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Tigre di carta

di Glauco Ballantini
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Pubblicato il 03/02/2015 17:52:43

Il colonnello Antonio, presidente del consiglio di Leva, a differenza di quasi tutti gli ufficiali che conobbi durante l’anno del militare, era una persona molto consapevole di non essere colonnello che sulla carta, anzi un giorno me lo disse:

“Vede, noi che siamo qui, siamo militari, ma di fatto civili perché non contiamo niente, siamo delle tigri di carta.”

Un paio di cose utili in quei dieci mesi me le insegnò il colonnello. Per esempio, una volta mi fece un ragionamento sul comportamento formale e sul saluto, riferito al fatto che aveva ripreso due sottotenenti medici che non lo avevano salutato.

“Vede, io non pretendo che mi si saluti militarmente, per onorare il mio grado, ma che mi si saluti sì. Lo pretendo perché lavoriamo nello stesso ufficio, e poi, all’esterno di qui deve esserci anche la considerazione che si deve.”Una certa formalità, ci vuole.”

 

Infatti, tutte le mattine, quando arrivava, si affacciava lui per primo a salutare tutti.

“Buongiorno, Ballantini.”Buongiorno colonnello.”

 

Aveva l’aria di una persona che prendeva sul serio il suo dovere, anche se non era appagante per lui, ma il dovere prima di tutto. Dava del lei a tutti, indistintamente:

“Lo faccio per rispetto, perché comunque voi non mi potreste dare del tu, e allora ci diamo tutti del lei.”

Un'altra volta, sulle ragioni delle formalità mi disse:

“Io capisco quegli ufficiali che, durante la prima guerra mondiale, punivano i soldati perché non si erano rasati. “Ecco, in quel caso, il decoro personale serviva anche a far avere a quelle persone una maggiore stima di se stessi, a non buttarsi giù, ad avere una migliore immagine di se”.

Lo capivo benissimo, la mia tesi di laurea trattava proprio l’immagine di se, se non l’avessi fatta prima del militare, lo avrei citato volentieri.

 

E una mattina ebbi anche io, il mio rimprovero.

Avevo mandato, come caporale responsabile dell’ufficio, un soldato nuovo ad aprire con le chiavi, e non ci era riuscito. Quando arrivai, erano tutti in attesa di entrare. Una cinquantina di persone.

 

Al suo arrivo in ufficio, lui veniva da Cremona, mi chiamò:

“Che cosa è successo, Ballantini?”

Gli spiegai il fatto. Lui mi disse:

“Vede, lei si deve accertare che le persone siano in grado di eseguire i suoi ordini.”Non discuto il fatto di mandare l’ultimo arrivato ad aprire, ma il fatto che lui non lo sapesse fare, e che lei non se ne sia accertato.”Ora lo sa, per la prossima volta.”

 

Mi piacque molto che prima di rimproverare l’effetto, mi chiese la causa.

 

Ed anche che non mi punì.


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