Davanti alla morte della bambina di Palermo non si può rimanere indifferenti. Soprattutto non si può non chiedersi se siano soprattutto i bambini e gli adolescenti a manifestare quella disperazione di cui noi adulti dovremmo portare il peso. Perché una cosa è certa: quella che noi viviamo è un'epoca di disperazione e questo ben prima della pandemia; l'essenza stessa della civiltà della tecnica è disperazione.
I macabri rituali che imprigionano bambini e ragazzi in una trappola senza scampo non sono solo giochi finiti male, ma manifestano una volontà di sfidare e di sfidarsi che non hanno precedenti: primo, perché spesso lo scopo è quello di piacere agli altri o di riscuotere la loro approvazione e poi perché, a volte, si direbbe che giochino alla morte per sentirsi vivi, come quelli che si producono tagli in tutto il corpo o bruciature volontarie per dare sfogo a un dolore che diventa insopportabile perché inespresso.
La cosa che più colpisce è la determinazione con cui queste terribili sfide vengono portate avanti, quasi come se la serietà che occorre per vivere si fosse spostata nel gioco e il senso di responsabilità che implicano tutte le scelte quotidiane si fosse trasferito in quella volontà di giungere fino in fondo, fino alla morte.
Il gioco e non più la vita diventa la prova di resistenza suprema e l'ambito in cui ci si misura non è più la società ma la platea dei social. Forse ciò che attrae i giovanissimi verso queste prove estreme è il bisogno di regole che essi non trovano più né nella famiglia né nella scuola; forse quella determinazione nel mostrare il loro coraggio è proprio causato dalla consapevolezza che, questa volta, non ci saranno sconti, né eccezioni perché, paradossalmente, è questo ciò di cui hanno bisogno.
La verità è che il disincanto del mondo, la scomparsa di qualsiasi dimensione spirituale, la razionalizzazione scientifica hanno lasciato un vuoto abissale nella nostra psiche, aggravato dall'assenza di quei "riti di passaggio" che le società "primitive" conoscono molto bene e che noi, cosiddetti "civilizzati", abbiamo liquidato con troppa leggerezza. Questi, infatti, permettono di controllare e gestire l'ansia e il disagio tipici degli adolescenti, consentendo loro di "affacciarsi" alla morte e al dolore, per poi ritornare più forti e più responsabili a far parte del gruppo sociale. In una società come la nostra, invece, nella quale tutto equivale a tutto e i confini tra le generazioni sono scomparsi, dove trovare punti di riferimento che non siano merci o il vano chiacchiericcio di facebook, o, peggio ancora, la sfida fine a se stessa?
Ma, ancora una volta, facciamo solo parole: la vera e unica tragedia è che una bimba di dieci anni se ne è andata in quel modo, lasciandoci qui a balbettare inutilmente.
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