A breve giro, dopo la raccolta poetica “Noi e loro”, Donzelli Editore, 2008,
recensita su larecherche.it, e dopo la prosa di “Zamel”, Marcos y Marcos, 2009,
anticipata e recensita su larecherche.it, Franco Buffoni torna in libreria con una nuova raccolta di poesie intitolata “Roma”, pubblicata per i tipi di Ugo Guanda Editore, nella Collana “Fenice contemporanea”. Su larecherche.it lo stesso autore ne anticipò tre poesie in occasione dell’intervista rilasciataci (
leggi l’intervista e l’anticipazione). Buffoni è considerato – come dice Valerio Magrelli nell’introduzione al volume, nel risvolto della copertina – “fra i maggiori poeti italiani della sua generazione”.
Mi affiderò, nello scrivere queste poche righe su “Roma”, semplicemente alle sensazioni di lettore. A mio avviso “Roma” è un libro originale, ottimamente scritto, diligentemente, con chiarezza di lingua e sottile metafora. Non sempre i testi sono di immediata comprensione, talvolta è necessario sostare sui versi al fine di penetrarne il senso, o di lasciarsi scalzare dal senso che il poeta, noto per la sua fine coda di ironia e rimando a percezioni non immediatamente evidenti, insuffla con intelligenza esemplare e totalmente piacevole. Dal punto di vista della scrittura mi pare di cogliere una fluidità che comparerei, per analogia, a una cascatella di montagna, in cui le parole, come acqua, scorrono verso un unico senso, l’unico possibile in eufonica discesa verso la pacatezza dello specchio d’acqua, il luogo del significato più ampio delle parole di Buffoni, in cui l’insieme dell’opera trova l’armonia della completezza. Sotto la limpidezza delle parole che si depositano nello specchio d’acqua, sul “fondale”, appare il senso dell’intera scrittura. Si evidenziano gli elementi contenuti nel libro. Mi pare di non sminuire la poesia di Buffoni, e anzi, (tantomeno me stesso) affermando che i sensi di alcuni testi non mi sono risultati di immediata evidenza, mi è parso perciò utile fare una prima lettura del volume senza troppo sostare sulle singole poesie, poiché, a causa della scorrevolezza del testo, mi è risultato piacevole, come si addice alla musica più bella, il solo ascolto dei suoni evocati dalle parole, incastonate nella fluidità dei versi, e della loro risonanza nella bocca o nell’aria dintorno (essendo ottima una lettura delle poesie a voce), in questo modo si è rivelato il panorama del discorso, successivamente focalizzato in una lettura più particolare.
Il volume è diviso in XI sezioni distribuite in circa 170 pagine. Le prime sezioni hanno un carattere pasoliniano, in cui “omofobia e croci celtiche, campioni sportivi arroganti e giovani disperati giocano ruoli adiacenti”, come Buffoni stesso scrive nelle note finali. Via via lo sguardo su Roma, passando dai quartieri piemontesi, “tra moderno degrado e parlata di popolo”, si “stratifica e si archeologizza, sincronico e diacronico insieme, per cogliere l’attualità in Galileo e in Pinturicchio gay, e – vòlto alla campagna romana – in Leopardi suddito della Reverendissima Camera Apostolica e in Keats, che ha già composto l’Ode a un usignolo e trasecola alla vista di un cardinale che spara in cielo.”
Della VI sezione intitolata “In quell’angusto regno del silenzio”, mi piace riportare per esteso, sperando di fare cosa gradita, la poesia iniziale, in quanto sintomatica di tutta una metodologia costruttiva di forma e contenuti:
Ho pensato a te, contino Giacomo, vedendo
Su una rivista patinata
Le foto degli scavi in Siria e Urkish,
A te e ai tuoi imperi e popoli dell’Asia
Quando intuivi immensamente lunga
La storia dell’umanità.
Altro che i Greci il popolo giovane di Hegel
O il mondo solo di quattromila anni della Bibbia
Credendo di dir tanto, fino a ieri.
Tu lo sapevi che sotto sette strati stava Urkish
La regina coi fermagli
L’intero archivio su mille tavolette
Già indoeuropea nella parlata
L’accusativo in emme. Capitale urrita
Dai gioielli legati all’infinita pazienza
Dei ricami in oro. Tu lo sapevi che poi gli Hittiti
sarebbero giunti a conquistarla,
Già loro vecchi e di vecchi archivi nutriti…
Sono stufo di preti e di poeti, conte Giacomo.
E di miti infantilmente riadattati.
Come già detto la raccolta risulta essere caratterizzata da originalità, per come l’autore riesce a intessere con abilità storica, sguardo sociale e civile, sensibilità artistica e, oso dire, rigore scientifico applicato alla poesia, le trame di un proprio pensiero e di una propria fede umana fondata sia sull'educazione alta di tipo letterario e filosofico (Humanismus) che sulla più popolare propensione verso le situazioni di vita quotidiana; quest’ultima è prevalente nella sezione finale, intitolata “Un longobardo assente”, in cui Buffoni cerca “il meno possibile di mentire su sé stesso”: “Un sorriso da Grace Kelly già ingrassata / […] / E per tutta la sera mi ha guardato / Leggere. […] / Ma odio quelle che / «Te ne assaggio un pezzettino» / E si godono la punta della mia torta / Del trancio di pizza, del mont blanc.” (pag. 164).
Talvolta le poesie lasciano il lettore sospeso in una indeterminata incertezza, in una zona di confine in cui le parole del poeta assumono caratteri descrittivi che sembrano osmoticamente passare dalla realtà alla finzione di una pittura o un affresco o viceversa. Buffoni utilizza le bellezze dell’arte per innalzarsi verso riflessioni storiche e sociali rilevanti: “Lontane su un mare piatto / Abbandonate navi in disarmo / Della marina vaticana. / […] / Nel palazzo con loggia decorata / da sette leoni passanti, / […] / Due papi in abito da giullare / Attendono il giudizio / Senza nemmeno una striscia / Di cielo che li aspetti.” (Pag. 88). Dagli scritti di Buffoni si evince un suo tipico e marcato razionalismo e un forte accento critico verso l’istituzione del Vaticano e dei suoi alti prelati. Ed ecco l’occasione di “Roma” per esortare il lettore ad una riflessione storica riguardo il rapporto tra Galileo e il Vaticano – “[…] / Vedo in ginocchio il vecchio Galilei / Dinanzi ai cardinali tronfi e bolsi.” (Pag. 89) – e contrapporre il miserrimo atteggiamento antiprogressista dei cardinali davanti al fulgore di una mente che in Galileo iniziava un rinnovamento e una rivoluzione del pensiero e della visione del mondo; pensiero e visione che nulla, come si sa, avrebbero potuto togliere all’onestà della fede, come infatti la Storia ha dimostrato nei secoli successivi. Una poesia su Galileo, forse una delle più belle del libro, è pubblicata per esteso nell’intervista (
leggi).
Tuttavia, nonostante la fortissima caratterizzazione razionalista, e atea, del pensiero buffoniano, si leggono questi tre versi finali nella poesia di pagina 93: “[…] / Da uomo a uomo Gesù ti sto pregando / Ma tu dammi cenno di riscontro. / In the Pallottini Ecclesia Church. Onlus.” Versi percorsi da una piccola vena di ironia, che sembrano scritti per segnare un luogo preciso dove si è data la possibilità di vedere Gesù all’opera… ma si sa che la fede è anche un mistero di non risposta. Mi ha colpito quel “da uomo a uomo”, che forse basta a Buffoni, non avendo ricevuto risposta, immagino, per annullare la propria e le altrui fedi.
Infine, sempre dalla nota finale di Buffoni, “la IX e la X sezione riportano il libro all’arte contemporanea, per assestarsi sul Novecento di un poeta purissimo, mercante di quadri e ladro di sguardi”, siamo nella fase penniana del libro.
Insomma il libro è molto bello, sicuramente consigliabile sia per chi conosce Roma, che vi troverà luoghi e contesti noti rivisti dagli occhi di un non romano, sia per chi non la conosce, che ne vedrà i tratti salienti contemporanei e millenari nella descrizione di un attento e critico osservatore. In entrambi i casi il lettore godrà di Roma narrata in una luce di eccellenza linguistica, una Roma storica, artistica e di vita quotidiana, di umilissima gente e di eroi della resistenza partigiana e personaggi la cui vita ha accompagnato, e talvolta segnato, la storia della città eterna.