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Solitudine

di Veronica Mogildea
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Pubblicato il 16/02/2015 09:45:03

SOLITUDINE
Di estate il suo posto preferito era sotto la larga chioma del tiglio che si stendeva generosa sopra il cortile. Alcuni rami scendevano giù come i raggi di un enorme ombrello, creando un ambiente isolato e tranquillo che la proteggevano dall’ invadenza dei rumori e degli sguardi. E poi là sotto, anche nei giorni di calura soffocante si stava freschi; una perenne brezza muoveva lentamente le foglie con un fruscio tenue come un sussurro. Ogni volta che poteva, che il tempo glielo permetteva, si ritirava lì. Circondata dal comodo della frescura e dell’ombra essa leggeva, scriveva, lavorava, o si abbandonava semplicemente alla sensazione strana del silenzio assoluto, interrotto soltanto dal vagare disinibito dei propri pensieri che le pulsava dentro le tempie. Seduta su un piccolo sgabello, con la schiena appoggiata contro il tronco vigoroso dell’albero, a lei pareva di percepire con chiarezza il mistero del filo vitale che la collegava alla terra, alla natura e lei non era che una minuscola particella della grande realtà che portava il nome di Universo. Domande eterne, domande fatali sull'esistenza, sul senso della vita, sul ruolo riservatogli incombevano esigente nella sua testa e Lucia finiva per invidiare a sua madre, essere buono e onesto che da persona quasi analfabeta conduceva la sua vita senza tormentarsi troppo sul perché.
“Non ti annoi, Lucia?” le chiedevano gli amici, cercando di smuoverla dal suo guscio.
“Io?” rispondeva divertita. “Quando?” ed in modo regolare schivava inviti ed intromissioni, proteggendo gelosa il suo mondo.
Aveva scelto di tornare in campagna, seguendo un suo ideale, ma il suo spirito, la sua mente si rifiutava di idealizzare quel ambiente rurale che lei, standosene in disparte, non condivideva, perché semplicemente non poteva condividere. Con la percezione critica di una grande osservatrice notava ogni difetto, ogni stonatura di quel mondo chiuso e conservatore, in mezzo al quale il progresso e l’apertura mentale si facevano spazio con grande difficoltà. Si sentiva diversa, senza poter decidere se nel bene o nel male. Semplicemente diversa, si ripeteva scrollando le spalle. Non basta forse questo per sentirsi estranea?
C’erano di quelli che pensavano che Lucia fosse superba. “Dall'altezza del suo illustre piedistallo non vuole mescolarsi con noi altri … ha paura di sporcarsi di sterco la professoressa!” dicevano spregiativi, fingendo di ignorare l’entusiasmo con cui da anni essa si dedicava ai loro figli, fingendo di non vedere con quanta dedizione lavorasse il terreno modesto ereditato dal padre. Poteva vantare il più bel orto del villaggio. Altro che piedestallo!
Lucia non rispondeva, anche se considerava ingiuste le critiche, anche se la mancanza di riconoscenza la feriva. Oh, come la feriva! Resisteva con fatica alla tentazione di spiegare alle malelingue che non era lo sterco che la ripugnava, bensì il loro modo ottuso e denaturato di guardare il mondo.
“La causa di tutti i mali è l’ignoranza!” ripeteva per darsi coraggio. Nel cuore, come un’aria che sapeva di putrido e muffa, si insinuava la convinzione che negli iridi dei suoi paesani si riflettesse un immagine distorta di se stessa. Si sbagliavano loro! Lei non era così! Scuoteva la testa desolata e non finiva di chiedersi, perché era così difficile farsi comprendere.
A volte, nelle lunghe sere invernali, passate in compagnia delle riflessioni solitarie, si chiedeva, allungando le mani verso il fuoco del camino in cerca di un’illusione di carezza, se fosse davvero immune, se la sua anima non fosse raggiunta e corrosa dalla vanità. Forse era davvero superba. Forse esisteva quel piedistallo …
L’atmosfera silenziosa induceva alle meditazioni; soltanto il fuoco scoppiettava tranquillo; ogni tanto una scintilla con un scatto brusco di ribellione si staccava dal groviglio rovente, disegnando una piccola traiettoria luminosa, e andava a spegnersi lentamente, con un brillo palpitante sul pavimento di terracotta. Lucia la seguiva con lo sguardo e non poteva fare al meno di domandarsi, se quella scintilla non fosse la parodia tragica della sua vita. Stretta nel piccolo scialletto di lana si perdeva nelle riflessioni. Rimaneva a fissare assorta la fiamma con il mento fra le dita; abbandonava liberi i pensieri; ogni tanto muoveva combattuta, più che mai fragile, le labbra in un muto duello interiore, aperto e schietto, dove non c’era spazio per finzione.
Davanti al giudizio della sua coscienza incorruttibile doveva ammettere e dire di sì, era vanitosa: però, la sua vanità non risiedeva nelle pieghe dei vestiti che indossava, non si nascondeva nelle cose materiali che la circondavano, non le importava proprio niente, anzi non le notava nemmeno, ma piuttosto nell'inconfessabile orgoglio della propria intelligenza, la sua creatura, il frutto di un duro lavoro, di tante ore insonne, il risultato della mortificazione del proprio fisico nella speranza di attingere le vette alte dello spirito. Era questo il suo torto. Sarebbe stato un piccolo peccato, quasi da assolvere, se la sua vanità fosse stata una di quelle innocenti che ogni tanto affiora in superficie in modo inconsapevole, senza condizionare il cammino della vita. Lucia, invece, era assolutamente cosciente del proprio tesoro. Lucidamente si compiaceva di possedere una mente abile, assetata, curiosa che la sollevava, aprendole degli orizzonti inaccessibili agli altri. Proprio come aveva previsto anni all'indietro il suo vecchio, idealista professore!
Nello stesso instante apprendeva con stupore di non sentirsi per niente colpevole di tutto ciò.
“Non ho rubato niente a nessuno!” e la fiamma del camino acconsentiva tremula.

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