Pubblicato il 18/09/2011 08:49:09
La poesia è il formato da combattimento della letteratura, la sua linea avanzata. Si sprigiona da un'urgenza di chi è costretto in poco tempo, in affanno di spazio, ed esige la formula più breve per raggiungere l'ascolto. È democratica, ognuno ne ha scritta qualcuna sotto una pressione che cercava quello scappamento. Non tutti hanno pazienza di diluire in molte pagine, in libro, l'impulso di rivolgersi lontano, di narrare, di aggiungere un'altra illeggibile firma all'albo degli scrittori, ma molti hanno obbedito al desiderio di sigillare un pensiero, un sentimento dentro la ceralacca antica della poesia. Per l'istante in cui è scritta, precipita in un grumo e si raffredda in forma. Poesia è salmo di ognuno, preghiera inventata e stenografia che pretende da sé una perfezione. Per ottenerla il poeta sapiente armeggia sulle sillabe, aspira alla finitura di chi fa al tornio in officina il suo capolavoro. Ma di tutto il suo traffico sopra il pezzo di verso, immorsato e stretto dalla contropunta, niente deve apparire, neppure l'ombra di una scheggia. La poesia (quella stessa poesia protagonista ora anche di un Festival internazionale a Parma) deve spuntare agli occhi di chi l'apre come: «a moment's thought», il pensiero di un attimo, altrimenti: «our stitching and unstitching will be nought», il nostro cuci e scuci sarà vano, scrive del suo lavoro il poeta Yeats. Il millenovecento è stato il secolo più scosso nella vita dell'umanità. La Storia, maiuscola e maggiore, ha avuto il più spietato sopravvento sulle storie piccole e private, entrando nelle stanze a separare mogli da mariti, figli da padri, popoli da luoghi. Secolo di assedi e di campi spinati, di cinema e di aerei, alle più vaste stragi dell'umanità ha messo a contrappeso l'invenzione degli antibiotici che hanno risparmiato altra specie di mortalità: il nostro millenovecento è stato gigantesco di contrasti, precipitoso e perciò poetico. Non aveva tempo né carta sufficiente. Isaak Katzenelson scrive il suo poema del popolo ebreo messo a morte, nel campo di transito di Vittel in Francia, oggi noto per le acque minerali e negli anni Quaranta per essere l'anticamera di Auschwitz. Scrive di nascosto e sotterra sotto un albero il più alto grido poetico sulla distruzione del proprio popolo. Poi insieme al figlio lascia Vittel nel treno che li porta ai forni crematori di Polonia, ma da sotto le radici di una quercia, dopo la guerra spunterà il corpo vivo e illeso della sua poesia. E Anna Akhmatova viene riconosciuta nella fila di parenti in attesa al freddo davanti al carcere della Lubjanka, negli anni Cinquanta: è lei, la famosa, la cantatrice della poesia russa, e allora una donna in fila davanti a lei si volta. Una donna sulla cui faccia era passato con l'erpice il secolo della Storia maggiore le chiede: «Voi questo potete descriverlo?». E Anna risponde: «Mogù», posso. Per questa risposta, per questa responsabilità la poesia è il formato di combattimento della letteratura. Quando non c'è più tempo e bussano alla porta i gendarmi, quando battono la città con l'artiglieria, quando si sta in un letto d'ospedale, dietro una graticola di sbarre, quando è troppo tardi e mancano le parole e il fiato è corto, allora la poesia prende il tuo posto, la mano che non ci arriva, e arriva. Nelle prigioni, nelle cantine dei ricoveri, su pezzi di carta di fortuna si scrivono poesie. Ante Zemlajr ne scriveva su carta di sacchi di cemento con un pezzetto di carbone. A Goli Otok, colonia penale per dissidenti di Tito, era proibito scrivere. Nel ghetto di Lodz Isaia Spiegel nel '43 scarabocchiava nel suo yiddish di braccato: «Il mio corpo è un pane/calato in un calice di sangue». Poesia succede dov'essa è d'improvviso indispensabile, anche se il poeta in quel momento non riesce a scrivere neanche il suo nome sulla porta di casa. Izet Sarajlic, poeta di versi ripetuti a mente dai cittadini di Sarajevo, negli anni di assedio scrive poco. Che fa? Sta lì, vive con la città scassata, condivide la fame, le code per l'acqua, il pane, condivide granate. Non profitta di inviti a emigrare. Sta lì, quella è la sua poesia e scalda uguale. Il poeta è responsabile del dolore e della gioia. Ho nominato qualche poeta amico, ma se non senti amico all'improvviso un poeta, un suo verso saltato agli occhi per illuminarli, a che serve un poeta? Questo deve fare, prendere sottobraccio, dare l'amicizia di quattro passi insieme, sillabe di una strofa miracolosa di fraternità.
(tratto da “Il Corriere della Sera” del 29 maggio 2004, fu scritto in occasione della prima edizione del Festival internazionale di poesia di Parma, dal sito http://ellisse.altervista.org/index.php?/archives/438-Erri-De-Luca-I-versi-combattenti.html)
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