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Babajaga

di Maria Musik
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Pubblicato il 25/10/2008 07:42:32

Quando era nata sua madre, nel partorirla, era morta. Vivevano in un minuscolo e sperduto paese che, al tempo, faceva parte della grande URSS. Non c’era un medico che poteva aiutare la giovane donna e la vecchia levatrice non aveva, nonostante la sua esperienza, saputo fronteggiare l’emorragia che l’aveva uccisa. Suo padre, disperato, non aveva incolpato la natura o il caso o Dio per quella tragica morte. Ad uccidere la moglie era stata la figlia, un’inutile femmina che neanche sarebbe stata buona per i campi. Così aveva voluto imporle il nome di Babajaga, “la strega”.
Crescendo, poté sperimentare quanto pesante fosse il fardello che le era stato imposto. Quando usciva di casa, gli altri bambini le tiravano pietre e sterco, schernendola crudelmente.
Persino il pope, non voleva che entrasse nella piccola stanza che il capo del colcos gli aveva concesso per celebrare, di rado e senza troppa pubblicità, le sue funzioni. Quel nome blasfemo e legato a tragiche superstizioni le impediva di venire a contatto con il Sacro.
La comunità umana la rigettava, il padre non le faceva mancare il cibo ma mai le aveva rivolto la parola e non vi era nessuno che avesse per lei una carezza od un gesto gentile.
Così la bambina imparò a vivere nei campi, nel bosco, nella neve. La terra non la rifiutava, anzi sembrava accoglierla benigna. Né il lupo né l’orso l’attaccavano, i sentieri si aprivano davanti a lei e, nella calura estiva, c’era sempre una pianta pronta a coprirla con le sue fronde. Quando era in giro in cerca di legna, sembrava che gli alberi gliela offrissero senza che mai dovesse usare l’accetta per tagliare un solo ramo. Per lei c’era sempre abbondanza di tutto. Crescendo, le cose non cambiarono: le altre ragazze si sposavano, avevano figli ma, benché fosse bellissima, nessun uomo si avvicinava a Babajaga. Anzi, se avveniva qualche tragico evento, tutti la guardavano con sospetto perché il dubbio che fosse stata opera sua era nella mente della gente, seminato nella notte dei tempi e tramandato di padre in figlio.
Un giorno però, successe che una giovane incinta si accasciò nella piazzetta al centro del paese in preda a violentissime quanto premature doglie. Portata in casa, la ragazza urlava stravolta e terrorizzata: il bambino non riusciva a nascere e a nulla valevano gli sforzi delle altre donne. Babajaga, trascinata da una forza invisibile, si recò presso di lei e, incurante degli strepiti e degli insulti delle altre, si avvicinò alla poveretta che era oramai alla fine, in un lago di sangue e sudore. Posò le mani sul suo ventre e chiuse gli occhi. Disse: ”Lo vedo, è un maschio ed il cordone gira tre volte intorno al suo collo”. Tutti ammutolirono. Babajaga tracciò tre cerchi nell’aria e, quindi spinse con tutta la forza che aveva appena sotto lo sterno della partoriente. La levatrice gridò: “La testa!” ed afferrò il bambino, ormai cianotico, traendolo fuori dal grembo materno. Mentre le altre donne lavavano e vestivano il neonato, Babajaga continuò, ad occhi chiusi, a tenere le mani stese sulla madre. L’emorragia cessò ed anche il dolore.
Il suo compito era finito e, senza proferire una sola parola, uscì.
La voce si sparse per il paese ed una processione di persone cominciò a muovere verso la povera capanna di Babajaga. Chi portava uova, chi vino, chi latte, chi spighe dorate di grano. La vergogna ed il rimorso erano sul volto di ognuno. La donna accolse tutti senza un rimprovero ed accettò i doni. A sera, quando gli altri furono rientrati nelle loro abitazioni, venne l’unico uomo del paese che Babajaga non si aspettava di vedere: suo padre entrò, posò il capo in grembo alla figlia e pianse a lungo, in silenzio. Quando ebbe finito, Babajaga si levò, apparecchiò il tavolo di legno, vi pose quanto aveva ricevuto in dono e cenarono insieme, per la prima volta dopo trenta anni.

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