con tutto il cuore, incontrarla di nuovo e suonare per lei.
RE. Un posto dove tornare
Mia mamma suona il pianoforte. Da sola. Quasi sempre senza qualcuno che la ascolti. Il nostro rapporto è cresciuto proprio sulla base della musica e forse per questo non era mai facile capirsi.
Le sue note erano alte, distinte, irraggiungibili.
Le mie spaventavano gli uccelli notturni e mi lasciavano a vagare in un abisso di confusione.
“Sta nevicando.”
“Niente di strano per un posto come questo.”
“Ma che posto è questo?”
Mia mamma ha sempre chiamato questa terra la città degli angeli. Quando da piccolo le domandavo il motivo, lei mi rispondeva che in un tempo lontano una coppia di angeli ci aveva trascorso la notte e da allora la natura, innamorata della purezza di quelle creature, aveva fatto nevicare ogni giorno per colorare di bianco tutto ciò che ci circondava. Nessuno conosce questo crocevia perso nelle sue leggende, nessuno passa qui per caso. Ma per me è diverso, perché rappresenta un punto fisso tra le tante strade che ho percorso fino a ora. Un frammento di terra in cui vale sempre la pena tornare.
Sono contento di essere qui.
Attraverso la strada principale con un espressione dimenticata e arrivo a una casa bianca, sporca, immobile. Ma è il luogo in cui sono cresciuto. Vedo mia madre attraverso la finestra. Anche lei mi vede, sorride e il vetro si appanna come se lo avesse avvolto un vento caldo. La porta si apre.
“Sei tornato.”
“Ciao mamma.”
Lei mi prende per mano senza aggiungere altro, ma il silenzio non pesa, si mescola all’aria che respiriamo e capisco che non è mai stato un problema tra noi. Entriamo nella sala centrale, quella con il soffitto alto e un’atmosfera soffusa, come in un santuario. La mamma mi lascia e va a sedersi davanti al pianoforte. Si sistema i ciuffi sfuggiti a una coda disordinata, poi mi guarda con trepida attesa. So perfettamente cos’ha in mente. Apro la custodia, le dita accarezzano il violino e un brivido improvviso striscia intorno al collo. È la sensazione di un collare che si rompe al richiamo della libertà. Finalmente il mento e il cuore trovano il loro posto, e io non so più dove sia il freddo, cosa sia il freddo. La mamma comincia a suonare e io la seguo. Il mondo tace e ci lascia ascoltare. Sorrido.
La mamma ha scelto Salut d’Amour, op 12.
MI. Sogni
Si sta sciogliendo la nebbia attorno ai prati stanchi che ormai non respirano, congelati per sempre nel loro silenzio. Una volta Sara mi disse che qualunque cosa fosse successa, perfino nella luce che ancora sembra morire, questi luoghi sospesi tra le terra e il cielo non sarebbero cambiati. Forse la neve si scioglierà veramente domani e torneranno le gioie passate. O forse no.
Infatti il mio violino continua a rabbrividire, ha paura, abbiamo paura entrambi.
In questi due anni ho mandato a Sara centinaia di lettere ma lei non mi ha mai risposto. Dato che non sono mai stato bravo a scrivere cose vere, ho cercato di comunicare con lei nel modo che conosco meglio: la musica. Spartiti su spartiti, punti neri arricciati tra loro in una spirale confusa. Quello è stato il mio disperato tentativo di farle capire quanto mi mancasse, quanto la cercassi, ogni giorno, nelle cose che contano davvero. Le ho dedicato canzoni senza voce che si interrompevano a metà, con la speranza che lei volesse terminarle, rendendole, rendendomi, finalmente completo.
Il ritmo di un battito, di un paio di ciglia che si aprono e chiudono, sbattendomi fuori dalla loro visione del mondo, il ritmo del suo violino.
Sta arrivando la notte.
Mi piacerebbe sognare un cielo ricoperto di stelle e un tetto altissimo da cui poterlo osservare. Un po’ di edera che si arrampica sulla balconata e qualcuno al mio fianco.
Tiro fuori il violino e accarezzo il lungo archetto. Profuma di sangue e sudore. Si adatta perfettamente alla mia mano, continua la linea della mia mano, è la mia mano.
Chiudo gli occhi e mi lascio trasportare, non troppo lontano. Anche la mamma stava suonando il pianoforte e il tocco delicato delle sue dita faceva vibrare le pareti con una dolcezza indescrivibile. Ma appena io comincio il mio pezzo, lei si interrompe. Mi conosce troppo bene per non capire che stavolta non ho bisogno di un confronto con lei, perché questo sogno riguarda me e solo me.
“Non riesco a fare a meno della tua musica.”
“Ti fa sentire bene?”
“No.”
“Allora ti rende triste?”
“No.”
“Non capisco se ti piace oppure no.”
Un dondolio di gambe, un cappotto rosso.
“Non lo devi capire. Perché la musica è come i sogni, la capisci senza capirla, e ti rimane addosso anche quando la dimentichi.”
“Un sogno?”
Muovo le dita senza guardare, il mio violino gioisce, non è mai abbastanza. Allungo il suono e lascio che riempia la stanza come uno stormo di colombe.
Per quali sogni vale la pena combattere? E per quali vale la pena arrendersi?
Schumann, Dreaming.
FA. Ricordi di ghiaccio
Sara aveva un fratello gemello che si chiamava Gabriele. Noi tre siamo sempre stati insieme e nemmeno gli inverni surreali della nostra infanzia riuscivano a congelare i sorrisi che ci scambiavamo ogni giorno. Io e Sara amavamo la musica già da bambini ma Gabriele era geloso di questa nostra passione comune. Forse perché ci voleva bene in un modo che a volte mi spaventava. Non riusciva a stare da solo e voleva che noi due gli dimostrassimo costantemente quanto era importante il nostro legame. Lo era davvero. Ma con il tempo Gabriele divenne una persona diversa, riservata, chiusa in se stessa.
Io e Sara ci baciammo per la prima volta a tredici anni, con le guance umide e le mani infreddolite. Poco tempo dopo Gabriele tentò di rompere il mio violino e suonare quello della sorella, ma si ferì le mani. Come avevo fatto a non capire? Era ovvio che lui ci amasse oltre ogni confine e che fossimo tutto per lui. Che ruolo avrebbe ricoperto se io e Sara ci fossimo messi insieme? Come avrebbe mantenuto un equilibrio tra noi se era talmente ossessionato da tutti e due?
Sara cadde in depressione. Smise di venire a scuola e quando andavo a trovarla non parlava mai.
Ci baciavamo in silenzio e suonavamo.
“Vorrei che non smettesse mai di nevicare.”
“Non smetterà.”
“E se smettesse?”
Scossi la testa.
“Questa è la città degli angeli.”
Gabriele scomparve il giorno del mio compleanno.
Mi piace pensare che abbia trovato rifugio tra la neve, circondato da un bianco che non si scioglie e non lo ferirebbe mai.
SOL. Le mie ragioni
Sto suonando da ore. Non so precisamente quanto tempo sia passato, ma la notte si è prosciugata in un attimo e io sono ancora assetato di risposte. Sono passato a salutare i nonni e miei vecchi amici, tutti felici di rivedermi nelle vesti di un giovane musicista promettente. Nessuno ha mai messo in dubbio le mie scelte, per quanto sia rischioso intraprendere una carriera artistica, semplicemente perché io non esisto senza la musica. Chiunque mi conosca bene, lo sa.
Secondo la mamma, io ero destinato a innamorarmi del violino di mio padre come era successo a lei. A suo parere, non avevo scelta, non potevo sottrarmi a un potere tanto forte. Forse ha ragione e una parte di me sta solo rispettando i piani di un fato superiore. Ma esiste anche un’altra parte di me, che per caso, seguendo i binari di una lunga discendenza, ha scoperto dove si nascondevano altre vie segrete, impervie, meravigliose. E nel solco della devozione per mio padre, ho saputo trovare me stesso.
Adesso non potrei vivere senza il mio violino, per nessuna ragione al mondo. E tutti e due conosciamo la ragione per cui stiamo insieme. Non è forse la ragione più vecchia del mondo?
Passione.
Oggi sono stato tutto il pomeriggio fuori. Ho fatto una lunga passeggiata sulle rive del fiume, lasciandomi spingere in avanti da un vento infuriato, che continuava a portarmi fiocchi di neve sui capelli. Ho cercato Gabriele, solo per un istante, prima di ritrovarlo nelle tenui sfumature che accompagnano il giorno e lo rendono fugace agli occhi dei mortali. E intanto tutto va male e va bene. Ci sono cose che non sono stato in grado di fare, ma ce ne sono altre che posso ancora realizzare. Non voglio rinnegare niente, non voglio fingere, non voglio scappare.
“Ti piacerebbe suonare il violino?”
“Tanto.”
“Ne sei sicuro?”
Sì. Sì. Sì.
“Allora dovrai assumertene tutte le responsabilità.”
Perché quando si ama davvero qualcosa, non esistono altre regole.
LA. Alle prime luci
Mi sono svegliato con un forte dolore alle dita. Ieri ero talmente nervoso che la mamma mi ha chiesto di suonare insieme, senza dubbio per distrarmi.
“Non andare troppo in fretta” ha detto con una voce celestiale, una voce che sento raramente.
Ma contrariamente alle sue parole, lei ha aumentato il ritmo, accarezzando i tasti con una nuova pressione e lasciandomi ansimare. Una melodia frizzante, energica, piena di vita mi ha riempito le orecchie. E un crescendo di sensazioni frenetiche si è impossessato del nostro santuario appeso al cielo, penzoloni dalle nuvole, immacolato. Se davvero sapessi comprendere la vera spensieratezza che ogni tanto si manifesta su questa terra, direi che assomiglia molto a uno scena come questa.
Io, mia mamma, un gioco mai finito.
Gossec, Gavotte.
“Quando diventerai bravo, comporrai qualcosa per me?”
“Cosa vorresti? Un concerto?”
Campanelli argentati, una risata che mette le ali.
Una sonata che racconti la nostra storia.
È ancora giorno, troppo presto, ma riesco a scorgere i contorni dolci della luna nel cielo scuro. Sarà sicuramente piena stasera.
Passeggio per qualche ora all’aria aperta, respirando il profumo della natura che si risveglia. Ogni pezzo di terra, ogni albero spezzato, mi riporta indietro nel tempo e mi fa smarrire la strada. Quale sarà in fondo la strada migliore da prendere? Tornare indietro, andare avanti? Cancellare tutto, seguire nuove vie?
Se il mio violino potesse parlare con la sua voce straziante, senza dire nulla, mi canterebbe le note del Canon in D Major di Pachelbel.
E mi urlerebbe di ascoltare, semplicemente, tutto quello che mi risuona in testa e che mi segue ovunque io vada.
E, come sempre, saremmo in perfetta sincronia.
SI. Promessa
Sono pronto. È scesa la notte, sta nevicando. Ho salutato la mamma con un semplice cenno della testa e sono uscito.
Fa freddo, fa freddo davvero. I tetti sono bianchi e pesanti. Mi sono messo i guanti per proteggere la mani, anche se continuo a sentirmi un pezzo di ghiaccio. Il violino sussulta nella sua custodia rossa e io mi ci aggrappo con disperazione, come se fosse la mia ancora di salvezza. E magari lo è davvero.
Batto i denti, aumento il passo. Qualche fiocco di neve si scioglie sulle mie spalle, scende per tutta la lunghezza di un braccio e poi svanisce, dimenticato. È uno scenario meraviglioso, di quelli che fanno scuotere il petto. Spero solo che il cuore non ne rimanga congelato.
Non fa rumore, non fa rumore, non fa rumore.
Sospiro e prendo un sentiero dismesso che conduce a una casa azzurra, chiarissima. Se non la conoscessi, probabilmente non sarei nemmeno capace di distinguerla da questo paesaggio innevato. Ma la conosco, da una vita.
Giro attorno alla porta principale e raggiungo una finestra che si affaccia lontano, una finestra che sembra raggiungere i confini del mondo, fino al mare.
Prendo un respiro profondo e tiro fuori il violino.
Per tutto questo tempo, lontano da Sara, ho cercato e ricercato tra mille fallimenti e unghie spezzate, la sonata che le avevo promesso quando eravamo bambini. Doveva avere un suono dolce, e un suono forte, e doveva chiederle perdono, e doveva prenderla a schiaffi, e doveva prendermi a schiaffi, e doveva dirle tutto quello che sapevamo già, ma non avevamo mai avuto il coraggio di confessare.
Inclino la testa sul mio strumento, ci lascio qualche frammento di anima tra le corde, e comincio a suonare.
Una sonata che racconti la nostra storia?
Mi lascio trasportare da una brezza leggera, e perfino la neve sembra smettere di cadere, e farsi più morbida, inafferrabile, come una tenue pioggia estiva.
Una sonata incompleta, solo per noi due?
Avverto un fremito che corre lungo la schiena, attraverso le ossa, tra le scapole, scavando a fondo come se cercasse un buco per le ali.
Una sonata d’inverno, affinché sia eterna?
Ti prego, ti prego, ti prego.
Suona con me.
Queste sono le ultime battute, le allungo lentamente fino alla fine, in attesa. Ma non sento niente.
Ricomincia a nevicare.
Poi un debole suono, cristallino, attraversa la notte, e sembra portare la luce con sé.
[ Racconto secondo classificato al Premio Letterario Nazionale Il Giardino di Babuk - Proust en Italie ]
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