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Skizzando nel vento 9: Ballata del ritorno

di Stefano Saccinto
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Pubblicato il 10/10/2008 20:12:12

9
Ballata del ritorno
(Via da casa in un posto che non so dov’è)



DICEMBRE DELLA LONTANANZA

C’era quest’aria da ‘oh che bello! oggi è Natale, ma non è che ce ne freghi poi così tanto, a noi’.
Le case avevano i balconi agghindati e gli abeti erano pieni di palline colorate gialle verdi azzurre rosse e bianche e c’era pure la neve che a Natale è la cosa più bella, senza dubbio e c’erano persino i bambini che si tiravano le palle di neve e i pupazzi bianchi con la carota al posto del naso e gli occhi-due bottoni azzurri con la sciarpa al collo e persino i guanti per mani.
C’era pure la gente che camminava da un posto all’altro con pacchi regalo grandi, piccoli, invisibili e c’erano anche i neri che camminavano per le strade bagnate spalate la mattina presto, con le loro carrozzelle piene di accendini e di cassette a contrabbando e tutto il resto che doveva far loro un freddo cane, abituati al caldo della loro terra.
C’era tutto questo nel paese che i miei avevano scelto (partiti il pomeriggio del ventitre ed arrivati lì durante la notte, avevamo dormito ed avevamo visitato un po’ il posto, la mattina del ventiquattro) per passare il Natale da un’amica di mia madre che un tempo era stata nostra vicina di casa e che divenne prestissimo e rimase la migliore fra le amiche di mia madre.
C’era tutto questo, dicevo, però era troppo classico, patetico e persino banale, persino ipocrita, persino brutto e malinconico più che dolce come voleva sembrare, ma purtroppo me l’avevano assegnato e dovevo tenermelo, almeno per fare felice mia madre che era così contenta di essere uscita via dalla solita routine per una volta e di dover passare finalmente un Natale come voleva lei e cose così.
Scesi dalla branda che avevo preso per letto in quella settimana e spalancai lentamente la porta a soffietto dietro la quale ero stato rinchiuso per una mattinata intera, visto che la notte prima l’avevo passata a giocare a carte e fare auguri e a mangiare panettone e bere spumante e tanti auguri e tanti auguri e tanti auguri e non avevo capito ancora perché a Natale si facessero gli auguri e non era tanto logico secondo me ed era per menti malate, comunque vabbé, si può dire che era stata una notte divertente, almeno per gli ultimi cinque minuti, quando tutti gli amici e parenti della coppia che ci ospitava se ne erano andati a finire la festa chissaddove e chissà con chi.
Mi diressi verso la cucina con gli occhi gonfi dal sonno e le labbra screpolate dal freddo, le gambe indolenzite, lo stomaco pieno zeppo di roba da mangiare di solo cinque o sei ore prima.
Un sole accecante stuprò i miei occhi ancora vergini del sonno e quando le mie pupille decisero di trovare un buon accordo con la luce, scrutai mia madre e la sua amica che sedevano al tavolo e si prendevano un caffé fumante in due tazzone giganti, tenute strette con entrambe le mani. Chiesi per una tazza di latte e mi toccò anche riscaldarmelo da solo, cazzo di ospitalità del cazzo proprio.
Decisi di tornarmene nello stanzino assegnato a mandare giù il latte che faceva pure schifo e non fu per niente consolatorio per il fatto di essere giunto in un posto che non mi piaceva affatto, senza nemmeno lo spunto per qualche idea su come riscattare la penosa giornata precedente passata a guardare la Tv, dopo aver girato in lungo e in largo per quel paesino di merda.
Abbandonai la tazza a metà sul comodino e mi vestii con molta calma, meditando qualcosa di buono, con una sincera voglia di non finire mai, che la giornata fosse già interamente passata, appena messe le scarpe.
Una secca delusione mi catturò quando il più lentamente possibile arrivai ad allacciarmi le stringhe delle scarpe e dovetti uscire con le mani nei capelli preso dal panico in quella specie di ripostiglio finto-adatto per passarci le notti.
Bagno occupato da una voce femminile da figlia della padrona di casa che mi rispose gentilmente di attendere prego quando bussai; meglio, c’era più tempo da perdere, molto di più, così tanto che fra poco sarebbe stata sera, osservai le lancette del mio orologio che segnavano le undici (cazzo), questa era una congiura, per forza, per forza, non c’era altra spiegazione, sarebbe dovuto essere sera fra un po’, Giuda, sì, al massimo fra un quarto d’ora appena.
Mi voltai lentamente in cerca di un appiglio morale e beccai la faccia di un Cristo che mi osservava con gli occhi che si chiudevano e si riaprivano. Perfetto: se mi faceva l’occhiolino lui, non poteva che essere tutto a posto e non doveva esserci tanto da preoccuparsi, ma stava bene lui, oggi era il suo compleanno e tutto il mondo se n’era ricordato e la maxi-festa l’avevano preparata per lui, che voleva di più?
Qualche centimetro più a destra riscoprii la differenza tra me e Cristo nel mio volto riflesso in uno specchio nel corridoio dove ero, la mia faccia spaventata da far paura, proprio un circolo vizioso: più la guardavo spaventata e più mi prendeva il terrore e la mia espressione si incupiva.
Provai a sorridere, a fare la faccia seria, a fare il triste, il mito, il sicuro di sé, gli occhi dolci, la faccia di quello che non capisce, la faccia del latin lover, nemmeno una di queste mi riuscì perfettamente, c’era sempre quello sfondo di panico per il futuro imminente che non mi lasciava perdere proprio.
Alla fine mi fissai dritto negli occhi e mi avvicinai lentamente allo specchio “Questa è una bella giornata” pensai senza staccare i miei occhi dai miei occhi “questo è un bel posto, questa è bella gente, è un bel periodo dell’anno e... massì, sei bello pure tu, ok? Perciò adesso ascoltami, chiudi gli occhi e non pensare a nulla, a nulla, e quando li avrai riaperti questa sarà una bella giornata, una bella giornata, capito? sarà una bella giornata, chiudi gli occhi!!! Questa è una bella giornata, quando lo dico io, quando lo dico io, quando...”
“Ma... che cosa stai facendo? Ti guardi allo specchio con gli occhi chiusi” e a te che te ne frega? non l’hai mai visto uno più fesso di me? e allora non rompere.
“Cazzo!!!” è il momento di fare la faccia da genio incompreso, adesso “Hai appena interrotto la mia esercitazione di autoipnosi, potevi stare zitta e guardare e basta”
“Ma non si fa col pendolo l’autoipnosi?” che cosa vuoi capirne tu di autoipnosi che non sapevi neanche che esistesse finché non te l’ho detto io.
“Dove lo vado a prendere il pendolo io?” già, neanche fossi uno psicologo professionista.
“Ce n’è uno bello grosso nel soggiorno” spirito di merda, proprio.
“Se non te ne vai in questo istante, ti ipnotizzo” adesso l’ho intimorita di sicuro, guarda come si spaventa, guardala!
“Ma guarda questo che faccia convinta che ha, devi essere un po’ fuori, té” e sarai dentro tu, sarai, che sono due giorni che ci hai addosso ‘sta maglia dei Nirvana che sicuramente te la sarai tenuta su da almeno tre settimane. E magari non esci finché non è asciutta, come se fosse l’unica maglia che hai.
Bagno conquistato, porta del bagno richiusa alle spalle, sapone liquido neutro Ph 5.5, schizzo sulle mani, passaggio sotto l’acqua, il tutto lanciato in faccia e gira gira, sugli zigomi, sulle gote, in fronte, sul naso, sul collo, sul petto e ci laverei persino i piedi pur di perdere più tempo possibile, ma dopo una mezzora nel bagno, la porta inizia ad essere presa a calci da mio padre che non ha per niente il senso del non essere in casa propria e del non poter fare esattamente quello che vuole e preferisce fare figure di merda pur di rompermi.
Quando esco vuole strangolarmi, ma fuggo via e nella mia fuga riesco pure a beccare la custodia dei miei occhiali da vista che non metto quasi mai ed il mio portafogli che (strano) non è vuoto come al solito.

Fuori dalla porta, il mondo aveva colori diversi, aveva temperatura e odori diversi, aveva persino una diversa consistenza. Inforcai i miei occhiali e le linee sfumate che vedevo in lontananza diventarono improvvisamente definite e tutto ciò era meraviglioso perché adesso capivo tutto e non era come il giorno prima che senza occhiali non vedevo e non capivo un cazzo, adesso riuscivo persino a leggere le insegne dei negozi e quel cane che stava cagando proprio sul marciapiede di fronte con la sua padrona che gli andava dietro con ‘sta palettina marrone, che grande cazzata, ma era bello lo stesso perché potevo vederlo.
Eccezionale, questo paese è veramente eccezionale oggi, non c’è niente da fare e c’è questo sole caraibico legato al freddo siberiano e non ci si spiega come mai a Natale da queste parti ci sia questo sole ok, ma non ci importa più di tanto, ce l’abbiamo e teniamocelo e viviamocelo, tanto ci abbiamo pure la neve che non si è ancora sciolta e va bene così.
Certo che con gli occhiali è tutta un’altra cosa, o forse mi sbaglio, forse... sta a vedere che l’autoipnosi ha funzionato per davvero!
Mi infilai il portafogli nella tasca anteriore dei jeans e mi sistemai il giubbotto che avevo addosso e così presi la via per una passeggiata antologico-gigantesca per il paese e per le sue vie che non avevano ancora buttato via totalmente la loro ipocrisia, ma che erano un po’ più schiette quella mattina.
Alla fine del giro avevo percorso una ventina di chilometri e avevo rivisto una ventina di volte le stesse due farmacie, due supermercati, due tabacchini, due edicole, due chiese, duecento banche che sembrava la Svizzera. C’erano un po’ di ragazzi in giro, un po’ di ragazze, piuttosto brutte direi, un po’ di persone che passeggiavano e certamente conoscevano a memoria ogni centimetro della strada che percorrevano ma non si stancavano mai di ripercorrerla e ripercorrerla, un po’ di amiche sedute ai tavolini di un bar ed un po’ di bambini impacchettati in giubbotti, cappelli, sciarpe guanti e tutto quello che ci stava sotto.
Mi fermai alla ventunesima volta che rifeci il paese, decisi di spingermi più in periferia e così mi ficcai in una stradina secondaria e la percorsi con un tanto di curiosità lecitamente espressa osservando a destra e sinistra gli enormi palazzi che le facevano da muri, studiando le sue ombre, il suo unico bidone dell’immondizia. Alla fine della stradina mi ritrovai in un gigantesco viale che non pensavo il paese potesse contenere, su cui si affacciavano villette piccole, grandi, larghe e piatte, a due piani, con le ringhiere verde acqua, azzurre e gialle e rosse e sembrava proprio primavera e non c’era neve per niente perché era stata spalata presto e se ne stava tutta ammucchiata ai bordi del viale, sotto i marciapiedi.
Iniziai a percorrerlo come se non avessi mai visto un viale alberato ed in realtà uno così bello non l’avevo mai visto, per davvero, con tutti quei rampicanti non proprio verdi data la temperatura, ma tutti gli alberi, i cortili, le ringhiere, il sole, tutto era perfetto perché quello fosse il più bel viale alberato che avessi mai visto e chissà perché in quel preciso momento mi venne in mente Sarah Moretti e le sue belle cose da ragazzina in conflitto con se stessa, con il suo passato di bambina e col futuro da donna che l’aspettava, forse perché eravamo ancora a dicembre, ma lì mi sembrava veramente una mezza primavera e la stessa identica sensazione avevo di Sarah: forse ancora una bambina, ma per me già una donna a pieni meriti.
Ripensai in un attimo alle sue labbra e provai, chiudendo per un istante i miei occhi ad associarle al cielo azzurro vivo di quella mattina, il risultato fu così inebriante che quando un vento gelido mi sollevò i capelli colpendomi in viso, mi parve persino caldo e piacevole, avvolgendomi completamente e sfuggendo tra gli spazi vuoti del mio giubbino.
Riaprii gli occhi e lo osservai spingere alcune foglie, sorridendo mi chiesi anche perché fosse andato via così in fretta, ma poi tornai a pensare alle sue mani delicate, quelle che avevo notato il giorno dell’assemblea mentre stringevano timide il suo quaderno di poesie, quelle mani candide che chissà cosa avevano fatto fino ad allora, chissà quali dolci movimenti avevano compiuto al risveglio, chiuse a pugno mentre spingevano col dorso sulle palpebre ancora indolenzite dal sonno, o magari più semplicemente, più ingenuamente, come mi sembrava adatto per lei, impegnate a preparare un pacco regalo per qualche amica, magari avvinghiate ad un paio di forbici per arricciare il fiocco appena sopra il nodo.
Voltai la mia mano destra verso il dorso e me la misi di fronte, guardandola, le unghie lunghe ed anche un po’ luride, tagli su tagli, più piccoli, più grandi, anche due cicatrici, un po’ di peli sulle dita, scure come il resto della mia pelle, piene di vene che sembravano scolpite a rilievo sulla carne e di ossa spigolose, senza contare che avevo entrambi i mignoli spezzati da quando avevo poco più di sei anni e non mi ero mai fatto visitare da nessun medico perché lo ritenevo superfluo ed invece le ossa chissà come cazzo si erano riattaccate, visto che non riuscivo più a muoverli bene ed erano un po’ storti verso l’esterno.
Voltai la mano dall’altra parte e qui non era tanto meglio. Quelli più evidenti erano i calli sui polpastrelli che si stavano riformando da quando avevo ripreso a suonare la chitarra, erano delle cose bianche di pelle screpolata che facevano veramente senso e che all’inizio facevano un male bestia proprio. Poi c’erano i calli alla base della dita che erano un po’ più grandi ed erano anch’essi bianchi, ma contornati di un rosso quasi mestruale e livido. Infine c’era una cicatrice abbastanza evidente sul monte di Venere che sembrava quasi un buco e quella era una spina di rosa su cui ero caduto due o tre anni prima e che si era ficcata nella carne e la pelle ci era ricresciuta da sopra ed in controluce ogni tanto si vedeva ancora la spina ben custodita sottopelle e felice di esistere e di potermi rompere ancora dopo tutto quel tempo.
Nessun paragone assolutamente con le manine piccole e bianche di Sarah, con le sue unghie ben tagliate, con le sue dita sottili ed i palmi puliti e segnati lievemente dalle linee che le veggenti dicono di saper interpretare, la linea della vita, dell’amore, del lavoro e cazzate così.
Nessun paragone certo, però comunque lasciai ricadere la mia mano sul fianco e la girai col palmo verso l’esterno, ripresi a camminare per il viale e che ci crediate o no, da allora una delle due mani di Sarah strinse improvvisamente la mia, con le dita intrecciate e col suo palmo morbido sul mio duro, e così me ne andai con lei mano nella mano che lei ci fosse veramente o meno, e fu quel dubbio che la fece forse diventare la più lunga passeggiata della mia vita.
Bella davvero.

Pomeriggio palloso in casa di altri e già in casa mia non sapevo che cazzo fare quando non avevo voglia di suonare la pianola e la chitarra, figuriamoci qui che non c’era proprio niente da fare, tranne rompersi davanti alla Tv oppure farsi una bella dormita di quelle lunghissime sperando in un non-risveglio abbastanza glorioso date le circostanze.
Giravo come un ossesso per cercare davvero qualcosa che mi facesse perder tempo prima di impazzire del tutto in quella angosciosissima attesa di qualcosa che non si muoveva ad accadere, qualunque cosa fosse, qualunque emozione potesse darmi, di qualunque natura fosse.

Non ho voglia di leggere, nemmeno di dormire perché se mi addormento adesso, poi mi risveglio con un sonno peggiore di questo ed è tutta una catena che è meglio spezzarla dal principio anche se a volte è difficile, anche se sembra persino impossibile.
Riprendo a girare per le stanze cercando almeno un solo oggetto che possa attirare la mia curiosità e che mi faccia fermare ad osservarlo per una mezzora, ma in questa casa tutto è scontato, tutto è talmente logico da perdere assolutamente il suo fascino persino sulla mia fervida curiosità.
A volte, a volte mi sembrava di non poter essere appagato da niente proprio, a volte mi sembrava che tutto fosse inutile e che persino la vita stessa che siamo costretti a vivere fosse poco importante e nemmeno la mia chitarra quelle volte poteva farci qualcosa o metterci una pezza, forse adesso come adesso nemmeno Sarah Moretti avrebbe potuto fare qualcosa per aiutarmi a passare degnamente quel pomeriggio perché ormai ero entrato nel giro perverso della tristezza spasmodica, come mi piaceva chiamarla confidenzialmente, credo che neanche il possibile creatore dell’universo avrebbe potuto fornirmi la medicina necessaria per superare l’ostacolo e così dovevo tenermela e sperare che quella volta durasse poco, pochissimo e che magari fosse già passata, sì, proprio adesso mentre osservavo sforzando di incuriosirmi, i raffinati oggetti di argento e cristallo e chissà quale altro materiale elegante e nuziale che la padrona di casa teneva sparsi per la casa come soprammobili, ma non c’era niente che catturasse la mia attenzione.
Tutto puzzava di sala ricevimento e feste grandiose in cui lo sfarzo si spreca, abiti da sposa, tendaggi inverosimili, sedie lussuose e tovaglie ricamate e centrini e posate d’argento e auguri a tutta forza e lacrime e riso e matrimoni pallosissimi e cose così e tutto, tutto sapeva di roba da mangiare da ristorante, di crostini e primi piatti al risotto ed antipasti e mise in place con ventisette bicchieri a persona e trentacinque forchette e sette coltelli e tovaglioli piegati a forma di barchetta o cravatta che avrebbero dovuto sembrare simpatici ma non riuscivano a dare sensazioni diverse dalla nausea per le ore di lavoro e di preparativi che ci stavano dietro.
Scossi violentemente la testa e mi concentrai invece sulla porta della stanzetta di Vittoria (la figlia della padrona di casa) e lì immaginai invece qualcosa di vagamente interessante tipo una camera classica da adolescente piena di oggetti graziosi da ragazza e magari di qualcosa che potesse stuzzicare la mia curiosità.
A pensarci bene, in un pomeriggio come quello sarebbe stato anche lecito rischiare di essere sgamato a perquisire una stanza non tua e perciò mi sentii di avere tutto il diritto di ficcarmi làddentro e spiegare che mi stavo rompendo eccessivamente per le mie capacità e visto che non c’era un cane che si preoccupasse non dico di farmi divertire, ma almeno di avviarmi a ciò, avevo sentito il bisogno di fare di testa mia. Fu grazie a questo contorto ragionamento che mi portai verso la camera ancora più tranquillo.
Posai lentamente la mano sulla maniglia e la girai verso il basso bloccando d’improvviso la mia immaginazione e lasciando spazio a ciò che mi era di fronte adesso, appena dietro quella porta spalancata.
Forse... forse non era proprio come avrei voluto trovarla, quella stanza e soprattutto non poteva in alcun modo essere la stanza di una persona sana di mente perché non c’era niente e ribadisco niente per davvero che fosse un millimetro distante dal nome di Kurt Cobain e della sua band.
Il muro non era un muro, ma un album di poster (ne saranno stati almeno trecento) che ritraevano 1: Cobain in maglietta bianca con i capelli biondi e scompigliati che guardava nell’obiettivo della macchina che aveva scattato la foto; 2: Cobain in maglietta nera con i capelli biondi e scompigliati che guardava nell’obiettivo della macchina che aveva scattato la foto; 3: Cobain in camicia di jeans con i capelli biondi e scompigliati che guardava nell’obiettivo della macchina che aveva scattato la foto; 4: Cobain (forse è meglio spostare un po’ le parole per non essere ripetitivi ripetitivi ripetitivi ripetitivi...) che guardava nell’obiettivo in macchina gialla che scattava i capelli biondi e scompigliati con la foto in maglietta; 5: Cobain in macchina che guardava i capelli biondi che aveva scattato la foto della maglietta azzurro sfumato nell’obiettivo. Ok, stavo letteralmente impazzendo.
Rimango in apnea per una ventina di secondi, col fiato sospeso rischiando veramente di non trovare una foto che sia leggermente diversa dalle altre, finché la becco, è lei, lo so che è lei e non può sfuggirmi, in quella foto Cobain in maglietta bianca con i capelli (attenzione attenzione!!!) ROSA e scompigliati che guardava nell’obiettivo della macchina che aveva scattato la foto.
Misi un passo all’indietro e decisi di fuggire verso i mari del Sud ma rimansi bloccato sulla soglia da Vittoria.
“Ciao” le sorrisi.
“Che cosa ci fai nella mia camera senza il mio permesso?” mi chiese contrariata.
“Beh, sai com’è... non avevo mai visto Kurt Cobain in maglietta azzurro sfumato e allora mi sono detto, sicuramente starà meglio di quando ha la maglia bianca e così ho pensato che valeva la pena di rischiare per venire a vederlo” stavo già pensando che avrei dovuto immaginare quel che avrei trovato per davvero, è solo che uno ci vuole sbattere la testa contro le cose, prima di capire che non ce n’era bisogno.
“Non fare questa stupida ironia su di lui, tu non sarai mai neanche un pelo di KURT COBAIN” si riempì la bocca con queste parole.
“Non voglio essere neanche una sua cellula se è per questo” le risposi di colpo, quasi ferito nell’orgoglio.
“Kurt Cobain non è stato solo un grandissimo cantante, ma ha anche una vita alle spalle che è una leggenda, lui è nato...” e qui attaccò con una serie di informazioni tipo biografia dell’autore, farcita con qualche parolaccia e qualche aneddoto un po’ da far ribrezzo, staccai la spina quando arrivò all’età di sei anni.
Chissà, mi venne da pensare, se anche Sarah Moretti ce l’aveva un mito per cui si strappava i capelli come le ragazzine ai concerti dei Take That, chissà se ce l’aveva uno che la affascinava come nessuna altra persona sulla terra, chissà se sognava ascoltando le sue canzoni e si lasciava andare sotto le note dolci o violente che fossero e sotto il timbro rassicurante della sua voce, chissà se Sarah Moretti ce l’aveva una persona così nei suoi pensieri da ragazzina per bene.
“... poi ha conosciuto quella troia che gli ha rovinato la vita, se non fosse stato per lei, lo sai che lui adesso sarebbe ancora tra noi?”
Chissà dov’era lei in questo preciso momento, me la immaginavo proprio adesso con le cuffie alle orecchie a tutto volume ad ascoltare la stessa voce che le faceva percepire aria di leggenda con un solo mormorio, me la immaginavo in ginocchio sul suo letto, con le gambe sotto il sedere stretto nei jeans e con i piedi scalzi e con una maglietta di lana addosso mentre si premeva le cuffie sulle orecchie per capire meglio una parola straniera difficile da tradurre; adesso... adesso invece (Chiusi gli occhi e li riaprii in fretta) stava cambiando traccia e stava ascoltando la canzone più romantica del disco eppoi avrebbe finalmente sognato ed i sogni di una ragazza come lei dovevano essere di un valore inestimabile, chissà se avevo, se avrei mai fatto parte, anche di uno solo di quei sogni.
“...finché non è stato ammazzato o, come dicono i più, non si è suicidato...”
“Togliendoci l’ulteriore supplizio di incidere un altro solo disco. Ringraziamo il Padre Nostro per le pene che ci infligge e che poi Lui stesso riconosce che siano eccessive per la nostra portata”
“Eh no!” fece lei, prendendomi per una manica della maglietta e tirandomi verso l’interno della sua camera “Allora adesso vieni con me e ti ascolti le migliori canzoni dei Nirvana e poi vediamo se sei ancora dello stesso parere”
Aveva uno stereo nascosto in un angolo della stanza e da quello tirò fuori la custodia di un cd che aveva una copertina azzurra che raffigurava un bambino nudo immerso completamente nell’acqua che seguiva un mazzo di soldi infilato in un amo da pesca.
Il titolo del disco era Nevermind, cioè ‘non importa’. Era quello che le dissi quando affermò che avrei dovuto sentire con le mie orecchie che cosa fossero i Nirvana.
Con uno spintone Vittoria mi mise a sedere sul suo letto, poi senza lasciarmi il tempo di ribellarmi, infilò il cd e prenotò i nostri successivi cinque minuti nell’ascolto della terza canzone.
Se si fosse fermata a quel punto, forse le avrei detto ‘ok, va bene, il tuo amico ha fatto buona musica ed è stato veramente in gamba’ per una questione di quieto vivere, ma ciò non avvenne perché la ragazza era decisa e non si sarebbe accontentata di uno stupido compromesso.

Dopo le prime due ore di ascolto ininterrotto dei Nirvana, le mie orecchie avevano completamente perso tutta la sensibilità di cui disponevano prima, il cervello si era svuotato e continuavo a sentire un assordante casino da post-discoteca anche quando lo stereo fu spento e la ragazza iniziò a parlarmi, alzando gli occhi verso il soffitto, sorridendo. Poi indicò la custodia del cd, indicò lo stereo, indicò le foto che aveva appese ed io non seppi fare altro che lasciarmi andare completamente con la schiena sul materasso e mettermi le mani sulle tempie per cercare di fermare una maledetta vena che mi pulsava come fosse una batteria.
Vidi la tipa alzarsi e andare a frugare dietro il suo armadio, la vidi ravviarsi i capelli dietro le orecchie e raccogliere per il manico una fantastica chitarra elettrica nera, i miei occhi brillarono, come improvvisamente resuscitati. La vidi collegarla ad un alimentatore e poi portarsela sul letto su cui mi stavo rimettendo a sedere, poi disse qualcosa che sembrò stappare i miei timpani dalla sensibilità zero.
“...la so suonare con la chitarra” e attaccò con la riff di Come as you are, la canzone che avevamo ascoltato per prima e più volte di tutte.
Toccò le corde staccando di parecchio da una nota all’altra, troppo meccanica e legnosa, il suono vibrò parecchio e sembrò metallico e quasi atono, riconobbi la riff pompando con le sinapsi come mai prima d’allora, dopo una decina di secondi era ancora lì, a metà che cercava di trovare la nota successiva, finché dopo ancora un po’ spalancò le labbra e lasciò affiorare le vene sul suo collo, gridando mezza stonata “Come... as you are”
“Che ne pensi?”
“Che è una grande cagata!”
“Ancora più demente di prima, oh”
“Così si suona la chitarra?” le chiesi guardandola negli occhi.
“Ma parli proprio tu che la chitarra non sai nemmeno che strumento è, io almeno ci sto avendo un approccio”
“Se questo è un approccio! E comunque, bella… io la suono la chitarra”
“Tu, con quella faccia da pesce lesso che hai” questo mi aveva offeso e così decisi che l’avrei umiliata.
“Se me la rifai una sola volta ti faccio ascoltare la tua riff come non la saprebbe suonare neanche l’eroe che l’ha scritta” e questo credo che offese lei.
“E va bene, animale, ti voglio dare corda” e attaccò per la seconda volta, alla stessa maniera di prima, staccando i suoni e bloccando tutta la possibile armonia della canzone come solo pochi sanno fare, davvero, a volte la gente vuole imitare l’arte e non fa altro che storpiarla senza rendersene conto e storpiare la vita anche.
Quelli che nella vita vera copiano frasi romantiche dai film d’amore per dedicarle alla propria ragazza, quelli che prendono le frasi dalle canzoni per costruire una lettera che non sarebbero capaci di scrivere, quelli non fanno altro che accartocciare alla stessa maniera l’arte e la vita ed abbandonarle in un cestino da ufficio. Bisogna sapersi adattare, alla vita e all’arte, per questo non avevo mai suonato nessuna canzone di cantautori o gruppi famosi, non mi sarebbe servito a nulla. Almeno per questo mi ritenevo un mezzo artista, no?
Finì di nuovo con la sua voce gracchiante “Come... as you are” e stavolta avevo seguito le sue dita come un pedinatore professionista e lei era andata così lenta che avevo avuto tutto il tempo per ripassare ogni volta aggiungendo una nota in più appena suonata.
Mi feci passare la chitarra e decisi prima di provarla. Me la misi sulle gambe, provai l’accordo in sol e riuscii ad estorcerle un suono veramente fantastico, morbido, tenero, veramente diverso dal suono classico, diciamo che aveva un suono meno pulito e più distorto, ma in complesso, forse anche leggermente più dolce perché più fluido; continuai a passare le dita sopra tutte le corde provando anche qualche altro accordo, finché la ragazza non cercò di spezzare il mio primo contatto con quella chitarra.
“Seeee, mica si suona così Come as you are...”
Girai ancora un po’ sulla tastiera per trovare qualcosa d’altro come il Mi minore, poi chiusi gli occhi e quello fu il mio preavviso, premetti il polpastrello del medio sul tasto che lei aveva premuto per primo ed attaccai con la riff facendo muovere tutte le dita e non una alla volta come aveva fatto lei e schiacciando i tasti perfettamente al centro, tra una barra e l’altra, il risultato fu che proseguii con la riff iniziando a cantare, senza gridare né stonare come aveva fatto lei, non c’era niente di cui esaltarsi, dopo tutto, e proseguii fino al ritornello mugolando solamente quando non ricordavo una frase.
Alla fine le rimisi la chitarra sulle gambe e mi alzai per andarmene, ma lei mi fermò per un braccio e non smise neanche per un secondo di guardarmi dritto negli occhi con la bocca spalancata.
“Aspetta” mi disse immobile come le rocce di Dover “ tu... io... cioè... voglio dire” sfarfallò con le ciglia e si ravviò i capelli stando seduta mezza gobba e qui sembrò risvegliarsi “ho sempre sognato di incontrare Kurt Cobain, cioè è il mio sogno e adesso... insomma... sembrava che fosse... qui” disse indicando con le mani il pavimento, i suoi occhi sembrava stessero per piangere.
“Me la rifai un’altra volta?” chiese poi con gli occhi ancora più languidi e decisi di accontentarla.
“Ma solo un’altra volta però, non mi piace mostrare in giro quello che so fare”
“Ok” accettò lei.

Un centinaio di volte l’avrò rifatta quella maledetta riff e tutte le riff possibili di tutte le altre canzoni e di qualcuna anche qualche accordo e me ne fece anche imparare le parole e voleva persino che imitassi la voce di Cobain e mancava solo che mi chiedesse di tingermi i capelli di biondo e poi le avrei spaccato la chitarra dietro la schiena e sarei stato contento per il resto dei miei giorni.
Le insegnai pure a suonarla meglio la chitarra, cioè gliela misi in braccio e le dissi che doveva stare più attenta agli stacchi, che doveva usare tutte le dita per suonare e che doveva premere meglio al centro dei tasti ed infine doveva lasciar vibrare la corda e non spezzare il suo suono a metà, eppoi prendere il giusto tempo per ogni nota, non dare più spazio ad una rispetto ad un’altra che poteva anche offendersi, oh.
Quando la provò la terza volta andava già molto meglio di prima, un po’ di esercizio e senza il mio aiuto, se lo sarebbe portato lei nella sua stanza, Kurt Cobain.
Erano le otto quando dichiarò finalmente che non stava più nella pelle e non vedeva l’ora di incontrare i suoi amici per dire loro che aveva imparato a suonare finalmente quella benedetta riff ed anche altre e che aveva conosciuto uno che suonava proprio come il loro mito, mi pregò di uscire con lei ma le spiegai che non ci tenevo particolarmente a farmi tartassare di domande stupide quando poi non ci voleva niente a suonare quelle quattro stronzate.
Se ne andò saltellando gaia come un uccellino di primavera baciandomi la guancia e ringraziandomi prima di scomparire dietro la porta di ingresso, decisi di andare a mangiare e di ficcarmi immediatamente sotto le coperte, non avrei voluto ripetere l’angosciosa nottata precedente, avrei detto a tutti di essere molto stanco e li avrei salutati con tanto di auguri e divertitevi e non rompete i coglioni.
Mi tuffai in cucina deciso a mandare giù una bella cenetta e poi andare a letto, magari dopo aver ascoltato un po’ di musica buona dal walkman che mi ero portato dietro e che avevo comprato qualche anno prima raggranellando i soldi per mesi e mesi dalle paghette settimanali.
Mi feci preparare qualcosa direttamente per me dalla padrona di casa.
“Non vuoi aspettare che arrivino i nostri amici per mangiare con noi?” mi chiese tutta premurosa, la ringraziai e le dissi che non era necessario ché avevo un sonno cane e non mi sentivo neanche tanto bene.
Finii di mangiare giusto quando i famosi amici arrivarono ed iniziarono a fare un mucchio di casino abbracciando tutti ed affermando che faceva veramente freddo fuori e che qui invece c’era un bel calduccio e che non vedevano l’ora di iniziare a spendere i loro soldini investendoli in stupidi giochi di comitiva vedi mercante in fiera e cazzate così. Mi ritirai immediatamente nel mio stanzino salutando tutti, belli e brutti ed anche due ragazzine che potevano avere la mia stessa età e con cui avevo preso un po’ di confidenza la sera prima, visto che eravamo gli unici ragazzi della compagnia. Mi piaceva pensare che fossero tornare per me.
“Se devi dormire è meglio se chiudi la porta del corridoio” mi disse mia madre e fu lei stessa a chiudermela alle spalle quando mi infilai làddentro immaginando solo le mie coperte calde ed il mio pigiama marrone a pallini bianchi.
Misi la mano sulla maniglia della porta a soffietto quando mi catturò sul serio la penombra della cameretta Cobain che invadeva il corridoio penetrandolo dalla porta socchiusa. Mi soffermai un attimo a pensare all’armadio ed alla chitarra elettrica nera lucente che ci stava appoggiata sola soletta, senza nessuno che l’avrebbe accarezzata per quella notte.
Deviai la mia attenzione dalle coperte e dal pigiama al viso di Kurt Cobain che ritrovai pieno di chiaroscuri quando accesi la luce della camera, mi sembrava più sereno di prima adesso, mi sembrava più sensibile ed i suoi occhi mi parvero fessure in ogni foto che rilessi.
Le sue labbra parevano dire “Entra e accomodati, amico, parlami di te, visto che di me ti ha parlato qualcun altro, visto che in un pomeriggio solo hai conosciuto tutta la mia vita e la mia arte e la mia musica, se ti sono almeno un po’ simpatico, lascia che lo pensi anch’io di te e parlami”
Mi richiusi la porta alle spalle quando Kurt sembrò tornare muto e impassibile dalle sue foto, mi diressi verso l’armadio, poi afferrai la chitarra dal manico e la collegai al piccolo alimentatore ed all’amplificatore, come avevo visto fare alla ragazza poco tempo prima, infine mi accomodai sul letto sotto il suggerimento di Kurt e me la misi sulle cosce per passarci insieme un’intera notte, ma non con lei sola, perché c’era Sarah Moretti con me eppoi c’era anche quel viale alberato che avevo visto quella mattina e quella grande primavera che mi era apparsa fuori stagione, peccato per il freddo e le poche foglie sugli alberi. Tutto questo mi misi sulle cosce, non solo quella chitarra e le mie dita erano piene della musica dei Nirvana e la mia mente pure e quello che ne uscì fu tutto questo messo insieme, mescolato nei primi accordi piuttosto semplici e classici Do e Re maggiore, arpeggio leggero e la canzone si liberò da sola dalle mie labbra e, giuro su tutto ciò che ho mai avuto nella vita di importante, come io avevo cantato le sue canzoni, tutte le trecento foto di Kurt Cobain sembrarono prima ammutolirsi all’ascolto e poi accompagnarmi in un canto che si diffondeva per tutta la stanza e tutto questo divenne un magico concerto da non dimenticare mai. Anche se il testo della mia era troppo stupido (lo riconosco) per il mito che lui era stato ed era ancora. E fu in quel momento che capii che non sarei stato veramente mai un pelo di Cobain e questo mi rese ugualmente contento per lui e per me e per il mio amore e la mia pseudo-arte.


Ballata del ritorno

Strofa 1
Camminando per le vie di un paese sconosciuto
nelle strade della mente io ti ho vista
per quello che so amare
sei stata reale
e poi un giorno forse, sarai stata soltanto un rumore

Ritornello
Tu, quando invece tornerò, non fare, voglio dire,
finta, amore, finta di non capire
il tempo corre du un filo d’argento
e un giorno cancellerà me dalla tua e te dalla mia
fotografia

Strofa 2
Io che avrei bisogno solamente, lungo la strada
di fermarmi ogni tanto e in segreto osservarti
almeno parlare, restare
ferma immobile
come assorta anche solo a guardarti le unghie

Ritornello
Tu, quando invece tornerò, non fare, voglio dire,
finta, amore, finta di non capire
il tempo corre su un filo d’argento
e un giorno cancellerà me dalla tua e te dalla mia
fotografia

Strofa 3
Le emozioni percorrono i chilometri, l’amore
saprà attraversare i decenni
saranno un porto le tue bianche mani,
da cui partire per ritornare
un’altra volta a te, forse domani.

Ritornello
Tu, quando invece tornerò, non fare, voglio dire,
finta, amore, finta di non capire
il tempo corre su un filo d’argento
e un giorno cancellerà me dalla tua e te dalla mia
fotografia
me dalla tua e te dalla mia


fotografia

Il mio amore era una battaglia contro il tempo, per strappare al tempo la promessa che avrebbe saputo aver memoria di noi, di quello che fummo, granelli di polvere nel vento che neanche il vento, alle volte, è stato capace di separare.

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