Pubblicato il 14/12/2020 15:22:10
Nota su: IL ROMANZO Si può ragionevolmente supporre che l’input per scrivere una storia nasca dai ricordi, da una frase sentita per caso, dalle chiacchiere tra amici, da un’immagine intravista per strada o al cinema o in televisione. O da tanto altro. A mio modo di vedere, essenziale per scrivere è aver preventivamente letto: molto e di tutto, con dedizione e continuità. Ma è anche da dire che nel desiderio di raccontare c’è la presenza di una insicurezza di fondo dello scrittore nei confronti della vita, accompagnata ad una latente e quasi inevitabile vanità. La storia che si racconta è, necessariamente, fatta di parole. Le parole: i costituenti essenziali. Ritengo che compito/dovere di chi scrive sia la ricerca della precisione nella scelta delle parole. In altri termini, esse devono identificare - senza possibile dubbio - un momento, un’atmosfera, un’immagine, un sentimento. In qualche modo devono essere sufficienti a se stesse; non devono aver bisogno, in generale, di orpelli quali aggettivi, avverbi e locuzioni varie. La scelta della parola deve rappresentare una ricerca - a volte spasmodica e critica - fatta nella memoria, in un dizionario, in un testo letterario o scientifico di altri autori Gli aggettivi e gli avverbi svolgono un compito da “condizione al contorno”. Non devono servire a rafforzare o arricchire la parola cui sono connessi: devono, piuttosto, scandire e dare ritmo alla narrazione. Devono, cioè, equilibrare una frase, bilanciarla rispetto alla precedente o alla successiva. Naturalmente, tale impostazione non deve essere presa alla lettera: esistono delle particolari necessità della scrittura che possono essere soddisfatte solo con l’uso di aggettivi o avverbi funzionali, tout court, alla parola usata. Lo scrittore deve saper decidere quando quelle locuzioni siano essenziali in particolare alla singola parola - limitandone ragionevolmente l’uso - e quando, invece, esse rappresentino una necessità del modo/linguaggio. Essenziale, dunque e a mio modo di vedere, resta l’obiettivo, a carico delle parole e delle “condizioni al contorno”, della creazione del ritmo. È questo che rende suadente il testo, pur non rappresentando il mezzo per suscitare l’interesse o per conoscere lo sviluppo e la conclusione della storia. In altri termini, la storia deve coinvolgere il cuore e il suo bisogno di liricità; il ritmo le capacità razionali della mente e la sua curiosità. In questa dicotomia dello scrivere è racchiuso, nel mio modo di sentire, il possibile/risultante fascino del leggere. Resta il racconto, il canovaccio dove si esercitano la fantasia, la cultura e – last but not least - il desiderio di apparire di chi scrive. Esso può avere una motivazione e uno svolgimento sicuri – se si vuole lanciare un messaggio etico, didascalico o di altro genere - ma può essere un continuo divenire, un work in progress (con un abusato riferimento letterario) che cambia per strada personaggi, vicende, conclusioni e atmosfere. È da dire che, personalmente, non amo il revival di una frequentata modalità letteraria italiana: “L’enfasi sentimentale”. E cito, al riguardo, il critico letterario Filippo La Porta: “… elementi tipici della tradizione italiana: enfasi – o ardore - sentimentale e recitazione delle passioni; moderatismo e messinscene, dimesse o sontuose che siano; diffidenza per la complessità lessicale e per la teatralizzazione dei conflitti; elusione del tragico e prevalenza di narrazioni emotivamente finalizzate. A ben vedere, le ambiguità e i travestimenti di questa narrativa sono gli stessi del suo pubblico.” Una tradizione, aggiungo, che talvolta (e certo nei momenti più finalizzati alla creazione di una suadenza tesa a commuovere) si risolve nell’ adozione compiaciuta di una mestizia - sorta di astuzia letteraria tesa a mimetizzare quell’enfasi - che vieppiù appiattisce, ammesso che ciò sia possibile, la maniera preventivamente impostata a caratterizzare storia e protagonisti: cioè l’immobilità (o la monotonia) cronachistica degli eventi narrati. Scelta che finisce per ammantare questi ultimi di una esteriore e formale luce poetica che, inevitabilmente, si rivela essere una monadica quanto anòdina (cioè che non prende posizione, lenitiva) rappresentazione dell’universalità delle emozioni.
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