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Skizzando nel vento 8 (A quelli che suonano)

di Stefano Saccinto
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Pubblicato il 05/10/2008 15:15:40

8
A quelli che suonano
(Era una poesia d’amore, cosa puoi capirne?)



DICEMBRE DA SCHIFO

Un ventidue dicembre come tutti gli altri, di quelli pseudo-morali, pseudo-sentiti veramente, pseudo-cisonotantibambiniche
muoionodifame, visto che eravamo quasi al grande giorno.
Per il nostro Liceo, oltre ad essere questo, quel giorno sarebbe stato un ventidue dicembre musicale con una cover band che rifaceva i classici dei Doors, dei Guns e gruppi storici, almeno per quello che si diceva in giro.
Stavano montando gli strumenti nel corridoio dove avevano sede le nostre assemblee di istituto, visto che non avevamo una specie di aula magna o cose così, ma se è per questo, il nostro Liceo non aveva neanche una palestra.
C’era un tipo che conoscevo di vista e che stava provando un po’ di colpi su una batteria, un altro regolava il microfono perché non fosse troppo alto e superasse la musica, perché non fosse troppo basso e venisse soffocato dalla musica.
La scuola era piena di attrezzatura tecnologica da un casino di soldi, chitarre elettriche da spaccarti le orecchie, una pianola che era almeno tre volte la mia Yamaha, piena di pulsanti verde acqua e arancione e di rotelle e di levette piccole piccole, amplificatori, casse Bose e altro materiale simile.
Uno striscione appeso sotto il soffitto diceva: “Music is my life” che per una cover band di merda che non avrebbe mai prodotto niente di proprio, questo slogan da lobotomizzati calzava proprio a pennello.
Quella dei gruppi che pretendevano di definirsi artistici soltanto perché erano in grado di riprodurre alla meno peggio i pezzi dei gruppi più famosi, era la faccia della medaglia che odiavo della musica. Batteristi improvvisati, chitarristi e bassisti che imbracciavano uno strumento soltanto perché li faceva apparire più belli alle ragazze, mi davano il voltastomaco. Non erano altro che replicanti, non avrebbero mai tirato fuori dalle loro corde un pezzo scritto di proprio pugno, non avevano passione per la musica, ma soltanto erano attratti dal ruolo che avrebbero interpretato dinanzi ai deficienti loro coetanei che li avrebbero ammirati per quanto sapevano emulare le grandi star. Con le loro chitarre fighe dai suoni distorti e amplificatori da un sacco di soldi, potevano togliersi qualsiasi sfizio volessero, ma non avevano nulla a che fare con la musica. Avevano dalla loro però il fatto di non essere dei frustrati, ottenevano il massimo che potevano dal saper strimpellare qualcosa, ottenevano visibilità, sarebbero semplicemente rimasti visibili a vita, ma quello non gliel’avrebbe mai tolto nessuno.
C’erano quelli come me invece che la loro passione se la dovevano tenere per sé, perché non sarebbero andati molto avanti, a dire “Music is my life” suonando semplicemente una chitarra classica, c’erano quelli come me dei quali neppure si sapeva che sapessero suonare uno strumento, che non seguivano la moda del momento e cercavano di mettersi con tutta l’anima ad imbrigliare la propria indole per cavalcarla in territori sconosciuti.
Nel mio paese, all’epoca, esistevano due generi musicali che avevano fatto ideologia e che si erano spacciati per vera e propria cultura fra i giovani: il metal ed il rap.
Il metallaro ed il rapper li riconoscevi ad occhio nudo, già dal modo di vestire, dal modo di atteggiarsi. Se eri a conoscenza delle caratteristiche principali dei due generi, potevi addirittura sondare la mente della gente normale ed intuire, preventivamente, se qualcuno che conoscevi stava per diventare un rapper o un metallaro o se inconsciamente aveva un indole metal o rap repressa.
Potevi scorgere il cambiamento, il susseguirsi delle fasi di trasformazione: il metallaro cominciava ad indossare indumenti sempre più scuri, tendenti al nero lucido, preferibilmente di pelle; il rapper ogni giorno indossava jeans sempre più larghi e scaduti, maglie che erano il doppio della sua taglia, a volte un cappello con visiera gli si appiccicava in fronte e cominciava a sovrastarlo in ogni passo della sua esistenza, mentre il metallaro prendeva a coltivare un pizzetto e tendeva sempre più a dimenticare di tagliarsi i capelli. Alla fine la trasformazione era completa e la persona che avevi conosciuto fino ad allora non esisteva più, prendeva a parlare in un modo completamente diverso, con un gergo specifico e si dilungava su prolissi discorsi che riguardavano i gruppi ed i pezzi, mentre il rapper passava la maggiorparte del suo tempo a rimandare a ruota ed a memoria le frasi dei suoi più celebri beniamini. Potevi trovargliene tranci scritti dovunque, ma soprattutto sullo zaino.
I ragazzi che montavano gli strumenti a scuola quel giorno erano sulla strada del metal, a giudicare da come erano vestiti, ma si vedeva che non erano proprio convinti, stando anche ai gruppi che avevano scelto per riproporli a scuola.

Fuori il mondo era congelato-immobile dai tre gradi del ventidue dicembre meno natalizio che avessi mai vissuto, non c’era neve, non c’erano luci appese ai balconi, non c’erano alberi di Natale nei giardini delle villette; per uno come me andava bene così, io amavo l’estate e non ero propriamente un cattolico.
Tornai in classe dopo il mio giro di perlustrazione da matricola curiosa di quelle che per i veterani non sono più novità.
C’era Corona che si stava incazzando con Fortunato, Marialucia Del Monte che si teneva stretta stretta ad Antonella Cavallo ripetendo che faceva un freddo, Pastore che girava per tutta la classe cercando di riportare l’ordine.
Stavano tutti aspettando che l’assemblea cominciasse finalmente, era logico essere curiosi di vedere suonare della musica all’interno di una scuola, era logico chiedersi se avremmo potuto cantare e saltare come ai concerti, era logico persino pretendere di fumare nella scuola senza dover allontanarsi nel cortile. Girava un’aria da “per oggi la scuola è solo nostra e nessuno deve vietarci nulla”.
Ma come al solito, io non la sentivo mia, non mi sentivo al posto giusto, come un intruso, lontano da tutti gli altri che, a gruppetti, chiacchieravano di quello che avrebbero fatto durante quelle vacanze e c’era chi andava a sciare e chi invece andava a trovare i suoi parenti che stavano da qualche parte lontano di qui ed a me non me ne fregava niente di questi discorsi e avrei voluto essere il più lontano possibile da quel periodo dell’anno che era veramente brutto e che neanche il pensiero dei pezzi che avevo scritto per Sarah Moretti poteva salvare.
Lei se ne stava seduta sola soletta all’angolo della classe, sfogliando un quaderno dalla copertina azzurra e gialla. Mi avvicinai e glielo trassi via dalle mani.
“Cosa leggi?” chiesi quando già avevo di fronte la pagina che poco prima era stata sotto i suoi occhi.
“Dài qua, stupido!” mise le mani sul quaderno cercando di riprenderlo, riuscii a leggere solo poche righe di quello che era scritto, qualcosa tipo... non saprei, erano dei versi, come, come fosse stata una poesia, una specie di canzone, no?
“Ehi aspetta, voglio solo...” non finii neanche di parlare che diede uno strattone al quaderno tirandomi in avanti sul banco.
Non so perché, ma ero veramente curioso di leggere quello che era scritto su quel quaderno, così, d’istinto tirai ancora dalla mia parte e finalmente levò le mani da lì sopra.

Quando...

Quando ti vedo i miei occhi si illuminano, oh mia stella
il mio cuore batte solo per te,
vorrei starti accanto per tutta l’eternità.
Luce dei miei occhi, acqua nel deserto,
dimmi che starai con me per l’eternità anche tu.

Non avevo lo stomaco per andare avanti, così gettai il quaderno sul banco ed iniziai a ridere senza riuscire a controllarmi, senza poter governare i miei movimenti, il suono che sfuggiva dalle mie labbra.
Lei si fece rossa di colpo, in un mezzo secondo fece sparire il quaderno dalla circolazione, mentre qualcuno che non aveva un cazzo da fare come tutti, ritenne opportuno avvicinarsi a noi.
“Era una poesia d’amore, che cosa puoi capirne?” abbozzò un sorriso, ma si vedeva che era fortemente in imbarazzo.
“E l’hai scritta tu?” le chiesi, senza riuscire a smettere completamente di ridere.
“Può darsi…” cominciò a guardarsi attorno, si era avvicinato persino Corona, la cosa stava degenerando.
“Che cosa succede qui?” irruppe come fosse una guardia carceraria addetta al mantenimento dell’ordine, mi prese la testa sotto un braccio, iniziò a malmenarmi per scherzo “Che cosa devo fargli?” chiese a lei.
“Perdono!” alzai le mani in segno di resa, immediatamente. Quando Corona ci si metteva, anche per scherzo era capace di farti veramente male “Ho avuto l’ardire di scrutare tra le pagine segrete della nobildonna dinanzi agli occhi di vossignoria!” cercai un elaborato linguaggio poetico, ma Sarah Moretti non la prese bene.
“Come cazzo parla?” Luigi non aveva le facoltà suffiente per poter intuire l’intento sarcastico di quel che avevo detto, nel frattempo non smetteva di tenermi piegato nella presa del suo braccio. Cominciai a ridere a crepapelle senza riuscire a trattenermi, tanto che mi vennero le lacrime agli occhi, mentre supplicavo Corona di lasciarmi, che non ce la facevo più.
Il fatto era che, boh, non lo so, certe volte uno crede di essere un grande artista e invece poi… invece poi è uno come tutti gli altri e quello che forse (anzi certamente) mi faceva più ridere era il fatto che anch’io mi ero sentito un grande artista qualche volta e probabilmente anch’io ero uno come tutti gli altri. Per questo ridevo, perché in quel momento non me ne fregava niente di esserlo o meno, un artista, perché quello che mi piaceva fare era solo suonare, bella musica o musica da far vomitare, non m’importava, era giusto soltanto suonare.
Probabilmente, a quelle quattro cazzate che aveva scritto sul suo quaderno dalla copertina gialla e azzurra, lei era particolarmente legata e poteva anche essere che inconsciamente si rendesse conto che fossero di una banalità sconcertante, ma forse si era lasciata il beneficio del dubbio che potessero esprimere qualcosa, magari proprio quello che lei aveva sentito mentre le aveva scritte.
Scoprirle, da parte mia, era stato un po’ come guardare sotto la sua gonna, lei si era ritrovata nuda, disarmata, non aveva potuto fare altro che coprirsi.
Quando Corona fu attratto dal solitario Pastore che si era deciso a fermarsi dal tentativo di mantenere l’ordine e corse da lui a riempirlo di schiaffi in testa, mi stirai le braccia ed il collo.
“Posso... posso leggere qualcos’altro di quello che hai scritto?” chiesi a lei con curiosità, ma senza riuscire a smettere di ridere.
La sua espressione divenne in parte adirata e risentita, in parte impotente nei miei confronti. Piantai dinanzi a me le mie mani e decisi di spiegarle che volevo veramente leggere quello che aveva scritto, non per prenderla in giro, ma per curiosità e stavo quasi per scusarmi per essere stato poco delicato con lei.
“Sei... sei proprio un bambino!” fu la sua unica affermazione, prima che il palmo della sua mano colpisse per la seconda volta nella mia vita, la mia guancia sinistra. Rimasi fermo stupito con entrambe le mani aperte nel tentativo interrotto di spiegarmi e la bocca già pronta a parlare, lo sguardo fisso sulla sedia da cui lei era appena scappata via.
Le ero sembrato il solito indelicato, logico. Dovevo capire subito che l’avrei offesa in quella maniera e fingere di apprezzarla, la sua poesia, invece di riderci su, magari dovevo anche chiederle qualcosa su di essa, su come le fosse venuto in mente di scriverla, era così che funzionavano quegli esseri semplici chiamati ragazze, magari avrei dovuto persino dirle che io invece scrivevo canzoni... sì, magari persino sposarla e finirla lì.
Andai a cercarla fuori.
“Ehi senti, io...” se ne stava appoggiata ad una delle finestre del corridoio con una cerchia di amiche intorno.
Imbarazzo, sangue che schizzava sotto la mia pelle per imporporarmi il viso, rimorso istantaneo, cazzo, a volte sono proprio un coglione, tutte le volte che non sono un semplice deficiente.
“Perché stai piangendo?” le chiese distrattamente Coviello, il ragazzo dai capelli rossi, passando per il corridoio.
“Non sto piangendo!” si voltò verso di lui e in parte era vero, visto che i suoi occhi erano solo venati di sangue.
Capii che oramai era andata: espugnare il cerchio delle amiche, quando si chiudono a riccio nella stramaledetta solidarietà femminile, è praticamente un suicidio.
Mi dissi che questa musa non faceva più al caso mio, mi dissi che era una instabile, capace di farmi lievitare fino al più alto strato umano e di lanciarmi sotto cumuli di immondizia facendomi sentire tremendamente male. Questa non era una gran cosa, una musa, voglio dire, non dovrebbe comportarsi così, dopotutto mi aveva già schiaffeggiato due volte senza preavviso, davanti a tutta la classe, ero stato l’unico a subire questo tipo di trattamento strettamente riservato.
O forse, a pensarci bene, io non ero in grado di amarla, io non ero profondamente in grado di amare in generale.
Amare? E in quale passo delle leggi umane era scritto che quando uno scrive due canzoni per una ragazza, vuol dire che ne è innamorato?
Ed allora perché, adesso che tutti erano rientrati in classe, mi ero lentamente avvicinato alla finestra, sentendomi svuotato di tutto, in un colpo solo nel momento esatto in cui lei mi era passata di fianco con ostentata indifferenza ed avevo piantato il mio mento su un pugno, pensando che, come ricordo di lei per i quindici giorni delle vacanze natalizie avrei avuto uno schiaffo invece che qualche frase, qualche gesto con cui avrei preferito navigare nella mia stupida illusione che lei potesse, in qualche modo, volermi bene?

La nostra classe venne chiamata verso le nove e mezza.
Salimmo il più garbatamente che potemmo: Corona che litigava di nuovo con Fortunato per le scale, che minacciava di buttarlo giù e di fare un buco bello grosso a giudicare la sua stazza, Tarantino, l’altro gigante, che parlava ad alta voce con Morra di musica, di Vasco Rossi, Litfiba, Prozac + e qualcosa di straniero che non conoscevo, quelli dell’ultima fila che riempivano di schiaffi la nuca di Cristiani e se la ridevano quando quello si vendicava su uno solo di loro, Pastore che cercava di ammonirci beccandosi solo qualche “va a cagare” incurante della sua alta carica di rappresentante di classe.
Tutte le sedie nel grande corridoio del primo piano, quello più grosso della scuola. Tutte le sedie vuote, disordinate, gente che andava avanti e indietro a spostarle, a sistemarle, a prenderne altre, ad ordinarle in file da dieci ciascuna.
Per quanto tempo quella platea se ne sarebbe stata così composta ed ordinata come quelle persone che stavano sistemando tutto dovevano evidentemente aver pensato che se ne stesse?
Prendemmo posto dietro cercando di nasconderci per fare il più casino possibile senza essere sgamati da nessuno, aspettammo che le altre classi ci raggiungessero e poi iniziammo ad affibbiare anche a quell’assemblea di istituto il nostro classico bordello da osteria fatto di grida, versi, parolacce e giù di lì, distinti naturalmente da tutto il resto della scuola che se ne stava più o meno composta.
L’ondata musicale ci investì con una With or without degli U2 e pensai che non si potesse cominciare meglio, visto che appena l’adrenalina iniziò a pompare, Corona cominciò ad approntare il suo spettacolo, trascinando chiunque sulla propria sedia e invitando a creare un coro stonato di quelli mai visti.
Ci vollero due o tre canzoni perché qualcuno iniziasse ad imitare la nostra classe e precisamente fu quando la cover band attaccò con Losing my religion dei R.E.M. Suonavano per davvero come il cazzo, ma per quella che era la platea davanti alla quale si esibivano, andavano più che bene.
Andarono avanti con New year’s day e Sunday bloody Sunday degli U2, Shining happy people dei R.E.M. e dunque passarono a qualcosa di più moderno come Zombie dei Cranberries e Live forever degli Oasis.
Alla fine si decisero a tirare fuori i cavalli di battaglia: si fecero mezzora di Doors e mezzora di Guns & Roses e per tutto il tempo la nostra classe aveva generato un casino inarrivabile ed io me n’ero stato con il mento piantato nelle mani ed i gomiti puntati sulle cosce ad ascoltare il fluire della musica senza togliermi dalla mente l’idea che io non ero in grado di esistere. Non come si dovrebbe, io non avevo capito i sottili meccanismi della vita, non ne ero al corrente, non mi ero aggiornato, ero rimasto un bambino, esattamente come Sarah mi aveva definito. Non ero cresciuto mai, tutto qui.
Quando cercai di stirarmi e mi guardai attorno, mi resi conto che ero rimasto l’unico ancora seduto alla sua sedia, l’unico a non cantare, l’unico a non partecipare in nessun modo alla festa che si stava svolgendo. A me le feste mi erano sempre state sui nervi, ma questa aveva avuto i suoi buoni motivi per andare male.
Ripresi la mia posizione guardando in avanti tra i corpi dei ragazzi che ballavano e piantai i miei occhi dritto sulla chitarra elettrica del gruppo. Cazzo, io una cosa così me la sognavo!
“A cosa stai pensando?” la voce, quasi un sussurro nel tumulto generale, mi colse completamente alla sprovvista, scossi la testa, mi voltai. Sarah Moretti, dopo aver ravviato i suoi capelli dietro un orecchio aveva accavallato le gambe e se ne stava a guardarmi.
“Io…? A quelli che suonano” le dissi.
“Ah!” si voltò ad osservarli anche lei, anche se io adesso non li guardavo più, rapito dalla sua bellezza.
Il vocalist della band presentò l’ultimo pezzo che avrebbero suonato. Era Knokin’ on the Heaven’s Door di Bob Dylan nella versione dei Guns.
Ripresi a guardare in avanti anch’io, ma la mia concentrazione era terminata, adesso c’era lei accanto a me, tutti i miei pensieri cominciarono a fare casino nella testa, a correre avanti ed indietro come dovendo allestire la scenografia di una commedia in pochissimo tempo. Calai le sopracciglia sugli occhi e mi guardai il petto quando il mio cuore cominciò a battere a velocità allucinante, mi chiesi cosa stesse accadendo, nel momento in cui il chitarrista della band sembrava aver accusato un malessere. Gli venne portato un bicchiere d’acqua e zucchero, ma, tastandosi continuamente la testa ornata di una bandana, disse che non ce la faceva a proseguire.
“E… e tu?” cercai di chiederle.
Il suo mento si spostò ancora nella mia direzione, mi osservò negli occhi, sulle labbra, poi, immediatamente dopo, ancora negli occhi.
“A quelli che suonano!” come se fosse scontato, come volesse farmi intendere che non era quello a cui stavo pensando neanch’io quando lei me lo aveva chiesto.
Non so dire perché, ma mi sentii felice come di qualcosa che non avevo neppure inteso, come se mi fosse bastata quella sua rivelazione perché finalmente il ricordo di lei che avrei conservato durante l’assenza da scuola per le festività natalizie fosse stato salvato.
Senza sorridere, senza sciogliermi, senza darmene una ragione, simulando indifferenza in un modo assolutamente non credibile, le dissi “Scusa un attimo” e mi alzai, passando sopra le sue gambe per raggiungere il corridoio.
Raccolsi da terra la chitarra elettrica poggiata sull’amplificatore, la imbracciai e senza avere il coraggio di guardare davanti a me l’intera scuola che già si preparava ad andare via, attaccai con i quattro accordi di Knockin’ nella versione che ricordavo di aver sentito io, un paio di volte: quella di Dylan.
Dopo due o tre giri, la batteria attaccò, sentii nelle casse il respiro del cantante che si era avvicinato al microfono, la voce si stese sulle note, il pezzo iniziò ed a condurlo c’ero io e non riuscivo a spiegarlo neppure a me stesso.
Questo finché non mi ritornò alla mente quello che era appena successo e che mi aveva portato a mettermi, quasi fossi un pazzo, in quella ridicola condizione. Chissà che cazzo ci facevo io, che non ero capace neanche di suonare davanti a mia sorella senza imbarazzarmi, dinanzi a tutta la scuola ed alla mia musa a suonare una chitarra elettrica che non avevo mai provato ed una canzone che non avevo mai suonato.
Non ci capii più niente, persi il ritmo, poi direttamente il giro di accordi, cominciai a non spiegarmi come ero riuscito a farli girare bene per le prime cinque o sei volte, mi dissi che dopotutto era un pezzo semplice, che potevo farcela, ma non ci furono cazzi.
Iniziai ad improvvisare qualche accordo per ritrovare i due da ripetere ogni volta e i due finali da alternare ad ogni strofa per cercare di rimediare al mio errore, ma le dita finirono per incepparsi, il cervello girava a vuoto, il sangue prese a schizzarmi in viso provocandomi brividi caldi. Cercai con gli occhi le mie dita sulle corde, ma non c’erano più, disperatamente imposi loro di tornarci, ma ormai avevo smesso di suonare e guardavo impotente tutti i volti che si contraevano per la rabbia e la noia, gli accendini che qualcuno aveva acceso e che adesso si spegnevano.
Abbandonai la chitarra al suo padrone e me ne andai con le mani nelle tasche, senza pensare più a niente facendomi girare nella mente soltanto la frase che quasi sorridendo, Sarah Moretti mi aveva detto, volendomi far intendere qualcosa che non capivo.
Si era avvicinata, mi aveva guardato negli occhi chiedendomi a cosa pensassi (perché?) e poi quando le avevo dato la mia risposta e riformulato la domanda, aveva sorriso, spostando lo sguardo in avanti.
‘A quelli che suonano’ aveva detto.
Ed io avevo suonato.


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