L’ETICA DEL “POSTO FISSO”
Invece di chiamarlo con il suo vero nome, per quello che è, cioè “lavoro”, lo chiamano “posto fisso”, e quei pochi che hanno voce pubblica e si azzardano a difenderne il principio e la necessità, vengono considerati e trattati come “nemici della patria”.
Lasciano intendere che il “posto fisso” è una menomazione della libertà, una specie di spazio chiuso, recintato, entro il quale il lavoratore si abbrutisce.
E tutti sembrano essere d’accordo con la sua improponibilità, tranne, si capisce, i milioni di disoccupati, i precari e tutti i lavoratori, ma proprio tutti, che vivono con la paura del prossimo probabile licenziamento.
E’ una ridicola mistificazione: denigrano il “posto fisso” per inculcare l’idea che il lavoro, se c’è, non può che essere precario.
Come se il lavoro fosse un arbitrio, un capriccio, un’opzione, e non un ordinamento naturale, senza il quale la creatura terra non potrebbe sussistere.
Fanno credere che il lavoratore è abbarbicato al “suo” posto, mentre invece non si tratta che della difesa di un reddito “fisso” su cui contare per provvedere ai bisogni primari suoi e della sua famiglia.
Violare il principio della sopravvivenza, di fatto e di diritto, è un atto che scardina le basi della convivenza umana, concepibile solo in un meccanismo economico che ha fatto del lavoratore, della persona, un essere superfluo, un “pezzo di ricambio” da utilizzare solo se e per il tempo che serve al “mercato”.
Non siamo economisti, ma semplici cittadini e lavoratori che osservano e capiscono la sofferenza.
E capiamo che la lacerazione è profonda e ci costringe a ripensare al senso della vita, a riproporre delle domande fondamentali nel tentativo di trovare un orientamento nel marasma materiale e morale che stiamo vivendo.
Ad es., che cos’è l’economia?
E’ l’economia che deve determinare la vita o è la vita che deve indirizzare l’economia?
A chi affidare quest’immenso potere per meglio tutelare la vita su questa terra?
Quale lo Stato che sia garante delle condizioni di tutti i cittadini, nessuno escluso?
E la Chiesa ha una sua spirituale prospettiva di fronte a tali mutamenti epocali?Risponde alla sua missione evangelica in questo momento storico, quando “chiudere un occhio”, farsi guerci, corrisponde all’incoerenza dei farisei(MT 23, 1-12)?
Perché una falla così grande nella morale pubblica e privata?
Ci sono dei princìpi etici da rispettare anche in campo economico/politico?
Insomma, dovremmo rivedere quella specie di gabbia culturale e mentale che considera e tratta l’umanità solo in termini economici e di politica economica.
Anche se intimamente sentiamo quanto sia inumano questo modo di pensare, pure siamo portati ad accettarlo come logico, “normale”.
Quanto sia fallace e gravida di nefaste conseguenze questa ideologia lo dimostrano, per fare un esempio estremo, doloroso, ma chiarificatore, i numerosi suicidi, o anche le tante reazioni più o meno violente sotto l’impulso dell’esasperazione.
Ci vogliono convincere che l’economia sia un sapere riservato a poche intelligenze “superiori”, che sia una “scienza” con una logica tutta sua che prescinde da ogni altra considerazione che non sia il funzionamento di un meccanismo il cui unico scopo è quello dell’arricchimento personale.
E’ come se chi ha la responsabilità della famiglia si appropriasse del frutto del lavoro dei suoi membri e abbandonasse i figli al loro triste destino.
E’ questa l’economia, la buona amministrazione del patrimonio, secondo il significato proprio della parola?
Vogliamo dire che il “posto fisso”, ovvero il lavoro/reddito garantito, non è da considerare solo nei suoi risvolti economici, ma anche, e fondamentale anch’esso, come valore etico/morale.
Negare la centralità del lavoro non comporta solo un danno economico, ma implica un oltraggio morale, quello che la Chiesa potrebbe rubricare come “peccato capitale”, che esclude cioè dalla Grazia divina.
Laicamente si potrebbe dire che è una malvagità, e malvagio è chi teorizza e persegue tale principio, e chi vi acconsente e chi tace.
Chi scrive, ben s’intende, non ha nulla contro la ricchezza, anzi si compiace del ricco che gioisce delle sue belle cose, ma la ricchezza, oggi più che mai e a maggior ragione perché può di più, ha un obbligo morale ineludibile:non gettare nella disperazione milioni di esseri umani.
Ed ancora: preservare l’ambiente nel quale viviamo, partecipare al bene comune.
La ricchezza deve essere chiamata ad apportare bene e beneficio, socialmente non ha altra ragion d’essere:la cieca distruzione oggi che di sopravvivenza si tratta e non più di “illimitato progresso”, è un crimine morale, oltre che economico.
Dovremmo cominciare a pensare che l’azione violenta, che noi giustamente condanniamo come male assoluto, non è solo quella fisica, diretta, ma anche quella che si attua indirettamente per atto amministrativo o per scelte economiche che degradano uomini e territori.
Assumere l’idea, pratica e giuridica, che il lavoro non è un diritto, implica lo sfaldamento della visione etica della vita, inducendo a gravi dubbi sulla credibilità e giustezza dei princìpi morali, visto che il presupposto di un qualsiasi discorso morale non viene rispettato: il diritto, cioè, al rispetto dell’essere uomo, dotato di ragione e coscienza.
La morale di ciascuno, l’etica collettiva, non è dettata solo dalla parola, dall’insegnamento, ma anche, e forse maggiormente, dalle condizioni nelle quali ci ritroviamo a vivere.
Viene sempre in mente a questo proposito l’ammonimento dei sopravvissuti dei lager, per i quali, in quella situazione, le parole “giusto” e “ingiusto” erano diventate assurde astrazioni senza alcun significato.
Come dire che anche il più saldo paradigma morale deve trovare un qualche riscontro nella realtà.
In questo senso, il “posto fisso”, cioè il lavoro/reddito garantito dalla giovinezza alla vecchiaia, è fonte non secondaria di valori morali, cioè di sana aggregazione sociale, di equilibrio comportamentale, di fiduciosa qualità esistenziale.
Chi opera in senso contrario è degno di essere additato alla riprovazione secondo quell’universale principio giuridico-morale dettato da uno dei padri spirituali della nazione, Alessandro Manzoni: <I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che in qualunque modo fanno torto altrui, sono responsabili, non solo del male che commettono, ma del pervertimento cui portano gli animi degli offesi.>
Nicola Lo Bianco
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