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A proposito di Poetica

Argomento: Filosofia/Scienza

di Salvatore Violante
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Pubblicato il 24/10/2011 16:46:23


Il Mattino di oggi 19 agosto 2011 scrive che alla borsa di Milano c’è
stato panico. Alla fine della giornata l’indice Mib ha segnato -6,15%. Il
governo è tutto preso a rastrellare risorse per una manovra che possa
allontanare lo spettro del default. Se ne dicono tante, si paventa un ulteriore
sacrificio per i soliti noti: i meno forti, come i lavoratori dipendenti,
i pensionati ed i malati. A qualche ministro potrebbe venire in mente
l’idea di una novella rupe Tarpea, magari in ogni città. A Bacoli, ad esempio,
si potrebbe utilizzare il castello. Basterebbe uno scivolo, aprendo un
varco nella muraglia di cinta che dà sul mare: si risolverebbe il problema
degli invalidi della zona con un discreto risparmio. Qui a Terzigno c’è la
discarica ed il cratere del Vesuvio. Un ministro più scaltro degli altri ha
lanciato l’idea di risparmiare sulla cultura, perché ha detto: «non dà da
mangiare».
Ecco, io devo parlare del saggio di Marcello Carlino, Poetica, uscito
per i tipi di Guida Editore Napoli, 2011. A sentire il ministro dovrei quasi
vergognarmene visto che né il libro, né questo scritto potrà dare ossigeno
alla borsa di Milano. Il guaio di questa compagnia di postmoderni prestati
alla politica è la convinzione che i bisogni siano localizzabili dal
ventre in giù. Altro, è lusso senza richiamo di mercato. Occorrerebbe una
seria ricerca delle radici del degrado in cui si va crogiolando l’intera
civiltà occidentale, con un occhio particolare alle zolle italiche. Forse si
scoprirebbero strane cose, come la banalizzazione della conoscenza con
relativo abbrutimento intellettivo insieme alla rinuncia del ruolo che l’arte
avrebbe potuto avere nella formazione del gusto estetico ed anche e
quindi nella indicazione di un modello di ricostruzione etica dell’uomo e
della sua posizione nel mondo, perché il mondo non è il mercato. Ecco
perché, proprio oggi, sento di dover parlare di questo librettino di 118
pagine, che Marcello Carlino, da par suo, ha reso denso, grazie ad una
scrittura, come dire, pastosa ed elegante; ma anche sostanzioso, per la ricchezza
di notizie e suggerimenti utili agli addetti ai lavori ed anche ai lettori
di buona volontà. Inizia, come tutti, da Aristotele che definisce l’Arte
imitazione. Sottolinea la matrice antiplatonica di quella poetica che ridà
cittadinanza alla poesia che invece Platone aveva messo fuori dalla sua
Politéia . Perché Aristotele ritiene che essa abbia nel suo DNA un
impulso forte, uno stimolo a cercare la verità, essendo l’uomo spinto


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all’imitazione dall’intenso piacere che ne ricava. Ancora bambino, utilizza
la madre ed il padre come elementi catalizzatori per le prime conoscenze.
Essi diventano il primo mezzo di trasporto gnoseologico. Vorrei
far notare che, probabilmente, il fatto che l’uomo provi piacere ad imitare,
derivi dalle iniziali esperienze preriscaldate da quel carnale legame
parentale. Da ciò deriva, per la poesia, un’azione imitativa che, surriscaldando
di piacere l’intelletto, lo pone davanti al reale per suggerne non la
sua relatività specifica ma la sua verisimiglianza, il suo modo d’essere o
il suo divenire potenziale. Questo può la poesia e con questo finalizzare
la sua tensione conoscitiva fino al raggiungimento dell’universale grazie
alla verisimiglianza alla verità, quella possibile che un testo poetico può
produrre. Nella poesia e nella musica, per Aristotele, c’è addirittura la
catarsi. Potrebbe intendersi, Aristotele non lo dice esplicitamente, il
luogo dove l’emozione più che abolita, si sterilizza esaltandosi. Nell’arte,
infatti, lo sguardo dell’uomo perde il suo orizzonte visivo limitato dal
semplice rapporto d’amore, odio, timore, speranza e si dilata, grazie alla
catarsi, in una visione che, distogliendo il suo occhio dall’oggetto con cui
entra in relazione, lo ripropone nell’espressione della sua emozione rappresentata.
Un altro aspetto della Poetica di Aristotele sottolineato da Carlino è
quello che egli definisce “Poetica tutto fare”. In quel concetto c’è la sintesi
di tre aspetti che noi moderni amiamo distinguere in estetica, teoria
della letteratura e critica letteraria. Sono aspetti però subentranti, derivano
dal testo poetico, dal suo humus.
È curioso, ma anche lampante, il motivo per cui Marcello Carlino
dedica in questo libro, tutto un capitolo di spigolature sull’etimo e la storia
che richiama la parola poetica. Inizia dal lemma greco poiéin (fare),
passa attraverso la radice sanscrita pu da cui germinerebbe il poiéin
nella sua accezione di generare. Tutto questo perché Egli ha bisogno
comunque di un elemento che renda l’azione del poetare simile al germogliare
in natura, un atto creativo legato alla febbrilità del faber, quel
modellatore di parole che spinto dalla sua febbre operativa si fa sempre
più esperto.
Passa poi ad osservare come, sotto il nome di poetica, specialmente
nel sedicesimo secolo con qualche sparuta eccezione, germoglino trattatelli
che per la maggior parte tendono alla semplificazione, assemblando
prescrizioni e istituendo precetti e classifiche. E così, la Poetica di
Aristotele fra il Cinquecento e il Seicento, subisce una dieta ferrea che
con i generi si riduce a stilistica. In tal modo la letteratura rinuncia ai suoi
talenti conoscitivi e proiettivi limitandosi a realizzare il già convenuto. In

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Aristotele, teoria e prassi sono inscindibili e realizzano un rapporto biunivoco
assai utile. Man mano che la teoria dimagrisce, si gonfia la prassi
che si adatta alle logiche di potere, predisponendosi ai futuri cambiamenti
ed al mercato.
Quando il filosofo tedesco Baumgarten nelle sue Meditationes philosophicae
de nonnullis ad poema pertinentibus concepì l’estetica definendola
poi in modo organico tra il 1750 ed il 1758 nell’opera omonima,
i tempi erano ormai maturi. Nelle sue riflessioni egli la liberò dalla poetica
consegnandole il compito della filosofia dell’arte. Con l’inizio della
rivoluzione industriale e l’assunzione a ruolo dirigente della nuova classe
borghese e commerciale, una cultura nuova invade l’Europa ed essa e
di essa quella classe nutre e si nutre. La poetica continua a dimagrire raccolta
in pratici libercoli per l’uso rapido. Il nuovo arriva dall’estetica che,
fra il ‘700 e l’ ‘800, riceve il marchio d’autore dalle teorie dei filosofi
idealistici che nutrono il Romanticismo. Qui le idee sul bello diventano
elemento basilare per un giudizio sull’arte. Ed il bello, qui, è armonia,
equilibrio, accordo cromatico e tonale. L’arte e la poesia hanno questo
denominatore comune. La sua specificità può derivare solo dalle peculiarità
dell’artista che deve funzionare usando la sfera sensibile dell’intelletto
e non quella logico-razionale. Perché nell’estetica degli idealisti
e dei romantici, il piacere che viene dall’arte deve essere immediato ed
immediatamente recettibile. I primi risuoni si erano già uditi con Vico.
Egli aveva osservato che la poesia può essere colta nel preconscio
dell’uomo. Essa richiama per echi e sensazioni lo stato di natura,
l’inizio dei tempi. Quindi, sul piano storico, la poesia appartiene alle
epoche bambine dei popoli, mentre, sul piano filosofico, finisce in opposizione
ai meccanismi dell’intelletto di ragione. Di conseguenza la creatività
artistica, nella graduatoria degli strumenti utili alla conoscenza ed
all’emancipazione dell’uomo, occupa un posto irrilevante, ritrovandosi
nella preistoria dell’uomo. D’altro canto si può anche addivenire (vedi
Schelling, Novalis etc.) al concetto che il richiamo alle condizioni percettive
originarie che l’uomo aveva e che ha dimenticato per disuso,
siano le sole capaci di ricongiungere la relatività dell’io al suo assoluto
che può risalire dal suo inconscio. C’è la rivincita di Platone, ma c’è
anche la critica del giudizio di Emanuele Kant. A Carlino non sfugge
affatto la straordinaria modernità di quel filosofo. La dialettica alla base
del suo criticismo, implica l’idea del relativismo anche nel rapporto tra
soggetto ed oggetto. Perché il bello inseguito dal soggetto nelle cose, non
è nelle cose in sé. È il frutto di un rapporto di sintesi prodotto dopo l’incontro.
È la genialità di quel soggetto che produce l’arte. Quindi anche il

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gusto diventa qualcosa di relativo: una guida minima per il giudizio sull’arte.
Ora, essendo il Genio indefinibile, lo sarà anche il suo linguaggio:
così il suo prodotto artistico si vestirà di miracolo contagiando il pubblico
e modificandone il gusto. Nell’accezione idealistico-romantica il
Genio può apparire come colui che non ha bisogno d’altro se non di se
stesso per cui l’arte o la poesia che da lui deriva non ha bisogno d’altro,
né di studio, né di tirocinio. L’arte non s’apprende né si programma né si
costruisce seguendo regole oggettive dettate dal gusto. Tutto si risolve
nell’impatto tra Genio e mondo. Ad ogni modo, e sebbene Kant, ci si
rende conto ugualmente che, la Poetica, contenitore extralarge di
Aristotele, di questi tempi, si riduce di molte taglie fin quasi ad essere
completamente messa in angolo dall’estetica. A Carlino non sfugge neppure
l’interconnessione tra idealismo, romanticismo, gestazione dell’estetica
e processi socio-economici correnti. Le specializzazioni richieste
dal nuovo capitale nell’industria, ma più ancora, la filosofia mercantile,
investe anche l’arte e la letteratura. Cade la turris eburnea ed i frammenti
arrivano fino a noi. Certo è che l’estetica che sembra voler innalzare
l’arte, in verità le ritaglia uno spazio subordinato: prodotto dopolavoristico,
di dilettevole masturbazione, talvolta servile, impotente, pressoché
inutile. Tutto il Novecento è investito di questi problemi. L’estetica consolidata
dall’idealismo borghese fa sentire il suo peso anche nel
Novecento. Croce diventa l’ipse dixit di quel secolo da coerente mentore.
Persino un insospettabile marxiano come Lukács cadrà in qualche tentacolo
di quell’estetica. In Italia, infatti, il Novecento subisce un condizionamento
di fondo. Deriva dalla personalità di Croce e dalla sua connotazione
critico-filosofica che risente molto delle filosofie ideal-romantiche
pur se in lui si agghindano di un vestito nuovo. È il suo
Neoidealismo che ricalca tracce di pensiero ben consolidate e vincenti in
tutta Europa. In Italia, la letteratura istituzionalizzata, dalla produzione al
consumo, ha per lo più il marchio rassicurante di Croce dal momento che
esso ricalca il gusto medio e l’opinione corrente dei più sulle finalità della
letteratura. L’Estetica di Croce designa la poesia marcandone molto bene
i confini. Funzionale ad essa è l’intuizione che è un modo non ragionato
di conoscenza, il sentimento che è semplice elemento partecipativo e la
soggettività priva però dell’elemento speculativo-razionale. Tutto quello
che esce fuori da questi confini non appartiene alla poesia. Tutto quello
che sa di morale, di filosofico, di politico, di scientifico mette in fuga la
poesia. E Carlino, utilizza l’analisi che Croce fa della Commedia di
Dante, (come non potrebbe?) per evidenziare il paradosso poesia-non
poesia. Altresì utilizza la contestazione di un altro grande del
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Novecento, Antonio Gramsci, per mostrare come l’opera d’arte è un
insieme interdipendente, in quanto la struttura della Commedia, e cioè la
sua architettura filosofica, scientifica ed etica, è ineliminabile e condiziona
la poesia che di essa risplende. L’Estetica di Croce ritiene che
l’Arte risulta tale a tutti, è dentro ciascuno di noi, non occorre niente di
più perché il nostro inconscio l’ha ben digerita. Una tale concezione
mostra tutto il suo elemento conservativo giacché non prevede mutamenti
d’impasto per nuovi significati. Ma il Novecento non è solo Croce.
Già all’inizio del secolo l’officina dell’avanguardia storica mostra allergia
verso l’estetica del bello. Il futurismo esaltando la politica con l’arte,
il surrealismo utilizzando l’arte come strumento politico sono già al di
fuori dei suoi confini. Così, come sempre succede nelle azioni di contrasto,
si tende alla soppressione integrale di quello che si ritiene l’avversario
del momento. Ed in quel momento l’avversario è l’estetica e sempre
più cresce il desiderio di partecipare ai suoi funerali. Il filosofo tedesco
Walter Benjamin nel suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica del 1936 la mostra in due forme: cultura di massa
e avanguardia artistica; entrambe prive d’aura. Avendo con l’aura perso
anche l’aspetto sacrale, l’arte del ‘900 persegue l’obiettivo di cambiare la
vita quotidiana delle persone influenzandone il comportamento. L’arte
quindi diventa strumento di persuasione politica e come tale può essere
usata in senso progressista o conservatore.
In ogni caso, per la Poetica si aprono nuove prospettive. Anceschi
ricorre alla fenomenologia per farle perdere ogni pregiudizio di sapore
neoidealistico. Prende a guardare le forme della poesia nel loro manifestarsi,
mettendo mano ad una Poetica fenomenologica, senza pretese di
verità assolute, buona per dare un po’ d’ordine al caos. La sua fenomenologia
critica mette in discussione la stessa estetica non tanto rispetto
alle sue strutture che comunque tendono ad adeguarsi ai tempi, quanto
piuttosto, rispetto alla sua stessa esistenza come disciplina specifica della
contemporaneità. Hegel ha annunciato la morte dell’arte. Non è uguale
ma comporta inevitabilmente un risuono: vuoi vedere che è morta anche
l’estetica? Ecco perché Anceschi guarda ad un orizzonte entro cui le
esperienze possono essere comprese e tende a dotarsi di un metodo che
le relazioni, sottolineandone le differenze più delle somiglianze.
Insomma per Anceschi bisogna ritornare alle cose senza lasciarsi imbrigliare
da fascinose pronunce. Ne viene la centralità della poetica sia nella
letteratura sia nella critica ed anche l’eteronomia dell’arte. Con la critica
storicistica ed in particolare con De Sanctis, l’autonomia e l’eteronomia
dell’arte tendono a bilanciarsi perché è rappresentata da autori di grande


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personalità. Le ragioni storiche ed esistenziali del grande poeta e della
sua poesia sono sufficienti per assicurare l’equilibrio. Sono esse a spingere
critici come De Sanctis a continuamente riconsiderare la nozione di
poetica. La poetica dunque serve: ma deve essere esplicitamente dichiarata?
È il testo stesso? O deve essere ricavata da essa? Domande di difficile
risposta che, tuttavia, pongono al centro dell’attenzione sempre il
testo. E così nel ‘900 grazie a Luciano Anceschi ed a Binni, la poetica si
radica e segna i manuali di letteratura, i libri e la saggistica. Negli anni
’60, prospettandosi la rossa primavera, diventa rock, per dirla alla
Celentano, metterla nel proprio stato di famiglia; lento, rifiutarla. Quindi,
come si dice a Napoli, cà nisciuno è fesso, fa ò fesso. Così come avviene
con tutti i termini riconosciuti (vedi libertà, democrazia, giustizia etc.)
quasi nessuno la nega apertamente anche se, di fatto, spesso, essa non
realizza i miracoli che promette. Certamente la poetica può rivelarsi una
boccata d’ossigeno per la scrittura perché è imparentata più a motivi storici
che ad estri individuali. Oltre tutto, calata nella storia, e cioè nel linguaggio,
modificandone i connotati, provocherà la reazione della tradizione.
Dalla sintesi, in questa sorta di dialettica kantiana, sortirà una neo-tradizione.
Per certi versi, storicità della letteratura e poetica cammineranno
di pari passo. Infatti essa, pur rappresentando l’autonomia dell’arte
nella specificità dell’autore, ri-conoscendo il mondo nel suo svolgersi
e promuovendone uno nuovo e possibile grazie ai polisensi, riconduce il
testo alla storia ed entra nei meccanismi di comunicazione dell’uomo. Da
qui la conclusione di Carlino: si delineano due poetiche, una da parte di
chi produce il testo, un’altra da quella dell’interprete. Io ne aggiungerei
almeno una terza: quella rilevante dell’elastico esistente tra poetica esplicita
e testo prodotto. Ad ogni modo la poetica prende le distanze
dall’Estetica che si affaccia come filosofia dell’arte. Era apparsa come un
modo di ragionare sul bello ed il testo era considerato una sorta di miracolo
dell’estro. Buona parte di quei progressisti di cui sopra, la considera
un modo di ragionare dell’arte a prescindere dal bello. In tal modo il
testo può essere visto e considerato una realtà con più sfaccettature.
L’Estetica costruita da Galvano Della Volpe è quella che più intriga
Carlino. Perché nasce dal marxismo intelligente in combutta con alcuni
elementi tipici dello strutturalismo. Il perno principale è il testo nella sua
struttura funzionale. Pensate un po’, anche Della Volpe parte dall’ ipse
dixit e riconosce una capacità gnoseologica al testo poetico. Ed è una
capacità non da poco, certamente non di serie “B” anche se il processo di
realizzazione risulta differente. Perché Della Volpe è convinto che tutte le
attività conoscitive dell’uomo includono un concorso biunivoco di fantasia

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e ragione: anche nella filosofia, persino nella scienza. In fondo, quante
scoperte scientifiche poi sperimentate, nascono dall’immaginazione
intuitiva? Quindi scienza, filosofia e letteratura pari sono. Non c’è distinzione
ontologica: la letteratura non è solo immaginazione, la scienza non
è solo ragione. Le differenze sono solo funzionali. In letteratura il modo
di conoscere funziona diversamente dalle altre discipline in quanto realizza
un testo con una sua peculiarità che è data dal senso arricchito,
come dire, surriscaldato. Il testo si fa corpo unico i cui vari organi svolgono
mansioni specifiche ma funzionali nella costruzione di un senso
sovraesposto, pieno di risuoni. Tutto partecipa, tutto è essenziale, tutto
vive per questo. Questo è il polisenso e Carlino dice che anch’esso è soggetto
alla storia, è una sorta di astrazione che muterebbe in un contesto
differente. È legato alla langue ed ad un soggetto che vuole designare e
modellare e, talvolta, può costruire architetture straordinarie. E ripristina
luoghi di autocoscienza sia per gli autori che per i lettori. Certo, nel polisenso
c’è l’arbitrarietà del rapporto tra significante e significato, tra langue
e parole, e c’è il piano della comunicazione. Questo comporta un
equilibrio delle forze in campo: non c’è solo l’espressione che urge per
dirsi. I componenti letterari non sono solo linguistici. Lo stesso linguaggio
è polifunzionale e le scienze della comunicazione mostrano come un
testo pubblico risulti un dosaggio al meglio di tutte le funzioni del linguaggio
per la migliore resa, per meglio persuadere. Anche il testo letterario
mira a questo e quindi non può accontentarsi della sola funzione
poetica del linguaggio. Tutte, dico tutte le funzioni sono parte in causa
anche la metalinguistica. Anche perché, dice Carlino, è denominatore
comune sia della scienza che della letteratura. Procede per metalinguaggio
la scienza, per metalinguaggio il testo letterario, per metalinguaggio
anche la critica che ri-conosce un linguaggio con il suo linguaggio.
Attenzione però. Il metalinguaggio di arte e letteratura può scivolare
come Narciso sul greto della fonte e specchiarsi ed innamorarsi di sé. Si
finisce per imbellettare il belletto. Può però produrre un risuono del linguaggio
in modo tale da rinnovarlo e rivitalizzarlo. Come potrebbe altrimenti
un’opera antica superare i secoli e parlarci ancora? Ad ogni modo
non si può prescindere dal testo con il suo polisenso costruito nella tensione
conoscitiva di un mondo mediato. E bisogna ringraziare Jakobson
ed i formalisti russi che studiarono scientificamente la letteratura se
anche noi possiamo coglierne l’elemento teorico.
Ed ecco che Carlino, con uno scarto da par suo, ci porta sul piano pratico
per mostrarci come sia possibile un metodo scientifico di valutazione
della, diciamo così, meccanica dell’arte all’interno della comunicazione


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autore-fruitore. Carlino avanza per gradi, ma io, anche per invitarvi
a leggerlo, non vi dirò tutto. Vi mostrerò come egli avanza nella sua
lettura critica dei Canti Orfici di Campana. Mi piace mostrarla anche perché
la trovo davvero sorprendente. In più, Campana è il mio poeta.
Stabiliamo alcune sigle: E=Estetica; LT=Teoria della letteratura;
P(a)=Poetica proveniente dall’autore; T=Testo; Ts=Semantica del testo;
P(a,l)=Poetica dell’autore ricavata dal lettore); P(l )=Poetica del lettore.
Andiamo ai “Canti Orfici” secondo Carlino: nel corpo degli scritti di
Campana è possibile ricavare una poetica esplicitata che mostra un programma
d’arte che si motiva dentro il contesto storico del primo novecento.
Esso è fortemente mediato dalla storia individuale dell’autore.
Questi vuole un testo in cui ci sia il senso più profondo del vivere, un
testo che fonda le arti e che vada oltre la soglia della sua funzione di rappresentazione.
Questa è la P(a). Una tale poetica, dice Carlino, riporta ad
un’estetica di tipo wagneriano, dove l’arte è pensata per riscattare la sua
separatezza grazie al fatto che il poeta di Marradi insegue un sogno di
potenza che probabilmente gli viene da Nietzsche. Questa è la Estetica di
marca autoriale=E. Sempre secondo Carlino, la letteratura, è, di fatto, per
Campana, di marca d’avanguardia, perché Campana è tutto votato alla
sua opera a prescindere dalla sua rappresentabilità. Egli caricando le
immagini fino al parossismo, le mette in tensione frantumandole. Questa
è LT=Teoria della letteratura da parte dell’autore. Ovviamente, il polisenso
che viene da un testo (T) così costruito e la sua semanticità T(s),
suggeriscono al critico Carlino la persistenza di una tensione che squilibra
e inabissa le strutture iniziatiche dell’opera, provocando uno scorrere
delle immagini prima precarie poi violentemente travolte, tanto da
penetrarsi ed interfacciarsi come in una figurazione astratta. Tutto questo
convince il critico Carlino ed anche me per la verità, che Campana appartiene
ad una diversa linea dell’Avanguardia la quale coglie non il trionfalismo
futurista ma una crisi che non è rappresentata ma è dentro la scrittura
e sulla pelle dell’autore che insegue un sogno esaltante, che lo porta
a volare alto per farlo poi rovinare ogni volta giù, sempre alla ricerca di
quell’impasto totalizzante. È sperimentazione da integralista e perciò
disperata. Questa è la P(a,l)=Poetica mediata fra autore e lettore. C’è da
aggiungere che Carlino non rappresenta un campo di forze isolato, per
cui porterà con sé una sua poetica ed una sua estetica. Quindi, ecco la formula
in sequenza: E_LT_P(a)_T_Ts_P(a,l)_P(l)_LT_E.
È convincente Carlino e convincente è anche la sua poetica che parte
dalla considerazione del degrado in cui versa società e letteratura. Pensa
alla letteratura come strumento di resistenza ad ogni tipo di degrado. La


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sua non è la poetica della resa al postmoderno che annuncia il nulla. In
una società in cui i codici si fanno aleatori, la letteratura deve dotarsene
per evitare di farsi yogurt e per aiutare la società a ripristinarli. Quindi la
forma letteraria per Carlino, essendo anch’essa una forma di comunicazione,
deve dotarsi di questo codice, vivaddio, che la renda collegata alla
langue e cioè ad un repertorio posseduto o controllabile. Deve tendere
alla consapevolezza ed alla conoscenza. Deve tendere a contrastare l’apparato
di produzione esistente istruendo il sapere e la sua critica. Per
Carlino non c’è niente di sacro in letteratura. I fiori del male hanno spazzato
via il concetto del bello e dell’incanto. C’è il moderno e la sua mercificazione.
C’è il gusto indotto dall’industria editoriale, il disincanto, e
la necessità d’insubordinazione. La letteratura per Carlino deve schierarsi,
politicizzarsi, rendersi utile. Affinare il linguaggio, fare in modo che il
testo con il suo polisenso sviluppi il risveglio nella consapevolezza dei
suoi limiti. L’allegoria è una delle chiavi. Come ci si potrebbe schierare
contro queste cose?
Ho cercato di essere il più vicino possibile al testo di Carlino che condivido
integralmente a parte qualche minima considerazione più legata al
transeunte che alla sostanza. Permettetemi di dire, però, qualcosina. Le
vicende della vita mi hanno spinto all’essenzialità della ragion pratica.
Vediamo un po’: l’uomo è diverso dal cavallo perché intelligente, cioè
pensa. È uomo anche il poeta. Anche lui intelligente. L’intelletto ha una
meccanica funzionale che corrisponde, fondamentalmente a tre modi,
ma, attenzione, la distinzione è solo descrittiva perché l’intelletto è uno
solo: senso, ragione e amore. Ciò che distingue il conoscere della poesia
e cioè un testo di poesia da un altro qualsiasi testo, è il maggior grado di
senso e di amore che investe la ragione e informa il testo. Da qui la
semantica ed i polisensi. Insisto, l’intelletto del poeta è uno solo ed è
unico come quello del filosofo e dell’uomo di scienza. Quindi non tutti
gli intelletti hanno neuroni della stessa razza e qualità. Tutto qui. Io credo
che anche i poeti subordinati pensano. Altro che se pensano! Dunque
auguriamoci una poesia che conosca e non una che pensi.
(Testo pubblicato nel libro quarantatresimo di SECONDO TEMPO Marcus Edizione (NA))

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