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Poeti in dieci righe: Augusto Blotto

Argomento: Poesia

di Alfredo Rienzi
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Pubblicato il 05/10/2020 19:20:48

Poeti (di Torino) in 10 righe - 18. Augusto BLOTTO

 

Augusto Blotto,  è nato a Torino nel 1933 è forse il più prolifico poeta italiano, autore una sterminata serie di volumi di poesia: “59 volumi di cui 22 editi e 4 attualmente disponibili in rete” [http://www.augustoblotto.it] precisa la quarta di I mattini partivi. Poesie per un angolo di pianura 1951-2012, Nino Aragno Editore, 2013. Le biografie riferiscono dell’esordio con Magnanimità (1951),  Schwarz 1958 e che tra il 1957 ed il 1968 pubblica con Rebellato 17 volumi di poesie. Dopo il citato I mattivi partivi, Blotto ha pubblicato ancora In Francia e Autunno, Ed. Coup d'Idée, 2015 e Veramente, quando,  ADV Advertising Company, 2016.

 

La questione linguistica è talmente soverchiante, in tutta la fluviale produzione di Blotto, che è stata inevitabilmente posta al centro di quasi ogni esame critico della sua poetica che, estendendosi per oltre sessant’anni, s’imbatte nei residui tardo ermetici e nelle stagioni del neorealismo e della neoavanguardia, restando fedele alla primazia di un lavoro “ lessicale più che sintattico” -   scrive motivatamente G. Tesio – teso,  attraverso una straordinaria inventiva verbale, alla “costruzione di un linguaggio e dar voce a uno stile”. Nelle “migliaia di pagine [nelle quali] il poeta si inventa un suo linguaggio di demenziale protervia inventiva” (U. Eco) vengono compresse, ma non tacciono, altre questioni fondamentali,  quali: la cifra visiva-visionaria dell’autore e la discussa oscurità del dettato.

 

* * *   

 

I mattini partivi quando ombra queta
dalle gronde arrossate immobilmente
ascoltava madrepora che andava
rosa-nerastra, fiati, fumi, ultime
nuvole della notte sulla città
senz’uomini, tagliata coi vialetti,
fontane sonore vanamente,
le conchiglie di polvere alle piazze
ove i passi gelati sono ricordo in navette
fumose, del terriccio quasi celeste.
Odore di benzina
e pino nel chiaro
d’alba come
ricordo. Pastoso
m’abbracciava litaniando l’arancio sul verde,
entrambi nel cielo, ancora come buio,
poi nascevano a svolti i frutti dei binari
rossi e sola l’ombra
d’una chiesa oltre il perdersi di fili
limacciosi, le pieghe del deposito
a cupola sulle tornanti locomotive,
come fanciulle stanche, e le azzurre
altre locomotive al focolare umide
– verde cigola un pendolo di vapore
e ingenuità, chiarezza d’una bambina imprevista –
screziate dalla pioggia,
l’ombra sola
di chiesa verdeggiante alla brumale
natività respirava coi passeri
supini alle campane ferme.
Voci
d’operai
rosso argento,
per vie
di città come alla solitudine
dei campi.
Poi veri campi di distesi passeri
folli alle stoppie, ondulazione tinnula
all’infinito di rugiade: pagliai
scoloranti nell’acque di pianura,
laghetti di sovrana calma ai marci
solchi di nero struggente sul rosso
azzurro fantasiare delle acque
quasi immobili: il sericeo
vento alle orecchie in cricchi duri, amato
risvegliarsi di falci in alto argento
oltre le siepi, ignote, come testamenti
gomiti delle donne agre ancora
del volume ceruleo d’appannato
sonno, e alle prime erbe non potevano
cantare nell’umido: fontane;
discorsi
legati col silenzio di finestre
verdi, in paesi presto dimenticati;
e le argille più scabre, la ricchezza
dei castagni alle curve pure, parapetti
luminosi nel mattino di querce chiare,
tabernacoli, vuoti, pasciuti;
già pascoli di meraviglia
e sole inavveduto;
prolungamento preparato di muscoli
verso una vetta boschiva e di brume
pesanti ancora là in bottiglione grigio sul verde…

 

maggio 1951, da Magnanimità, Schwarz, Milano 1958, in I mattini partivi, Nino Aragno Ed., 2013, pag. 6

 

 

* * *

 

 

Ma il filtro che il crogiolo del silenzio

aguglia in un “è vero!” esclamato in fibula

di candela, tanto le soddisfazioni oltre‑paèsano,

appone i testi – da mattone – del lago

cui la fattura liquida non sceglie: appièna

roselline di soggiorni in grembiali di cacao,

ortènsia le ghiaie che spengano un senziorino d’odore

quale la bretella d’una colazione sognante

o che nessuno intercida più, frutta sucida

del futuro, cui padigliona l’assenza

del rumore, in uno scavalchino (l’attesa)

(asola bianca)

 

E attorno generosi bastìdino il parlare,

nello scottar tepore gota di “Stare!”,

come sciami di afferenti:

muretti, bestiole, da dio

degli accenni udirli, di rumore, nel sole

pavanante (un condurre...) sopra le serpicine, scricchiolo

la gambina del fastello, morellato dal sole

ch’è un torace riquadro di sughero e illuminato

(velario come un telaio; il freddo)

 

 

Lugano Gandria, febbraio 1991

da Poesie Ticinesi, alla chiara fonte, 2012, pag. 15

 

 

 

 

* * *

 

La sciabola gonfia di un rio che oscilli spine

e fronde color ramarro, presso osterie

cigolanti di portelli e rinomate

codardamente per trippe e crinoline

di fiori che, tigli, nei bicchieri

uno se le ritrovi, non lontànano

(anche proprio con lo psico, col nostro sudore

intraveduto, l’imbuto d’arancio carne

che sovente vogliamo vederci – di sbieco -)

dagli sterri spaccati che una botola

di fogna, anzi un tubo di cemento

che sia stato parzialmente schiacciato

da un autocarro gommoso, olivìgnano,

del venticello grigione-sassifraga,

o mormorio, che la periferia

pòlvera di carpenteria, lume di strusciare

 

Muoversi nel colorato saporoso

d’una mattina colombato da nuvole

quasi da Senna che sia straripata

- un pochino – ad Argenteuil, còrpora

di particelle l’atmosfera primulea

di enunciar vivande al cammino, ribordo

di tovagl’angoli mattone e argento!

 

L’imminenza che ci sia tempo ancora,

tanto, non nega il sorbir beoto

tazza di chimera e spezie, quel fin-di-labbro

che indaga la notte e la cerchia di mastice

a onda di gromma, infuso di cometa

conoscente la coppa del buio, quel d’orlo

 

E la ricostruzione di maneggiare

rompicapo logistici, poveracci

in verità, allenta e tende fettuccia

delle membra destinate a portar vestito

che in colloquio con la mente non la smette

di camminare intanto un’idea di

                                                               mondo

se vuoi cominciare ad accontentarti (purché

tu non disdegni i pezzetti che ti càpitano,

servil imbattersi tra denti e piedi

cioè)

………..

………..

………..

 

aprile 2012, da Ragioni, a piene mani, per l’”enfin!”, in I mattini partivi, cit, pag. 106

 

 

 

 

 

 

 

 


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