Quanto ci avrebbero messo i trent’anni ad arrivare e scovarmi, intenta a raccattare monete nelle tasche del cappotto di mio padre e nei pertugi nella fodera lisa della borsa di mia madre? Poco, molto poco. E già se la ridevano - i bastardi! - mentre, parlando con i quaranta, chiedevano maliziosamente: “La becchiamo in casa dei suoi o mentre serve l’happy hour agli ex compagni di corso, nel ristorante davanti al Dams?”
Mandai giù l’ultimo sorso di the scadente - sempre che fosse the quella poltiglia color can che fugge, confezionata in anonime bustine “authentic discount” - e, con uno scatto, mi alzai per andare ad avviare il portatile.
Mentre attendevo la faticosa inizializzazione del vecchio catorcio, mi arrotolai un drummino e gli diedi fuoco con lo Zippo Rocco Marocco. Finalmente comparve la schermata del Crome. Google Maps: un click bello deciso. Digitai l’indirizzo e, all’apertura della mappa stradale, mi cadde tutta la cenere sulla tastiera. Credevo di trovare una stradaccia di periferia o situata nei quartieri a luci rosse. Invece, zona strafica appena fuori dal centro storico. Strano. Comunque, ora sapevo dove andare.
Mi feci una doccia e indossai un tubino verde petrolio aderentissimo e corto al punto giusto. Trucco e parrucco: arricciai i capelli che scesero sulle spalle come graziosi serpentelli fulvi, poco fard pesca sulle gote, solo mascara ad addensare la linea degli occhi verdi che sfoggiarono, alla grande, la loro espressione migliore da gatta sognatrice. Ultimo tocco: calzare un paio di Mary Jane tacco nove.
Mi guardai scontenta nello specchio: ero perfetta fuori e uno schifo dentro, come certe bottiglie di vino pregiato andato a male. Mi preoccupava anche il pensiero di come avrei potuto cavalcare “Addio”, il mio motorino vintage - un aggettivo che un amico aveva affibbiato a quella quasi bicicletta d’epoca… grazioso, vero? – che si ossidava grazie al clima, ormai, decisamente più albionico che mediterraneo, assumendo una nuance che gli conferiva la dignità del pezzo d’antiquariato. Mi attraversò il pensiero di cambiarmi ed indossare l’abitino bordeaux così, se mi fossi macchiata di ruggine, nessuno se ne sarebbe avveduto. Desistetti perché, se avessi temporeggiato per una qualsiasi ragione, avrei finito col tornarmene a letto a rannicchiarmi avvolta dalla puzza di fumo e dal nauseabondo lezzo di greggio che emanava il pile made in China.
Quindi, dopo avere fatto un paio di grattini a Sultana che mi guardava triste e pareva avesse bisogno di conforto, uscii tirandomi dietro la porta rumorosamente. Scesi le scale in punta di piedi. I vicini, dopo quel boato, non avrebbero gradito il ticchettio delle mie calzature da passerella.
Inforcai “Addio”, grazie ad esilaranti evoluzioni ginniche, e misi in moto scomparendo nella nube tossica dell’avviamento a freddo.
Schivai tre gatti, dodici piccioni, venti cornacchie nonché un grosso gabbiano con gli occhietti cattivi che “pascolavano” fra l’immondizia vomitata dai bidoni scassati della differenziata - avete notato che questi esimi volatili non hanno più paura di noi e come, protervi, ci sfidano? – e, dopo aver urlato turpi epiteti contro almeno una trentina di automobilisti - perchè, alla vista di un motorino scassato, si tramutano in Transformers cattivi? -, arrivai a destinazione.
Mi tolsi il casco trash regalatomi da mia sorella - sapete quelli ricoperti di peluche, con le orecchie da orsetta minchia? - e guardai sbalordita, dal basso verso l’alto, il grattacielo stile “Inferno di cristallo” che mi si parava di fronte. Caspita che lusso! Non avrei immaginato.
Riposi tutto, tranne la borsa, sotto il sellino, misi la catena a bloccare la ruota anteriore - che, poi, al solito, i ladri se la fregheranno e, con l’attenzione di un caregiver alle prese col primo soccorso, lasceranno il trabiccolo a boccheggiare sul marciapiede, disteso su un fianco - ancorandola ad un lampione.
La porta automatica, apriti sesamo, spalancò le sue fauci lasciando che la hall - notato che hall e hell si differenziano per una sola lettera? Ci sarà bene un motivo, no? - mi digerisse.
Una escort mi si parò davanti - come amavo in quel momento le mie scarpe ed il sito di svendita on line - e potei constatare, con soddisfazione, che la guardavo dritta negli occhi. Strizzata in un tailleur blu notte, con la targhetta di riconoscimento appuntata al bavero sulla quale, proprio sopra al nome, fiammeggiavano il logo - ma che schifezza di grafico l’ha creato? Cos’è? Sembrano le corna di un caprone… - e il motto “We Can Do It!”, stampato usando il font “Comic Sans MS” - Dio Santo, ma non lo odiate anche voi, con tutto il cuore, questo carattere che fa il simpatico? - corpo 8, grassetto.
“Benvenuta nel Centro Nazionale Work Guarantee. Questo è il suo passi. Permette? Glielo appunto sul petto. Non deve mai toglierlo finché è all’interno dell’edificio: il codice permetterà al nostro personale di identificarla. All’uscita lo riconsegnerà alla collega che le consentirà l’uscita. Vede? È lì, alla sua sinistra. Ora, ritiri il suo numero presso il dispenser elettronico e prenda posto nella fila, sportello “Smistamento”. E ricordi: “We Can Do It!”
Feci un cenno di assenso col capo e mi diressi, a passi decisi, verso il distributore. Presi il pizzino e mi misi in coda, andando ad allungare la fiumana umana che stanziava presso i botteghini di assegnazione.
Pochi secondi dopo, con la coda dell’occhio, riuscii a scorgere il “cliente” successivo. Era un giovane, forse mio coetaneo, forse un po’ più grande; alto, magro, occhiali dalla montatura nera, colorito pallido, mani dalle dita affusolate e unghie curate, perfette se non fosse stato per la trasparenza giallognola che allignava fra le falangi superiori di indice e medio della sinistra, indelebile marchio del tabagista accanito.
Mentre stavo tentando di immaginare quale fosse la sua identità, una voce stentorea mi fece sobbalzare.
“NomeCognomeLuogo e data di nascitaCodiceFiscaleSessoeStatoCivile.”
Dopo aver balbettato un superfluo “buongiorno”, sciorinai le mie generalità.
Il robot - sono sicura lo fosse. Oppure, al massimo, un essere bionico o geneticamente modificato. “JMJ2015 al suo servizio, Signore!” In ogni modo, era alquanto inquietante - chiese, lapidario:
“Settore?”
“Audiovisivi, spettacolo e pubblicità."
“Professione?”
“Attrice.”
“La sua richiesta?”
Ed eccomi arrivata alla frontiera. O si valicava o si moriva. Se quello che Estella mi aveva spifferato - e vi assicuro che, malgrado sia una cittadina informata e tutt’altro che ingenua, quel racconto mi era parso piuttosto incredibile… quanto meno gonfiato, enfatizzato: si sa, noi saltimbanchi siamo esseri emotivi, fantasiosi, a volte rimaniamo prigionieri di un nostro personaggio - si fosse rivelato vero, sarei riuscita ad andare avanti, altrimenti mi avrebbero portata via, incartata con cura in una bianca camicia di forza. Coraggio! Dovevo pronunciare la formula magica. Mi avvicinai al vetro blindato dello sportello, accostai la bocca a pochi millimetri dall’amplificatore e, scandendo le parole a voce bassissima ma perfettamente pulita, dissi:
“Chi - mi - devo - fare?”
L’automa non mosse un muscolo - e come avrebbe potuto? – e sentenziò:
“Segua la linea blu, prenda il lift nel padiglione “Audizioni”: quindicesimo piano, stanza 15103.”
Incerta se attribuire all’euforia della speranza piuttosto che ad un severo attacco di panico gli innumerevoli sintomi che, in un nanosecondo, si erano impadroniti del mio corpo, mentre prendevo le distanze dal “dissennatore”, ebbi modo di ascoltare il “botta e risposta” fra il miope fumatore che mi succedeva nella fila e il manichino da crash test.
“Settore?”
“Veramente dal repertorio non si evince. Editoria, forse.”
“Professione?”
“Poeta.”
“Scenda le scale, quarto piano interrato, in fondo al corridoio, subito dopo le toilettes: “Ufficio oggetti smarriti”.
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