(Una conclusione e un inizio in forma di e-mail)
Cara Paola,
mi scusi se nonostante il suo invito alla confidenza non riesco a darle del “tu”. Il fatto è che sono molto confusa, forse il “lei” è un modo per sentirmi più a mio agio, più protetta almeno in questo momento. Voglio confessarle che quando tre giorni fa ho visto nella posta elettronica di papà la sua mail, destinata questa volta a me, non potevo crederci e sono andata su tutte le furie. Le dico solo che l’ho stramaledetta e ho pianto dalla rabbia. Ho pensato: Ancora! Come si permette! E poi a dieci giorni dall’anniversario della morte di mio padre! Mi pareva che lei volesse lanciare una sfida non solo a me ma anche alla sua memoria e alla decenza. Nelle parole che mi scriveva ho sentito, non esagero, perfino un certo gusto per il macabro. Stavo per cancellare il messaggio senza aprire l’allegato ma poi ho voluto capire dove arrivava la sua… non sapevo come definirla: arroganza? insensibilità? Perciò mi sono decisa ad aprire e a dargli uno sguardo e devo confessare che man mano che andavo avanti con la lettura lo facevo con avidità e mi ricredevo. Sapesse però quanto sono stata male: quanti dubbi, quanti ricordi, quanta sofferenza! Quanto mi sono sforzata di non lasciarmi prendere dalle sue belle parole! Alla fine ho sentito che potevo e dovevo crederle e abbandonarmi a lei fiduciosamente.
Il suo amore per papà è stato un amore forte e intenso, mi fa capire, ma anche difficile e combattuto perché lei conosceva, fra l’altro, la situazione della nostra famiglia. È vero quello che le ha riferito mio padre e cioè che i suoi rapporti con mamma erano cessati prima che si mettesse con lei. Ma se non fosse stato così cosa sarebbe cambiato? Per quello che ho appreso nella mia esperienza forse incompleta - ho ventisei anni - l’amore è una necessità e un diritto. Ne sono e ne ero cosciente ma un fatto sono le parole e le teorie, un fatto la realtà. Nella circostanza in cui mi sono trovata il vostro amore, suo e di papà, mi pareva una cosa sporca, ripugnante. Mio padre le avrà detto che il vero problema in questa storia ero io, ed è vero. Ho saputo tardi e da mia madre della vostra relazione. Se fosse stato papà a parlarmene sarebbe stato diverso. Così invece mi sono sentita doppiamente tradita, e poi da un uomo che adoravo. Da quello che ho potuto capire, mio padre non le ha raccontato della mia rabbia e sofferenza. Forse non voleva creare ostacoli tra di voi. Ma questa mia sofferenza, questa rabbia lei dice di averle intuite ed è anche per questo che mi ha scritto. Se è così la sua sensibilità e comprensione mi toccano, mi aprono l’anima. Lei mi parla di sé, della sua vita, del suo bel lavoro, dei suoi gatti, eccetera. Io non posso dirle molto di me. Ho una laurea (lettere antiche) prestigiosa e inutile ai fini di un lavoro: sono una vera precaria, faccio qualche supplenza nei licei di Roma e provincia e vivo con Enzo, un fisico nucleare con un lavoro fortunatamente meno precario del mio, un uomo che papà non stimava perché, secondo lui, era privo di fantasia. Ma in questo papà era, come si dice, tranchant, le sue convinzioni erano incrollabili, i suoi errori imperdonabili. Con lui ho molto litigato su un’infinità di questioni benché, ripeto, lo amassi molto. Acqua passata. Il ricordo di quei litigi adesso mi fa un po’ sorridere e me li rende addirittura preziosi. Nella parte finale della mail lei dice di volermi incontrare. La cosa, come può capire, mi ha messo (e mi tiene ancora) in subbuglio e mi ha spinto a chiedermi perché. Perché a distanza di settimane una persona che ho trattato sgarbatamente si rifà viva con una richiesta del genere? Vede, io sono una donna insicura. Sono una che ha bisogno di molti incoraggiamenti prima di agire. Lei stessa mi confida che non conosce bene i motivi che l’hanno spinta a scrivermi. Mi dice solo che “è stato un sentimento incontrollato, un moto istintivo al quale non so dare una spiegazione”. Ma a questo punto cosa potrebbe dire una come me che forse ne sa molto meno di lei? Le ripeto: la sua mail rimette tutto in questione e mi fa sentire sulle spine. Quanto sarebbe stato più facile se le cose fossero rimaste com’erano! Come sono facili e comode le cose che uno taglia in due, prendendosi la parte più rassicurante! E invece eccomi esposta e fragile. Molto, molto più fragile di quanto non lo sia normalmente… Stando così le cose, è troppo se le chiedo di essere un po’ comprensiva con me? Aspetto un’altra sua mail. Vorrei tanto che mi tranquillizzasse su un punto: che non mi userà. Non userà me, la mia persona per continuare a inseguire un fantasma. Solo questo. Allora forse potremo decidere il tempo e il luogo del nostro incontro.
Mi tenga nel cuore.
Amalia.
P.S.: Papà mi diceva che mi esprimo come un personaggio femminile della letteratura ottocentesca, tipo educanda. Scherzava ma mi faceva sentire così inadeguata e ridicola! Lei che pensa?
Calando dal Pincio, presero l’ultimo tornante di sinistra prima della piazza. Da lì in poi la marea dei corpi ribolliva come un formicaio.
Iniziarono a fenderla. Sgomitavano piano ma decisi, in fila indiana - e attenti a non perdersi. Quasi alla fine del tornante una barriera umana impediva il passaggio. La folla guardava sfilare un gigantesco pene color rosa, in plastica, sorretto ai lati da giovani muniti di forcelle. Con una scritta di fianco che lo intitolava al capo del governo, il pene risaliva il tornante tra sogghigni e applausi, temperati da un palpabile senso di imbarazzo. Si fermò lasciandosi ammirare in tutta la sua estensione. Continuò a risalire nell’angusto corridoio umano che si era formato, e la stretta dei corpi si allentò.
Ripresero a camminare. Adesso stavano a pochi metri dal caffè Canova. Piazza del Popolo che un’ora prima avevano osservato dalla balconata del Pincio valutandone l’affollamento, appariva sempre gremita per via di un continuo avvicendarsi di manifestanti. Dal grande palco in fondo alla piazza veniva una stentorea voce femminile. Scoppiavano applausi, inframmezzati da silenzi - intermezzi ad altri applausi, ad altro urlio. Si levavano in alto cartelli con scritte e disegni satirici indirizzati al capo del governo. E squilli di cellulari e voci che chiamavano: un cercarsi ansioso febbrile, e un dare coordinate per ritrovarsi nella folla. Un’infinità di donne sollevava in alto fogli e cartelli con le parole d’ordine Se non ora quando? E uomini affiancati alle donne, taluni che ostentavano un eccesso di disinvoltura; altri, di remissività. E se ne vedevano di smarriti come se si sentissero fuori luogo, estranei alla festa e all’allegria femminile ma obbligati dalla generica comunanza di idee a condividerle.
Procedendo, coglievano al volo brani di conversazione e commenti.
Quanti? centocinquantamila?
Come minimo.
La giornata c’ha assistito.
La monaca - lei sì che gliel’ha cantate allo zozzone.
Suora, non monaca. Una con le palle, ragazzi.
Svoltarono in via del Babuino. Camminavano in direzione di piazza di Spagna tra una folla che andava nei due sensi, un andirivieni più sciolto come se si concedesse una tregua dopo un impegno di ore.
Paola, si sentì chiamare, rallenta un po’.
Non rallentò. L’inquietudine, la furia spavalda che la spingevano avanti. E la voce dell’uomo nella quale avvertiva una nota di confidenza. Di troppa incalzante confidenza. Era amico di Vera, la donna che le stava dietro fiatandole quasi sul collo. L’avevano incrociato che vagava nei paraggi della Casina Valadier. Barba folta, voce molle. E molle cedevole sudaticcia la mano che aveva stretto la sua. Luigi, l’aveva presentato Vera. Poi lui si era imposto, Se non sono di disturbo mi aggrego.
Levò in alto il cellulare agitandolo. Se ci si perde, c’è sempre questo, lanciò polemicamente. Si girò, chiese all’amica dov’era il bar al quale erano diretti. Via della Croce, si sentì rispondere. Dio, fa’ che arriviamo presto, pensò facendo appena caso al nome del bar che pronunciava Vera. Piedi e gambe. Piedi e gambe a pezzi. Me la sto facendo addosso. Darei chissà che per una sedia.
Ora sentiva freddo.
Per giunta le tornava con un sapore acido l’immagine del pene in plastica. Il gusto dubbio della pensata. La rosea oscena trasparenza dell’oggetto che le suggeriva il vizio, l’ossessione di un intero paese. Una turpitudine diffusa della mente, più che la rappresentazione caricaturale di uno solo.
Nella via, neppure l’ombra di un vigile a regolare il traffico. Macchine di residenti incagliate nella folla. Un concerto imbufalito di clacson e bestemmie e imprecazioni dai finestrini contro i manifestanti.
Questi rompicazzo, esclamò Vera con una smorfia. Tutti destrorsi.
Si girò a ripeterlo a Luigi che si limitò a fare un gesto col capo che poteva essere di approvazione o dissenso.
Potevano immaginarselo il casino che avrebbero trovato, commentò lei senza troppa convinzione.
Sentì Luigi che gridava, Io mi affido a voi, il bar non lo conosco.
Rabbrividì. Adesso ho proprio freddo, si è fatta sera, pensò infilandosi il giacchino di lana che stringeva in mano.
Aria caliginosa che imprigiona la via e i corpi in movimento, offusca le luci di negozi e lampioni. Antropotossine. Chi aveva pronunciato la parola? quando? Non se lo ricordava, era uno di sua conoscenza ma non ricordava chi, in quale occasione.
Antropotossine.
E in effetti si respirava la congestione dei corpi, il loro affanno, i fiati. E le traverse della via erano nere viscere che vomitavano e ingoiavano gente.
Le tornava un ricordo di quand’era piccola che girava per le vie del rione Monti alla festa del santo patrono. Folla in processione. La stessa stanchezza che provava adesso. Quel senso di inquieta apatia. Lei che sfilava con la madre. Appoggiavo la testa sulla schiena di qualcuno - qualcuno davanti a me. Mi lasciavo portare. Che tipetta ero.
Il cellulare squillava. Lo tirò fuori dalla borsa, pigiò il tasto dei messaggi. Dove sei?, lesse. Bea. Nella domanda percepì una richiesta e al tempo stesso la confessione di una solitudine. Bea. Singola come lei. E autonoma e disinvolta e sempre in moto e piena di iniziative, e questo e quello. La sera prima lei l’aveva chiamata proponendole di andare insieme alla manifestazione, però l’amica era stata vaga. Ci teniamo in contatto col cellulare quando siamo in piazza. Fregata, pensò. Questa pretesa di valutare tutte le opportunità. Di scegliere la più conveniente. Le avranno dato buca e adesso si aggrappa a me. Ma tu, pensò subito dopo, tu al posto suo che avresti fatto? Un filo d’indulgenza per Bea. E per te stessa. Inviò un messaggio. Indicò via e nome del bar dov’erano diretti, tenne il cellulare in mano in attesa: l’amica era rapida nella risposta. Passò qualche minuto senza che il cellulare squillasse.
C’ha ripensato. L’orgoglio.
A Luigi tra poco gli viene un coccolone, le sussurrava Vera.
Perché, che ha?
Si girò a guardarlo, vide che si trascinava procedendo a testa bassa. Ci credo, sussurrò a sua volta all’amica, con tutta quella ciccia. Mi sa che te lo dovrai portare a cavacecio.
Vera ridacchiò. Perché non te lo prendi tu? Hai certe spalle.
Il pacco è tuo, mica mio, disse. Poi pensò: Sono crudele.
Vide sbucare sulla strada, venendo da via dei Greci, un gruppetto di sei persone. Andava in direzione opposta alla loro. C’erano tre uomini. Di uno non si capiva se fosse della comitiva o ci si era trovato in mezzo per caso. Sulla cinquantina e più, il portamento che induceva il sospetto di un esercizio di vanità o di istrionismo, sguardo annoiato. Lo scorse dal lato opposto della strada, si arrestò. Raggelata, più che attonita. Senza respiro. Sembrava che l’uomo non l’avesse vista - o aveva finto? Tirava verso piazza del Popolo, e adesso si capiva che aveva niente a che fare con gli altri del gruppo.
Si voltò a guardare come immersa nella pania di un sogno. Non lo scorse più, inghiottito dalla folla. Vera da dietro le chiese il motivo di quell’arresto. Minimizzò. Disse che le era parso di vedere uno che conosceva. Ebbe l’impressione che la voce le uscisse lenta, afona. Come estranea alla sua volontà. Era uno che conoscevi bene?, incalzò l’amica. Così, rispose. Si mosse. Camminava trasognata, la sensazione che il corpo avesse perduto ogni consistenza. Sentì che Luigi domandava, Com’è che vi siete fermate? E Vera che rispondeva tra il serio e il beffardo, Niente.
Eri tu?, disse lei tra sé.
Nel bagno, sudiciume e puzzo di piscio che prendeva alla gola. Orinò dall’alto del water in una postura complicata, lo sguardo rivolto all’indietro per centrare il foro col getto. Andava meglio. Si ragiona. Si distanziò cautamente dal water, tirò su gli slip e i jeans. Si guardò allo specchio. Ho una faccia. Estrasse dalla tasca del giubbino, dove l’aveva trasferito dalla borsa, il cellulare. Pigiò per comporre l’sms, le dita che slittavano sui tasti per il tremito. Eri tu?, scrisse, e sentiva un vuoto doloroso allo stomaco. Tossicchiò in preda alla nausea, tossì ancora, più a lungo. Si riprese, pigiò il pulsante di invio del messaggio premurandosi dopo di silenziare la suoneria del telefonino, che ricacciò in tasca. Tornò a guardarsi allo specchio, si sforzò di sorridere, la bocca che le si contraeva in una smorfia d’ansia, il viso stravolto, pallido. Infilò la mano nella borsa, cominciò a rovistare nel marasma degli oggetti. Niente. Non riusciva a trovare quello che cercava. Tra poco ho una crisi isterica. Sollevò la borsa per guardare dentro con comodo. Intravide l’astuccio tondo, marrone scuro, l’aprì, col pennellino si diede una spolverata di fard sulle guance. Uscì. Prima di raggiungere gli altri provò ancora a sorridere alla sua immagine riflessa e annusò il giacchino, le pareva di portasi addosso tutto il puzzo e il sudiciume del bagno.
I due l’aspettavano al tavolo: Vera che trafficava col cellulare, Luigi intento a fissare imbambolato un punto del bar. Vicino, altri tavoli, altri clienti. Reduci come loro dalla manifestazione. Conversavano distesamente, in volto una contentezza affaticata.
Vedendola, l’amica chiuse il cellulare, lo ripose in borsa. Disse, Il cesso è strapieno di merda, immagino. Strapieno di merda. In un altro momento quel calcare di Vera su certe parole col compiacimento della borghese bene che si avventura nel turpiloquio l’avrebbe urtata. L’avrebbe guardata fissa ripetendo polemicamente, con tono più crudo, quelle parole. Ora si limitò a registrarle. Disse storcendo la bocca, Non te lo consiglio, è proprio uno schifo..
Sedette. Un cameriere grasso, attempato le comparve alle spalle per l’ordinazione. Si consultarono. Chiesero tè e un piccolo vassoio di paste mignon. Lei vide che Luigi le stava con lo sguardo addosso. La guardava con una fissità disarmata, stolida. Strinse maggiormente il cellulare con la mano che teneva nella tasca del giubbino.
Fa’ presto.
Si accorse che l’amica le stava parlando, rispose a casaccio.
Vera la fissò piegando il capo di lato. Disse, Ma mi stavi seguendo, o no?
Hai ragione, si scusò, abbi pazienza. E ancora l’impressione di una voce estranea che parlava per lei. Che dicevi?, chiese.
Che una manifestazione come quella di oggi ci vorrebbe tutti i santi giorni. E se gli uomini non ci stanno, cazzi loro.
Così Roma si sarebbe bloccata per sempre, osservò sarcastico Luigi.
E con questo?
Uno capisce l’esasperazione.- chi di noi non è esasperato? Però…
Però, cosa? Intanto tu non mi dai l’impressione di essere esasperato, celiò Vera ammiccando a lei.
Non ti do quest’impressione.
Esatto, non mi dai quest’impressione.
E meno male. Stiamo freschi se uno crede di risolvere le cose con l’esasperazione.
Se capisco bene, tutto quello che è successo oggi secondo te era acqua fresca.
Non volevo dire questo e lo sai.
Tra i due iniziò una discussione serrata, le voci salirono di tono sfociando in una polemica tutta interna alle loro diverse collocazioni nella sinistra.
Lei implorò chiudendosi in una sordità ostinata: Ti prego, ti prego.
La voce del cameriere. L’uomo depositò sul tavolo tre piccole teiere, le tazze e il vassoio con i mignon. Volle offrire a tutti i costi Luigi. Lei gli vide estrarre dal portafogli un biglietto da venti, piegarlo accuratamente in due, di lungo, porgerlo al cameriere. Sentì il fruscio della carta, ebbe come una vertigine. Metodico. Pignolo. Un bancario o cosa? In quel momento il cellulare iniziò a vibrarle nella mano. L’impressione che il cuore le si arrestasse. Cavò il telefonino dalla tasca badando a tenerlo sotto il piano del tavolo, pigiò il tasto di apertura. Bea. Vado a casa, mi sono ricordata che stasera ho una cena.
Stronza, imprecò dentro di sé, mille volte stronza. Maledetta. Si accorse che Vera la guardava. Rimise il cellulare in tasca.
E tu?
Interferenze sonore.
Voci che irrompevano nel subbuglio dei pensieri, fluttuavano, si dissolvevano in un brusio uniforme sovrastato ogni tanto dal frastuono della macinatura del caffè, dallo sfiatare delle valvole della macchina, dall’acciottolio. La deconcentravano. Non si orientava. Ricomincia. Ricomincia daccapo. Oggi ti è tornata su come un rigurgito quella cosa. Pareva morta e sepolta. Pareva.
Vera e Luigi che litigavano a bassa voce, con accanimento. Li guardò. Due estranei uniti a lei accidentalmente, così le sembravano adesso. All’ombra di quell’estraneità poteva muoversi indisturbata? Scapricciarsi come faceva da piccola quando i suoi erano occupati in chiacchiere con amici o parenti? Torniamo al punto. Calma.
Allungò la mano al vassoio, scelse un mignon alla nocciola, l’addentò lasciando che la glassa e l’impasto cremoso le si sciogliessero in bocca. Ti ricordi di quella volta. Tu mi passavi in bocca un - era un pezzetto di fondente. Dalla tua alla mia bocca. Dalla mia alla tua. Desiderio di te. Delle tue labbra. La tua lingua morbida esperta. Mi entrava piena prepotente nella bocca. Esplorava si attorcigliava alla mia. Stuzzicava la punta della mia. Io morivo. Nelle orecchie. E poi per il collo. La tua bocca nell’incavo del collo. La tua bocca-ventosa. Il piacere che mi toglieva il respiro - tu mi toglievi il respiro. Una risata altavolo vicino.Risata maschile prolungata, sguaiata. Vera e Luigi che interrompevano la discussione. L’amica che metteva una smorfia di fastidio o sopportazione per quel fracasso. Cazzo, diceva, come ride male questo. Poi andava con lo sguardo su di lei, spingeva una mano a palmo aperto a pochi centimetri dai suoi occhi, e quasi strillava, Sveglia, mi sembri incantata. Questo qui -indicava Luigi - mi sta massacrando perché mi permetto di criticare il suo piddì e tu che non mi difendi.
Quanto rompi, lasciami in pace, imprecò lei mentalmente. Si sforzò di sorridere.
Luigi la difese ripetendo più o meno le sue parole: Lasciala in pace, lasciala un po’ tranquilla. E a lei con zuccherosa sollecitudine: Sei stanca?
Assentì. La notte scorsa la badante l’aveva chiamata perché il padre dava di matto, si affrettò a spiegare. Poi le cose si erano sistemate ma lei non aveva chiuso occhio. La voce le era uscita agile, chiara. Eppure mentivi, pensò. Raccontavi una balla colossale.
Va bene, ti lasciamo in pace, sentì che le concedeva irritata l’amica. E poi riattaccava con Luigi, Dov’eravamo rimasti?
Risponderai. Io e te. Io e te uniti. Ti ricordi? Ballavamo con quella musica - la colonna sonora di In the mood for love. La nostro musica. Stretti. Nudi. Mio tesoro. Mio per sempre. Non ce la facevamo e resistere. Matti dal desiderio. Quei tuoi baci. La punta della tua lingua che girava intorno ai capezzoli. La bocca succhiava – me li succhiava. Come un bambino. Io dicevo ancora ancora. E la tua mano che mi andava tra le cosce. E le dita che facevano avanti e indietro mi carezzavano la fica premevano mi entravano dentro. Lì. Una corda tesa. Umida. E prima del letto su una sedia - ti ricordi. Ti salivo sulle cosce e sentivo che me lo facevi scivolare dentro come se dentro ci fosse sempre stato e poi non sapevo se eri tu. Se eri tu a scoparmi o io scopavo te. Ti risucchiavo dentro. Sentivo che la mia vita se ne andava. Venivo. Tu gridavi dio sì. E poi quel tuo lamento che pareva il lamento di un’agonia.
Strinse le cosce, chiuse gli occhi.
Li riaprì. Confusa svuotata, e con un sentimento bruciante di vergogna dentro. Come una ragazzina. Come una ragazzina che perde il controllo. L’afflizione che le dava l’essersi infilata, dopo una giornata come quella, con le implicazioni di una giornata come quella in una questione tutta privata e intima. Troppo intima. E in fondo ormai chiusa. Sei mesi - facevano sei mesi che si erano lasciati. Lui l’aveva lasciata. Senza una spiegazione. Non posso, aveva detto quando una volta lei aveva insistito per conoscere il motivo del rifiuto. Non ce la faccio più. Non dobbiamo più. Non cercarmi più perché io non risponderò. Così. Melodrammatico. Patetico. Falso. E io - io che ho inghiottito tutte le lacrime. In silenzio. Mi sono ammutolita. Rintanata in me stessa come un animale ferito. Mi sono scorticata viva.
Sentì che Vera la interpellava. Si va?, diceva.
Andiamo, le fece eco Luigi lanciando uno sguardo all’orologio e aggrottando la fronte, devo prendere il treno per Passo Corese.
Ma si vedeva che avrebbe preferito starsene ancora lì al tavolo.
Vera si decise, si levò in piedi minacciandola scherzosamente col dito: Non ti ci porto più con me, oggi mi hai lasciata sola. E buttò lì come se fosse entrata nella sua mente, Chissà dove stavi con la testa, tu non me la racconti giusta.
Chissà, si strinse nelle spalle sforzandosi ancora di sorridere. Si rivolse a Luigi per togliersi dal disagio. Così abiti a Passo Corese. E che fai nella vita se non sono indiscreta?
Di tutto, disse lui. Elencò con l’aria di voler minimizzare: Avvocato, idraulico, elettricista, imbianchino, falegname. Mi arrangio.
Non dargli retta, intervenne Vera, fa il modesto. La sua ètutta una messinscena. Invece se la cava alla grande.
La casa è mica mia, è di un amico che adesso sta in Africa e sarà assente per un paio d’anni. Sono ospite suo. Faccio Passo Corese-Roma ogni giorno perché devo seguire le cause dei clienti.. Chi nella casa ci vive a tempo pieno è un altro amico suo.
Mentre camminavano verso l’uscita del bar Vera le disse sottovoce, Altro che casa è una villa in campagna e c’ha un grande giardino intorno. Ề carinissima, fatti invitare.
La casa è sempre aperta - almeno per adesso, affermò Luigi che le precedeva e aveva sentito.
Co’ ‘sta casa. Ề una villa, di’ che è una villa.
E vabbè: una villa.
E ci sono un sacco di animali, seguitò Vera. Polli, pappagalli, cani, gatti, un asino, perfino un asino. Uno zoo - vero che è uno zoo?
Luigi fece un gesto con la mano, sorrise. Piccolo-piccolo. È l’altro che se ne occupa, mica io. Magari potessi. Nel tempo libero sì, sono un patito degli animali.
Okay, se hai bisogno di una veterinaria qua c’è Paola.
Luigi sgranò gli occhi. Non mi dire: una veterinaria.
Esatto. Ed è un tesoro di veterinaria. Agli animali lei ci tiene un sacco e gli vuole bene. Non come un bastardo pezzo di merda che conoscevo io. Dal lunedì al venerdì stava in ambulatorio, nel weekend andava a caccia. Di nascosto ovviamente. Hai capito che tipo? Un giorno mentre cacciava gli è venuto un coccolone di quelli fulminanti.
Morto? - Lei.
Non morto, semiparalizzato. Legge del contrappasso. Così s’impara.
Uscirono in via della Croce.
Vera con una punta di canzonatura indicando l‘amico: Questo, se non lo sai, è pure un artista. Dipinge. Roba seria.
L’interessato non fiatò.
E ha fatto un sacco di mostre. Diglielo che hai fatto un sacco di mostre.
Non esageriamo. Sono un imbrattatele, precisò lui girandosi, la fronte che gli era diventata rosso fuoco.
Te l’ho detto che è un tipo modesto.
Camminavano in direzione del Corso. Luigi affrettò il passo, le si mise accanto. Chiese se poteva avere l’indirizzo della sua posta elettronica. Lui le avrebbe risposto e dato il suo. Spiegò, Nel caso che ti va di vedere il mini-zoo.
È una scusa, non fidarti, rise senza allegria Vera.
Sempre così. Con i due soriani che la precedono affiancati nel corridoio - code dritte piumose e solennità di passo. A metà strada, Lillo, il maschio, si ferma, si gira per assicurarsi che lei gli sta dietro. Giada, la femmina, che invece avanza, s’arresta all’altezza del soggiorno, fa la gobba, si struscia allo stipite della porta e emette un miagolio roco. Perché è lì, nel soggiorno, che lei entrerà appena tornata. E la gatta le segnala un obbligo da assolvere.
Sempre così al rientro dal lavoro. Lei che apre la porta di casa, affaccia il capo tra le ante per assaporare con calma, con rinnovato piacere la scena dell’accoglienza felina.
Il suo ingresso nel soggiorno ha la stessa meditata cadenza. L’occhio le va alla segreteria telefonica, dove la spia segnala le chiamate. Si avvicina piano all’apparecchio, ascolta, decide a chi rispondere e a chi no. E tra quelli a cui rispondere, chi chiamare per primo in base a necessità e convenienza. O lasciare che un umore, un sentimento, un capriccio travolgano il calcolo e le gerarchie. Nella successione di questi e altri piccoli gesti quotidiani lei sente realizzarsi l’apoteosi di un’esistenza da singola. Non facile, ma neppure impossibile. Sente che la sua non è una vita buttata via ma ancora viva fervida. Capace di accogliere altre vite, altre esperienze, seppure con cautela - per non bruciarsi. A volte le capita di vedere quest’attitudine alla cautela come un limite, un’angustia o mutilazione sentimentale, e ne soffre. Ma l’idea contraria, l’idea di perdersi in un completo abbandono, pensa, non la farebbe soffrire maggiormente?
Piero. Con lui il sistema è saltato. Saltati i fili che legavano la sua all’ esistenza degli altri, e tra loro i piccoli gesti della quotidianità. Si sono ritrovati soli con le loro vite intrecciate, chiusi nel cono di luce di un sentimento che esclude o condanna all’oscurità e all’inesistenza tutto il resto. I suoi ritorni a casa dopo il lavoro sono stati finalizzati alla presenza della voce conosciuta e amata, al delirio delle parole che sarebbero seguite quando lei avrebbe richiamato.
Come allora ma con maggiore ansia, con più slancio emotivo, si precipitò alla segreteria, sollevò il ricevitore, si mise all’ascolto.
Fa’ che lui non ci sia. Fa’ che lui ci sia.
Un discreto numero di messaggi. Alcune sue amiche che hanno partecipato alla manifestazione, uno spasimante (un cascamorto, un cacacazzo, come lo chiamerebbe Vera) che le propone per l’indomani la visione di un film e una cena al ristorante. E poi la voce torpida del fratello. La informa che ha trovato il padre “in buone condizioni, relativamente parlando”. Tornerà domani a fargli visita, dice. Le raccomanda di porgere per conto suo una carezza ai gatti. Fine delle chiamate.
Sedette nella poltrona accanto al tavolino sul quale posava la segreteria. Avvilita, che quasi le veniva da piangere per la delusione. Davanti a lei i due gatti, le code allungate in parallelo sul pavimento, che la fissavano. Il maschio che serrava gli occhi, li riapriva, li richiudeva pigramente. Le sfuggì nonostante tutto un sorriso. Poi balzò in piedi, disse, Al lavoro. La pappa per tutti e tre.
Risciacquava le stoviglie che si erano accumulate nel lavello dalla sera prima muovendo impercettibilmente i fianchi al ritmo di Hey You dei Pink Floid. Di tanto in tanto lanciava uno sguardo di lato alla femmina che la osservava accovacciata sul pavimento. Tu mio angelo peloso. Mia compagna insonne. Il maschio dormiva già, una ciambella tigrata raccolta nella cesta al fondo di un piccolo vano della cucina: lì gli animali avevano le rispettive scodelle e ceste. Caldo rifugio invernale.
A Piero i gatti erano indifferenti. I gatti in genere. A quelli di lei allungava qualche distratta carezza limitandosi a dire con quella sua aria annoiata, Mi stanno simpatici.
Lui preferiva i cani. Diceva, Sono bestie umili.
E lei: Solo per questo?
Pare poco? I cani non stai lì a mitizzarli come i gatti, non ne fai delle divinità.
Che pensiero originale, lo canzonava lei sbarrando gli occhi e assentendo col capo.
Piero aveva un cane, un bastardello, Ulisse. Il mio piccolo Ulisse, diceva.
Hey you! Would you help me to carry the stone…
Non stravedeva neppure per i Pink Floid. Gli andavano a genio i Doors. The is the end di Jim Morrison. Gli anni di differenza tra lui e me contano. Contano e come. Differenza di gusti anche sulla musica classica. Idem su tutto il resto. Letture cinema teatro. Pure sulla politica qualche disaccordo. Poca cosa, almeno lì. Delle manifestazioni Piero diceva, Mi sono stancato. Cazzo, ne ho fatte tante, ho festeggiato la fine della democrazia cristiana e del craxismo e poi mi ritrovo al governo un pagliaccio, un cialtrone corrotto con un manica di servi intorno.
E i dissapori? e le incomprensioni? Quella parte oscura di lui che l’attraeva e atterriva insieme. Quella sua ondeggiante tristezza. Quel guardarla certe volte come se non la vedesse, come se non vedesse nessuno. E quel suo modo di fare. Quelle sue contraddizioni - bugiardo infedele pigro vile e poi magari sincero eccetera. L’uomo delle contraddizioni, lo chiamava. E quell’atteggiarsi. Come se fosse sempre davanti a uno specchio. Come se sfidasse la morte, le era venuto di pensare un giorno senza un preciso motivo. Anzi no. Come se la corteggiasse.
Nella seconda settimana del rapporto già litigavano, e furiosamente certe volte. E però mai che potessero fare a meno l’uno dell’altra. I distacchi: così penosi. Di una pena, di un dolore insopportabile. Anche fisico. Lacerazioni strappi della carne. E poi ecco che arriva inaspettata la conclusione, e tutto si guasta come in certi sogni.
Che covavi dentro? che avevi?
Le ventuno e trenta. Stava per scordarsi della telefonata serale. Si asciugò rapidamente le mani con lo strofinaccio, afferrò il cordless posato su un mobiletto della cucina alle sue spalle, compose il numero. Al secondo squillo, Anca, la rumena che si occupava a tempo pieno del padre.
Sentì sullo sfondo un alterco di voci televisive.
Come sta?, domandò.
Tutto a posto, fu la risposta della donna, il signor Furio tranquillo.
Tranquillo, ripeté lei mentalmente, come per capacitarsi della parola che spesso si alternava all’altra: agitato. Pochettino agitato, diceva Anca.
Ventuno e trenta. A quest’ora è piantato davanti allo schermo televisivo. Tempo mezz’ora e si assopirà, il capo abbandonato sullo schienale della carrozzella, la bocca aperta. Un organismo che si consuma nella quasi totale immobilità causata dall’ictus. Lo rivede, le gambe rinsecchite coperte dal plaid, un braccio interamente paralizzato, l’altro offeso a metà, e la mano: una tenaglia. Come se ci si fosse trasferita, e concentrata, tutta la forza del suo istinto di sopravvivenza. Un artiglio, una cosa a sé, pensava certe volte, che tentava di afferrare, per succhiarla, la vita dagli altri.
Ha mangiato?
Il merluzzo, la informò la rumena. Però delle zucchine lesse, ne aveva mangiato solo una parte, l’altra l’aveva masticata e sputata. Okay, niente. Piccolo dispetto..
Spero che non gliel’ha sputata addosso, Anca.
La donna taceva.
Ecco lì, pensò con rabbia. Chiese ancora, ma con tono circospetto, Ha cercato anche questa volta di toccarla con quella mano? L’altra tardava a rispondere, poi rise brevemente: Okay, non fa più impressione, non si preoccupi. Signor Furio è come bambino. E disse tutto d’un fiato, Vuole dargli buonanotte?
Lasci stare, rispose. Magari dorme già. Avrebbe voluto aggiungere, E poi è inutile, riesce a malapena a spiccicare qualche parola, non mi riconosce.
Si ricordò che da circa un anno e mezzo, da quando Anca aveva iniziato ad assistere il malato, pronunciava quelle frasi. Come una richiesta di indulgenza per sé, più che per il padre. Pensò per l’ennesima volta alla vita autonoma di cui la mano pareva dotata. Un giorno che lei era presente nella casa paterna, l’aveva sorpresa a protendersi verso Anca. Era rimasta ipnotizzata dalla scaltrezza dei movimenti che contrastavano con l’espressione ebete assente impressa sulla faccia del vecchio. La mano aveva aspettato che la donna fosse alla sua portata, ed era scattata. Le aveva afferrato un seno stringendoglielo con una forza tale da strapparle un urlo di dolore. A questo punto le era salito dentro un moto di ribellione, si era avventata sulla mano e accecata da una furia aveva preso a tempestarla di schiaffi e pugni. Quando aveva visto il padre spalancare la bocca, mandare una specie di ululato e la mano mollare la presa, i nervi avevano ceduto. Si era precipitata nel bagno, vi si era chiusa dentro, era scoppiata a piangere, Anca da dietro la porta che tentava di calmarla e si scusava come se la responsabilità della violenza fosse da addebitare a lei che l’aveva subita.
Mentre si avviava alla manifestazione aveva stabilito che ci andava anche per la rumena. Per lei, per tutte le donne costrette a sorbirsi l’umiliazione, lo schifo di certi lavori. Subito dopo le era venuto il dubbio di assimilare tra loro cose solo genericamente assimilabili e lo aveva scacciato. Era convinta che il suo proposito era interessato. Mosso dal bisogno di sentirsi finalmente assolta.
Tornava in cucina a completare il risciacquo delle stoviglie, e invece svoltò d’impulso tirando verso lo studiolo. Sedette davanti al computer, aprì la posta elettronica.
Molte mail, nessuna che potesse interessarla. Andò su crea messaggio, scrisse Piero Luzi, si fermò, il cuore che riprendeva a martellare, un vuoto doloroso che l’afferrava nuovamente allo stomaco. Pensò a cosa avrebbe scritto. Trovava che ogni formulazione della mail tradiva ansia o rabbia. O un distacco troppo scoperto per risultare credibile. La sincerità umiliava il suo orgoglio. La dissimulazione era troppo evidente, almeno per lui. Mi sgamerebbe subito. Stava per spegnere il computer. Ci ripensò. Si rimise a scrivere. Scriveva, correggeva, cancellava. Nessuna formulazione che la soddisfacesse. E ad ognuna, il tremore, l’angoscia di sbagliare. Tornava lo scoramento. Serrò gli occhi, quando li riaprì era decisa a riprovare a tutti i costi. Scrisse:
Mio caro Piero,
Cancellò il possessivo.
Caro Piero,
sono sicura di averti visto oggi in via del Babbuino mentre ti dirigevi verso Piazza del Popolo. Io andavo nella direzione opposta. Che ci facevi da quelle parti? Non avevi detto che ti eri stufato delle manifestazioni? Ti sei ricreduto? Devi ammettere che quella di oggi, di questa bella domenica, è stata una manifestazione straordinaria…
Ciao,
Paola.
Rilegge soffermandosi su ciascuna parola. C’è ancora qualcosa da cambiare. Per esempio: far precedere il sicura da un quasi. Lui potrebbe leggere nella sua proclamata sicurezza l’espressione di un forte desiderio. Cancellare in via del Babbuino. Potrebbe pensare a un suo eccesso di attenzione ai luoghi, dettato dalla speranza di un incontro. E poi quel Ti sei ricreduto. Troppa insistenza. Via anche questo. Adesso dovrebbe andare.
Rilegge ancora. Pigiò il tasto di invio. Nel farlo provò lo stesso sentimento di quando al bar si era perduta nel ricordo delle intimità con Piero.
Completò il lavoro in cucina, tornò al computer. Vide in neretto la dicitura Mail delivery failed. Il messaggio era stato respinto. L’indirizzo era sbagliato? Impossibile. Cambiato forse. Disappunto ma anche un pizzico di sollievo. Sì, doveva aver cambiato l’indirizzo. A questo sei arrivato. E se invecesi trattava di un inceppo nel sistema? Capita. Anche se raramente, capita. Rispedisci. E lo fece. Tornò in cucina. I gatti dormivano nelle ceste, due ciambelle affiancate. Contemplò i fianchi degli animali che si sollevavano al respiro. Loro non sanno. Le venne uno struggimento. Camminò ancora una volta verso lo studiolo con calma scaramantica. Appena dentro, guardò la posta. Partita. Fiatò dal sollievo. Spense la luce, uscì.
Si ripromise di controllare la posta l’indomani appena alzata.
La notte non chiuse occhio.
Nessuna risposta, neppure nei giorni successivi. E lei che si rode, che ripete a se stessa: Dovevi immaginartelo. Che speravi?
In tutto questo, è già una fortuna che durante il giorno la mente sia occupata dal lavoro. Dai casi clinici animali - e umani - che sfilano quotidianamente nell’ambulatorio veterinario mandato avanti con Carla, una collega capace ma zelante, puntigliosa fino alla noia. Fortuna che non le manchi la compagnia assidua felpata dei gatti quand’è in casa. Senza, starebbe lì a torturarsi rischiando di sprofondare nell’apatia e nello sconforto.
Luigi. A metà settimana tra i messaggi della posta elettronica, una sua mail. Le parlava di alcuni problemi che si erano verificati nel mini-zoo domestico. Approfitto della tua specializzazione, diceva. Ed elencava: un pollo diventato bersaglio degli altri polli, la testa spennata e ferita a sangue, un gatto sparito (Bianchino, il suo preferito), il cane Andrea che gli pareva un tantino depresso. Sicché chiedeva consigli in proposito. Concludeva con un saluto. E il postscriptum: Qui gli alberi cominciano a fiorire.
Se l’aspettava una mail di Luigi. Ma chissà perché non in quella chiave mesta e idilliaca nel finale. Richiamò alla mente la figura dell’uomo, le venne da sorridere. Al tempo stesso la imbarazzavano i suoi modi indiretti, insinuanti. E un po’ la urtavano. Prese tempo nel rispondergli, allora diede consigli di facile buon senso sul pollo beccato a sangue, sulla depressione del cane, sul gatto scomparso. Poche parole, un tono che concedeva poco alla confidenza.
Concludeva ironicamente: Beato te con tutti quegli alberi in fiore.
Continua a tardare la mail il cui pensiero la tiene in uno stato penoso di sospensione. Da Luigi iniziano a fioccarne tre a cadenza settimanale. E sempre le stesse cose: la campagna, gli animali, la pioggia, il vento, il sole, l’aria già mite.
Ora comincia a ricredersi sulla sua timidezza. Ognuno ha una tecnica di approccio, lui aveva la sua. Corrispondeva al tipo. Com’era invece diverso Piero. Diretto nella parola e poi complicato contorto nei sentimenti. E diversi fisicamente i due uomini. Mettendoli a confronto, il corpo asciutto di Piero le appariva in tutta la sua sensuale narcisistica eleganza; quello dell’altro, goffo e infantile. Poco attraente. Ma chissà forse anche capace di suscitare un sentimento protettivo. Magari di tenerezza. Dalla tenerezza al letto la strada è corta, pensava.
Prevedeva che sarebbe giunto l’invito nella villa di campagna. Arrivò. Rivolto a lei. Ma esteso a Vera. Se ci stai le telefono, diceva Luigi, potreste venire insieme nel prossimo weekend. O potremmo vederci a Roma, a cena.
Un passo dopo l’altro, pensò. Un passo dopo l’altro verso l’accerchiamento. Mica stupido, il tipo.
La mail era giunta una domenica di marzo. Stabilì di lasciar passare qualche giorno prima di rispondere. Voleva pensarci su. Non era del tutto convinta di accettare.
Amalialuz.
Leggeva le altre mail, ma era intorno a quella di Amalialuz che girava con la mente. La cantabile luminosità del nome. Nel quale percepiva qualcosa di familiare. Tentata di cliccarci su, e al tempo stesso di non farlo, rimandare. Alla fine puntò risolutamente la freccia sul nome. Lesse:
Cara signora,
domenica 13 febbraio lei ha visto qualcuno che forse somigliava a Piero Luzi, ma non era lui. Mio padre non era alla manifestazione. C’ero io ma questo non ha alcuna importanza rispetto a quello che sto per dirle: non mandi più nessuna mail a questo indirizzo!
Amalia Luzi
Franca e Mario, amici di lunga data di Piero. Esuberante la donna - troppo, aveva giudicato lei quando si erano conosciute -; taciturno schivo l’uomo. (Tutto l’opposto di me, le aveva confidato in seguito Franca, col tono di dare all’affermazione un valore di necessità, come se l’indole del marito dovesse giustificare o completare la sua).
La fine del rapporto con Piero si era trascinata dietro quella con Franca e Mario. Circostanza che l’aveva spinta a riflettere sull’inconsistenza di relazioni basate su gusti e generiche complicità (e su un equilibrio numerico), più che su una vera conoscenza. Dopotutto si erano visti poche volte. E sempre fuori: al ristorante, alla Casa del jazz, all’Auditorium. Franca debordava in chiacchiera e gesticolazione. Ogni tanto cercava ostentatamente la mano di Mario afferrandola e tenendola stretta. Mario che sorrideva debolmente come per scusarsi dell’intraprendenza della compagna. Lei e Piero che invece le mani preferivano stringersele di nascosto, col piacere accresciuto da una suggestione di clandestinità. Bene. E perché non scambiarsi, lei e Franca, gli indirizzi di posta elettronica? Lo avevano fatto, poi però non si erano mai scritte.
Sente di doverlo fare adesso, le invia una mail in cui dice:
Cara Franca,
tante le promesse di contattarci, e poi… Comincio io sperando di non disturbarti. Mi è successo un fatto strano che forse tu puoi aiutarmi a capire. Tempo fa ho inviato una mail a Piero. Sono passati parecchi giorni e nessuna risposta. Poi è arrivata, però non era la sua ma della figlia Amalia. Ti risparmio il tono ostile della ragazza. Il punto è un altro: per come lo conosco, Piero è molto geloso della sua vita privata e non permetterebbe mai a qualcuno, anche alla persona che gli è più cara, di guardare la sua corrispondenza sul suo computer. Immagino che tu e Mario lo vedete o avete notizie fresche di lui. Se puoi darmi una qualche spiegazione di quella stranezza te ne sarò molto grata.
Ricordando i simpatici momenti trascorsi insieme, ti abbraccio. Saluti a Mario.
Aveva scritto la mail il mercoledì sera, lesse la risposta la sera dell’indomani.
Cara, in questo periodo non ho neppure il tempo di respirare. Ti spiegherà Mario.
Scusami.
A presto.
F.
Le parole spicciative di Franca (troppo spicciative, pensò lei), il fatto che scaricasse sul marito il compito di risponderle - tutto questo la mise in agitazione. Al di là degli inevitabili scaricabarile che si verificano nelle coppie, sentiva che i due aspetti erano intimamente connessi, che c’era dietro qualcosa. Non riusciva a farsene un’idea e questo accresceva in lei un forte senso di apprensione.
Venerdì, e la risposta non arrivava. Spedì una mail a Luigi. Disse che era costretta a rimandare l’incontro nella sua casa di campagna o a Roma perché non stava bene. Si sarebbe incaricata di comunicarlo a Vera che poteva decidere autonomamente.
Mi dispiace di non poter vedere i tuoi alberi, concludeva.
Sabato, la risposta di Mario. L’uomo si scusava del ritardo. Ne addossava la colpa alla difficoltà di riferirle cos’era accaduto. Spiegava di essere stato combattuto da due opposte necessità. Da una parte, tacere per delicatezza; dall’altra, non poter tacere e doverla informare di ciò che la riguardava e di cui sarebbe venuta comunque a conoscenza. Proseguiva:
Piero se n’è andato il 13 ottobre dello scorso anno per un tumore cerebrale molto aggressivo. Sapeva di essere condannato e voleva risparmiarti/risparmiarsi la pena di apparirti assai diverso da com’era. Prima di morire si è riappacificato con la figlia Amalia e le ha lasciato anche il suo computer. Amalia lo accende ogni giorno, legge la posta che arriva ancora al padre e in certi casi risponde. Come ha fatto con te.
Franca e io ti siamo vicini.
In lei, il dolore per una perdita o per un lutto è preceduto da uno stato di insensibilità o di ottundimento della coscienza. E si manifesta con tanta maggiore violenza quanto più tardiva è stata la consapevolezza. Prima c’è lo stupore, seguito da un senso di estraneità. Come se vivesse un sogno dove guarda se stessa fare qualcosa che sembra inconciliabile con la sua persona; dove si riconosce senza per questo addebitarsi la responsabilità di ciò che fa e pensa. La sua attenzione si fissa in primo momento su un dettaglio secondario o ininfluente dell’evento doloroso, e lo rimastica fino a stordirsene. Così il giorno che Piero l’ha chiamata al telefono imponendole l’interruzione del rapporto. Allora si è concentrata per ore sul fruscio del proprio cordless, sul fastidio che le dava il rumore. Un po’ come adesso su quel Franca e io ti siamo vicini della mail di Mario. Ne sente la convenzionalità, l’ipocrisia e se lo ripete come una nenia privandolo di una parte per adattarlo a una facile sonorità - Francaeio-Francaeio. E poi: Tisiamovicini-ti siamo.
Questa volta il dolore, la cognizione del dolore, la investe all’indomani della mail di Mario, e la squassa. Si premura di telefonare alla collega chiedendole di fare da sola all’ambulatorio e portando come scusa un aggravamento delle condizioni del padre che la obbligano a stargli dietro qualche giorno - si sorprende a constatare la disinvolturacon la quale riesce sempre più a usare la figura paterna come un paravento o un alibi delle sue indisponibilità.
Torna al lavoro che è spossata, un senso di nausea che non le dà tregua. Lo sconforto e l’angoscia si susseguono con minore frequenza che nei giorni precedenti ma continuano ad opprimerla. Al punto che certe volte abbandona l’ambulatorio lasciando sconcertata la collega e cammina di corsa, che sembra una matta, nei paraggi. A un tratto si arresta, estrae dalla tasca un pacchetto di sigarette, ne accende una (ha ripreso dopo anni che aveva smesso) e fa lunghe tirate per frenare il pianto.
Col tempo riuscì a calmarsi un poco. Quando l’immagine dell’uomo le si affacciava alla mente, la cancellava facendo violenza su se stessa: materialmente (si premeva con le dita le palpebre fino a farsi male) o agiva di scaltrezza dirottandola su uno specchio guasto, per poi confinarla nell’ombra. Oppure chiamava a raccolta i difetti di Piero che contrapponeva come un esercito ostile e agguerrito alla parte di lui che aveva amato. Quando ancora stavano insieme il gioco qualche volta le riusciva. Ora non più. C’era di mezzo la morte, già questo rendeva indistinguibili i pregi e i molti difetti dell’uomo proiettando la sua immagine in una luce di astratta integrità.
Luigi continuava a inviarle messaggi ai quali non rispondeva. Qualche volta pensando all’insistenza dell’uomo le veniva in mente la situazione paradossale di una storia di Carver che lei preferiva sulle altre. Nel racconto c’è un fornaio al quale viene ordinata da una donna la torta per il compleanno del figlio, un bambino di otto anni. Quello stesso giorno il piccolo viene investito da un’auto e si spegne in un letto di ospedale davanti alla donna e al marito distrutti dal dolore. Il fornaio, ignaro, tempesta di telefonate la coppia ricordandole l’ordinazione e il ritiro della torta.
In seguito l’immagine di Piero iniziò a combinarsi nella sua mente con quella della figlia. Il motivo dell’associazione le riusciva al tempo stesso comprensibile e inspiegabile.
Le pareva poi che le due immagini fossero sovrapponibili, che l’una giustificasse l’esistenza dell’altra. Cominciò a frullarle in mente un proposito che considerava azzardato ma di cui avvertiva la necessità. Tentava di scacciarlo, ma inutilmente. Il proposito tornava a riaffacciarsi, le pulsava nella mente con penosa insistenza. Un po’ come se prendesse forza dai suoi tentativi di cancellazione.
In altre parole, si trattava di indirizzare direttamente alla figlia di Piero una mail. Si rendeva conto che in questo modo avrebbe violentato i sentimenti dell’altra. Il che l’angosciava parecchio. Stessa angoscia le procurava l’idea di dover affrontare la bestia che aveva dentro, quell’orgoglio smisurato che le impediva di aprirsi interamente. Non faceva che pensarci, combattuta tra opposte necessità. Sapeva che se non avesse scritto la mail avrebbe perso poco o niente. Scrivendola, rischiava lo sbaraglio. Ma in ogni caso, rifletteva subito dopo, avrebbe fatto una cosa che le andava di fare, orgoglio o non orgoglio, una cosa che desiderava con tutte le sue forze, almeno questo.
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