"...Gesù vide un uomo, chiamato Matteo,
seduto al banco delle imposte,
e gli disse: «Seguimi».
Ed egli si alzò e lo seguì."
Matteo (9, 9)
Nei pressi del lago di Gennèsaret, nello spiazzo soleggiato di un centro abitato, parecchi galilei stavano in coda davanti al tavolo delle imposte. Vi era seduto un pubblicano, dietro al quale stazionavano due soldati romani di guardia. La varia gente, più o meno povera e più o meno abbiente, attendeva il proprio turno discorrendo.
"Papà, perché portiamo i nostri denari a quell'uomo, invece di spenderli per noi?"
"Perché è un dovere farlo, figlio. Jeshua, il nazareno, dice che dobbiamo dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio."
"Chi è Cesare?"
"E' l'imperatore romano Tiberio. Guarda, egli è raffigurato sopra queste monete, con cui dobbiamo pagare il nostro tributo di cittadini."
Non mancavano i commenti dei contribuenti riguardo il pubblicano.
"E' un esattore senza cuore."
"Non vuol sentir ragione."
"E non guarda in faccia a nessuno."
L'uomo al banco era totalmente intento a contare e ad accumulare le monete, col capo chino e lo sguardo catturato dal luccichio dei denari d'argento. A un certo momento giunse nello spiazzo un individuo, il quale scavalcando la fila s'avvicinò al suo tavolo.
"Matteo, figlio di Alfeo, seguimi!" gli disse con gentilezza e autorevolezza.
Lui sollevò la testa e l'osservò.
"Abbandona la schiavitù di mammona, e abbraccia la luce liberatrice."
Il bel volto del Cristo era radioso, circonfuso dallo splendore del sole.
"Seguimi, e ti farò amministratore delle mie preziose grazie."
Il pubblicano sentì pulsare il suo cuore. D'impulso si alzò rovesciando il banco e facendo cadere le monete nella polvere. Tutti lo guardarono stupefatti.
"Eccomi!"
Matteo lasciando tutto seguì, senza volgersi indietro, il Maestro.
(Racconto già pubblicato da Historica Edizioni.)
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