La chiave gira nel cilindro, la serratura si sblocca e la porta si apre, Amalia entra nell’appartamento e posa le chiavi nel cestino sul mobiletto accanto alla porta. Va nel soggiorno e abbandona con negligenza il cappotto sul divano, poi si avvicina al tavolo e accarezza con un gesto lieve la piccola urna che vi è posata. Le dita indugiano sulla modanatura che corre attorno al vaso, di semplice ma squisita fattura, poi Amalia si dirige in cucina mentre un pensiero le crea una sottile ruga sulla fronte; va all’acquaio e apre il rubinetto, lascia scorrere l’acqua per qualche istante, poi riempie un bicchiere di vetro turchese. La donna va davanti alla finestra e, osservando il piccolo giardino sul retro della casa completamente coperto da uno spesso strato di neve, beve a brevi sorsi; anche l’abete, che svetta al centro del fazzoletto di terra, è carico di neve fresca, tanto che i suoi rami sono incurvati verso il basso. Il cielo è cupo ma la fitta nevicata è terminata, il silenzio è compatto, sembra che l’energia, che abitualmente vibra nell’aria, si sia interrotta, nella casa e fuori non un volo, non un ronzio, non uno strisciare. Stasi. Amalia si avvicina alla porta che dà sul giardino, alla sua destra c’è un piccolo attaccapanni da cui prende la giacca a vento, il pesante berretto di lana e i guanti. Restano invece al loro posto un giaccone da uomo, il giaccone di Matteo, e una sciarpa, che non può fare a meno di stringere fra le dita. Dalla sciarpa si spande tenue il peculiare profumo di Matteo, una singolare miscela di Oud* e aria della mattina che la donna si sofferma brevemente ad assaporare, poi apre la porta e esce. Le impronte di Amalia sono le prime nella neve caduta durante la notte. La donna muove qualche passo titubante, poi si fa più decisa e si avvicina all’albero. Lo guarda, ne percepisce la freddezza, ma anche la linfa che scorrendo al suo interno lo mantiene in vita, poi allarga le braccia e si lascia cadere. Amalia resta così, sdraiata nella neve che, come uno spesso piumino, ne ha attutito la caduta, l’ha accolta e, quasi proteggendola, la circonda. Da quella posizione può vedere soltanto il cielo col suo lucore grigiastro, alcuni fiocchi ricominciano a cadere e appaiono ad Amalia come macchioline scure, sembrano danzare coi fosfeni che una sorta di dolore sordo, riecheggiando nella mente, le proietta sulla retina. Resta sdraiata per lunghi attimi, la neve, al contatto del suo corpo, si scioglie leggermente, assume la sua forma; senza rendersene conto cade in un profondo torpore, si assopisce e comincia a sognare un’auto che corre su una strada di montagna circondata da un fitto e oscuro bosco. L’auto sembra sbandare, improvvisamente Amalia si sveglia, perché sente l’aria vibrare di un profumo intenso, si solleva, dapprima sui gomiti, poi si alza e quando si volta verso la casa, per rientrare, vede un albero che non aveva notato e che, forse, non era mai stato lì, una Aquilaria. È da questa pianta che si spande l’intenso profumo che ha svegliato Amalia. La donna, vedendo che in casa le luci sono accese, rientra e trova la tavola apparecchiata festosamente per la cena della Vigilia di Natale. Dalla cucina giunge, insieme a un ottimo profumo, la voce di Matteo che la esorta ad accomodarsi perché la cena è pronta. Amalia, leggermente confusa, si siede; Matteo, dalla cucina, prosegue dicendo che ha preparato degli ottimi tortellini in brodo, sa che sono tra i suoi piatti preferiti.
Amalia sente la voce, un poco ovattata, vicina ma in qualche modo remota, e non riesce a vedere Matteo, non lo vede muoversi, non produce alcun rumore, non si è neanche affacciato dalla porta che dà sulla sala da pranzo quando lei è arrivata. Matteo continua a parlare descrivendo per il secondo una bellissima anatra all’arancia cotta al punto giusto, con la salsa caramellata in cui arancia e Grand Marnier sono legati alla perfezione. Amalia si perde nella voce del compagno, migliaia di scene si affastellano nella sua mente, forse chiude per un attimo gli occhi, d’improvviso nota la zuppiera fumante posta accanto al suo piatto. Il mestolo sporge incurvato e invitante dall’occhiello che interrompe la perfetta circolarità del coperchio. Dalla cucina continua a giungere la voce di Matteo che la prega di mangiare mentre lui ha ancora da fare per ultimare la cena. Amalia sfiora la zuppiera e cominciano a scivolarle delle lacrime sulle gote appena arrossate dal caldo della stanza. Le asciuga col tovagliolo, poi si schiarisce la voce e, tutto d’un fiato, quasi allarmata, chiede all’uomo perché ha voluto prendere la strada che passa dalle montagne, che d’inverno è sempre poco sicura.
Amalia si ritrova nel suo letto, circondata dall’oscurità, in quello stato di confusione che segue a un sonno pesante e precede un pigro e lento risveglio. La donna sa che aprendo gli occhi incontrerà lo sguardo ammiccante e un po’ sfrontato della lampada Fornasetti posata sul suo comodino, poi con la mano andrà a cercare la nuca di Matteo, che dorme raggomitolato su di un fianco, e vi poserà una carezza. Amalia vuole aprire gli occhi, vuole vedere gli arabeschi che la luce crea passando attraverso le tende colorate, vuole riaffacciarsi alla vita ma un peso sembra serrarle gli occhi. Nel risvegliarsi percepisce anche un’oppressione al petto, quasi il respiro si fosse rintanato in fondo ai polmoni e non volesse più uscire, le coperte si fanno pesanti, il letto improvvisamente inospitale: vuole alzarsi. Amalia, con grande sforzo, solleva le palpebre, ma rimane immediatamente accecata da una forte e bianchissima luce proveniente dal soffitto, invece del silenzio abituale della sua stanza, sente degli strani ronzii. Volta la testa da un lato e incontra gli occhi della madre, attenti e gonfi di lacrime, spalancati sopra una mascherina verde. Amalia, incredula, si guarda attorno, poi frammenti sparsi di memoria cominciano a ricomporsi, d’un tratto ricorda. “Matteo!”, urla, “Matteo dove sei? Dov’è, mamma?”
La madre non si scompone, lo sguardo rimane come assorto, o perso in pensieri lontani, sembra non sentire né percepire Amalia, come se una spessa lastra di vetro separasse le due donne. Amalia non riesce a muoversi. Serra le palpebre per trattenere le lacrime che sembrano imminenti, sente un brivido di freddo lungo la schiena, avverte il fruscio di un albero e poi un’esplosione di profumo di Oud. Spalanca gli occhi e avverte sotto di sé il morbido tepore familiare del divano di casa, la finestra del soggiorno è socchiusa a causa del filo di fumo che il caminetto produce con le prime timide lingue di fuoco che sembra non vogliano davvero aggredire i ciocchi disposti sul braciere. Oltre la finestra Amalia vede l’aquilaria muoversi dolcemente al vento; la neve, cadendo dai rami, produce un delicato fruscio, quasi a voler imitare il suono delle foglie. Dall’ingresso le giunge la voce di Matteo che sta raccontando, divertito, di come l’ha trovata addormentata nella neve, ora deve mettere ad asciugare il cappello e i guanti inzuppati di neve sciolta. Amalia chiama il compagno, una, due volte, vorrebbe chiedere se proprio non era possibile fare un’altra strada, evitare quella fra i boschi della montagna. Matteo non risponde, continua a raccontare di quella volta che da piccolo lui con la sorella si erano addormentati nella neve e la madre aveva faticato molto per ritrovarli. Al suono della voce di Matteo Amalia si assopisce, ora avverte una sensazione di tepore e di sicurezza che le avvolge le membra. Il suono improvviso della sveglia la fa sussultare, apre gli occhi e trova una buffa faccia in bianco e nero che le fa l’occhiolino, la lampada Fornasetti: “Ah ma è la lampada”, mormora. “Certo!”, d’improvviso esclama Matteo, “Cosa credevi, che te l’avessero rubata durante la notte?” La voce giunge dalla finestra, Amalia volta la testa e dirige lo sguardo in quella direzione. Vede Matteo che sbircia tra le persiane, il corpo arabescato dalla luce del mattino, resa colorata dal passaggio attraverso le tende. “Ha nevicato tutta la notte”, esclama divertito Matteo, “finalmente quest’anno avremo una vigilia di Natale con la neve. Ma ora alzati che dobbiamo andare da tua madre, e ancora non abbiamo incartato il suo regalo, ti ricordi quel bel vaso che abbiamo trovato a Praga e che è rimasto parcheggiato un mese sul tavolo? Forza Amalia, la strada è lunga e sai che sicuramente ci starà già aspettando impaziente… lo sguardo fisso alla strada ma riparata dietro le tende.” “Matteo!”, esclama allarmata Amalia, “che strada faremo?” “Ma che domande Amalia, la solita e unica.” “Quale?”, lo incalza Amalia sempre più allarmata. “Ma cara… la solita, quella che costeggia il lago.” “Ma… ma…”, balbetta Amalia, “quella che passa sulla montagna?” “Ma dai tesoro, stai ancora dormendo? Non ti ricordi la frana di qualche anno fa? Da allora quella strada è chiusa.”
Amalia si attarda un po’ ad armeggiare con la serratura, si infila i guanti e mentre si volta per raggiungere il compagno, che la precede di qualche passo, una folata di vento fa svolazzare la sciarpa di Matteo e le narici di Amalia si inebriano della misteriosa fragranza fatta di Oud e aria della mattina. “Cosa ne pensi Matteo, potremmo piantare una bella aquilaria nel giardino, magari accanto alla finestra della cucina, così non sarà troppo esposta.” Matteo sta aprendo la rimessa dell’auto, sembra cercare qualcosa in un angolo poi si gira tenendo un piccolo arbusto sul quale campeggia un gigantesco fiocco rosso. “Anche se riesci sempre a rovinare quasi tutto”, dice Matteo con un sorriso, “Buon Natale! Ecco la camelia che desideravi tanto.” Poi ripete, con più dolcezza: “Buon Natale Amalia.” Inclina un po’ la testa e fa quel sorriso buffo che ad Amalia piace tanto, inspira profondamente e quasi scusandosi dice: “Lo sai che l’Aquilaria non cresce alle nostre latitudini”, la guarda dolcemente negli occhi e aggiunge, “Se vorrai sentirne il profumo dovrai semplicemente stringerti a me.”
*L’oud (o Agarwood), è una resina tanto rara quanto pregiata, prodotta dagli alberi indiani Aquilaria e Gyrinops quando vengono infettati da un particolare tipo di muffa.
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