Pubblicato il 24/10/2011 16:46:23
Il Mattino di oggi 19 agosto 2011 scrive che alla borsa di Milano c’è stato panico. Alla fine della giornata l’indice Mib ha segnato -6,15%. Il governo è tutto preso a rastrellare risorse per una manovra che possa allontanare lo spettro del default. Se ne dicono tante, si paventa un ulteriore sacrificio per i soliti noti: i meno forti, come i lavoratori dipendenti, i pensionati ed i malati. A qualche ministro potrebbe venire in mente l’idea di una novella rupe Tarpea, magari in ogni città. A Bacoli, ad esempio, si potrebbe utilizzare il castello. Basterebbe uno scivolo, aprendo un varco nella muraglia di cinta che dà sul mare: si risolverebbe il problema degli invalidi della zona con un discreto risparmio. Qui a Terzigno c’è la discarica ed il cratere del Vesuvio. Un ministro più scaltro degli altri ha lanciato l’idea di risparmiare sulla cultura, perché ha detto: «non dà da mangiare». Ecco, io devo parlare del saggio di Marcello Carlino, Poetica, uscito per i tipi di Guida Editore Napoli, 2011. A sentire il ministro dovrei quasi vergognarmene visto che né il libro, né questo scritto potrà dare ossigeno alla borsa di Milano. Il guaio di questa compagnia di postmoderni prestati alla politica è la convinzione che i bisogni siano localizzabili dal ventre in giù. Altro, è lusso senza richiamo di mercato. Occorrerebbe una seria ricerca delle radici del degrado in cui si va crogiolando l’intera civiltà occidentale, con un occhio particolare alle zolle italiche. Forse si scoprirebbero strane cose, come la banalizzazione della conoscenza con relativo abbrutimento intellettivo insieme alla rinuncia del ruolo che l’arte avrebbe potuto avere nella formazione del gusto estetico ed anche e quindi nella indicazione di un modello di ricostruzione etica dell’uomo e della sua posizione nel mondo, perché il mondo non è il mercato. Ecco perché, proprio oggi, sento di dover parlare di questo librettino di 118 pagine, che Marcello Carlino, da par suo, ha reso denso, grazie ad una scrittura, come dire, pastosa ed elegante; ma anche sostanzioso, per la ricchezza di notizie e suggerimenti utili agli addetti ai lavori ed anche ai lettori di buona volontà. Inizia, come tutti, da Aristotele che definisce l’Arte imitazione. Sottolinea la matrice antiplatonica di quella poetica che ridà cittadinanza alla poesia che invece Platone aveva messo fuori dalla sua Politéia . Perché Aristotele ritiene che essa abbia nel suo DNA un impulso forte, uno stimolo a cercare la verità, essendo l’uomo spinto
36 all’imitazione dall’intenso piacere che ne ricava. Ancora bambino, utilizza la madre ed il padre come elementi catalizzatori per le prime conoscenze. Essi diventano il primo mezzo di trasporto gnoseologico. Vorrei far notare che, probabilmente, il fatto che l’uomo provi piacere ad imitare, derivi dalle iniziali esperienze preriscaldate da quel carnale legame parentale. Da ciò deriva, per la poesia, un’azione imitativa che, surriscaldando di piacere l’intelletto, lo pone davanti al reale per suggerne non la sua relatività specifica ma la sua verisimiglianza, il suo modo d’essere o il suo divenire potenziale. Questo può la poesia e con questo finalizzare la sua tensione conoscitiva fino al raggiungimento dell’universale grazie alla verisimiglianza alla verità, quella possibile che un testo poetico può produrre. Nella poesia e nella musica, per Aristotele, c’è addirittura la catarsi. Potrebbe intendersi, Aristotele non lo dice esplicitamente, il luogo dove l’emozione più che abolita, si sterilizza esaltandosi. Nell’arte, infatti, lo sguardo dell’uomo perde il suo orizzonte visivo limitato dal semplice rapporto d’amore, odio, timore, speranza e si dilata, grazie alla catarsi, in una visione che, distogliendo il suo occhio dall’oggetto con cui entra in relazione, lo ripropone nell’espressione della sua emozione rappresentata. Un altro aspetto della Poetica di Aristotele sottolineato da Carlino è quello che egli definisce “Poetica tutto fare”. In quel concetto c’è la sintesi di tre aspetti che noi moderni amiamo distinguere in estetica, teoria della letteratura e critica letteraria. Sono aspetti però subentranti, derivano dal testo poetico, dal suo humus. È curioso, ma anche lampante, il motivo per cui Marcello Carlino dedica in questo libro, tutto un capitolo di spigolature sull’etimo e la storia che richiama la parola poetica. Inizia dal lemma greco poiéin (fare), passa attraverso la radice sanscrita pu da cui germinerebbe il poiéin nella sua accezione di generare. Tutto questo perché Egli ha bisogno comunque di un elemento che renda l’azione del poetare simile al germogliare in natura, un atto creativo legato alla febbrilità del faber, quel modellatore di parole che spinto dalla sua febbre operativa si fa sempre più esperto. Passa poi ad osservare come, sotto il nome di poetica, specialmente nel sedicesimo secolo con qualche sparuta eccezione, germoglino trattatelli che per la maggior parte tendono alla semplificazione, assemblando prescrizioni e istituendo precetti e classifiche. E così, la Poetica di Aristotele fra il Cinquecento e il Seicento, subisce una dieta ferrea che con i generi si riduce a stilistica. In tal modo la letteratura rinuncia ai suoi talenti conoscitivi e proiettivi limitandosi a realizzare il già convenuto. In 37
Aristotele, teoria e prassi sono inscindibili e realizzano un rapporto biunivoco assai utile. Man mano che la teoria dimagrisce, si gonfia la prassi che si adatta alle logiche di potere, predisponendosi ai futuri cambiamenti ed al mercato. Quando il filosofo tedesco Baumgarten nelle sue Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus concepì l’estetica definendola poi in modo organico tra il 1750 ed il 1758 nell’opera omonima, i tempi erano ormai maturi. Nelle sue riflessioni egli la liberò dalla poetica consegnandole il compito della filosofia dell’arte. Con l’inizio della rivoluzione industriale e l’assunzione a ruolo dirigente della nuova classe borghese e commerciale, una cultura nuova invade l’Europa ed essa e di essa quella classe nutre e si nutre. La poetica continua a dimagrire raccolta in pratici libercoli per l’uso rapido. Il nuovo arriva dall’estetica che, fra il ‘700 e l’ ‘800, riceve il marchio d’autore dalle teorie dei filosofi idealistici che nutrono il Romanticismo. Qui le idee sul bello diventano elemento basilare per un giudizio sull’arte. Ed il bello, qui, è armonia, equilibrio, accordo cromatico e tonale. L’arte e la poesia hanno questo denominatore comune. La sua specificità può derivare solo dalle peculiarità dell’artista che deve funzionare usando la sfera sensibile dell’intelletto e non quella logico-razionale. Perché nell’estetica degli idealisti e dei romantici, il piacere che viene dall’arte deve essere immediato ed immediatamente recettibile. I primi risuoni si erano già uditi con Vico. Egli aveva osservato che la poesia può essere colta nel preconscio dell’uomo. Essa richiama per echi e sensazioni lo stato di natura, l’inizio dei tempi. Quindi, sul piano storico, la poesia appartiene alle epoche bambine dei popoli, mentre, sul piano filosofico, finisce in opposizione ai meccanismi dell’intelletto di ragione. Di conseguenza la creatività artistica, nella graduatoria degli strumenti utili alla conoscenza ed all’emancipazione dell’uomo, occupa un posto irrilevante, ritrovandosi nella preistoria dell’uomo. D’altro canto si può anche addivenire (vedi Schelling, Novalis etc.) al concetto che il richiamo alle condizioni percettive originarie che l’uomo aveva e che ha dimenticato per disuso, siano le sole capaci di ricongiungere la relatività dell’io al suo assoluto che può risalire dal suo inconscio. C’è la rivincita di Platone, ma c’è anche la critica del giudizio di Emanuele Kant. A Carlino non sfugge affatto la straordinaria modernità di quel filosofo. La dialettica alla base del suo criticismo, implica l’idea del relativismo anche nel rapporto tra soggetto ed oggetto. Perché il bello inseguito dal soggetto nelle cose, non è nelle cose in sé. È il frutto di un rapporto di sintesi prodotto dopo l’incontro. È la genialità di quel soggetto che produce l’arte. Quindi anche il
38 gusto diventa qualcosa di relativo: una guida minima per il giudizio sull’arte. Ora, essendo il Genio indefinibile, lo sarà anche il suo linguaggio: così il suo prodotto artistico si vestirà di miracolo contagiando il pubblico e modificandone il gusto. Nell’accezione idealistico-romantica il Genio può apparire come colui che non ha bisogno d’altro se non di se stesso per cui l’arte o la poesia che da lui deriva non ha bisogno d’altro, né di studio, né di tirocinio. L’arte non s’apprende né si programma né si costruisce seguendo regole oggettive dettate dal gusto. Tutto si risolve nell’impatto tra Genio e mondo. Ad ogni modo, e sebbene Kant, ci si rende conto ugualmente che, la Poetica, contenitore extralarge di Aristotele, di questi tempi, si riduce di molte taglie fin quasi ad essere completamente messa in angolo dall’estetica. A Carlino non sfugge neppure l’interconnessione tra idealismo, romanticismo, gestazione dell’estetica e processi socio-economici correnti. Le specializzazioni richieste dal nuovo capitale nell’industria, ma più ancora, la filosofia mercantile, investe anche l’arte e la letteratura. Cade la turris eburnea ed i frammenti arrivano fino a noi. Certo è che l’estetica che sembra voler innalzare l’arte, in verità le ritaglia uno spazio subordinato: prodotto dopolavoristico, di dilettevole masturbazione, talvolta servile, impotente, pressoché inutile. Tutto il Novecento è investito di questi problemi. L’estetica consolidata dall’idealismo borghese fa sentire il suo peso anche nel Novecento. Croce diventa l’ipse dixit di quel secolo da coerente mentore. Persino un insospettabile marxiano come Lukács cadrà in qualche tentacolo di quell’estetica. In Italia, infatti, il Novecento subisce un condizionamento di fondo. Deriva dalla personalità di Croce e dalla sua connotazione critico-filosofica che risente molto delle filosofie ideal-romantiche pur se in lui si agghindano di un vestito nuovo. È il suo Neoidealismo che ricalca tracce di pensiero ben consolidate e vincenti in tutta Europa. In Italia, la letteratura istituzionalizzata, dalla produzione al consumo, ha per lo più il marchio rassicurante di Croce dal momento che esso ricalca il gusto medio e l’opinione corrente dei più sulle finalità della letteratura. L’Estetica di Croce designa la poesia marcandone molto bene i confini. Funzionale ad essa è l’intuizione che è un modo non ragionato di conoscenza, il sentimento che è semplice elemento partecipativo e la soggettività priva però dell’elemento speculativo-razionale. Tutto quello che esce fuori da questi confini non appartiene alla poesia. Tutto quello che sa di morale, di filosofico, di politico, di scientifico mette in fuga la poesia. E Carlino, utilizza l’analisi che Croce fa della Commedia di Dante, (come non potrebbe?) per evidenziare il paradosso poesia-non poesia. Altresì utilizza la contestazione di un altro grande del 39 Novecento, Antonio Gramsci, per mostrare come l’opera d’arte è un insieme interdipendente, in quanto la struttura della Commedia, e cioè la sua architettura filosofica, scientifica ed etica, è ineliminabile e condiziona la poesia che di essa risplende. L’Estetica di Croce ritiene che l’Arte risulta tale a tutti, è dentro ciascuno di noi, non occorre niente di più perché il nostro inconscio l’ha ben digerita. Una tale concezione mostra tutto il suo elemento conservativo giacché non prevede mutamenti d’impasto per nuovi significati. Ma il Novecento non è solo Croce. Già all’inizio del secolo l’officina dell’avanguardia storica mostra allergia verso l’estetica del bello. Il futurismo esaltando la politica con l’arte, il surrealismo utilizzando l’arte come strumento politico sono già al di fuori dei suoi confini. Così, come sempre succede nelle azioni di contrasto, si tende alla soppressione integrale di quello che si ritiene l’avversario del momento. Ed in quel momento l’avversario è l’estetica e sempre più cresce il desiderio di partecipare ai suoi funerali. Il filosofo tedesco Walter Benjamin nel suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del 1936 la mostra in due forme: cultura di massa e avanguardia artistica; entrambe prive d’aura. Avendo con l’aura perso anche l’aspetto sacrale, l’arte del ‘900 persegue l’obiettivo di cambiare la vita quotidiana delle persone influenzandone il comportamento. L’arte quindi diventa strumento di persuasione politica e come tale può essere usata in senso progressista o conservatore. In ogni caso, per la Poetica si aprono nuove prospettive. Anceschi ricorre alla fenomenologia per farle perdere ogni pregiudizio di sapore neoidealistico. Prende a guardare le forme della poesia nel loro manifestarsi, mettendo mano ad una Poetica fenomenologica, senza pretese di verità assolute, buona per dare un po’ d’ordine al caos. La sua fenomenologia critica mette in discussione la stessa estetica non tanto rispetto alle sue strutture che comunque tendono ad adeguarsi ai tempi, quanto piuttosto, rispetto alla sua stessa esistenza come disciplina specifica della contemporaneità. Hegel ha annunciato la morte dell’arte. Non è uguale ma comporta inevitabilmente un risuono: vuoi vedere che è morta anche l’estetica? Ecco perché Anceschi guarda ad un orizzonte entro cui le esperienze possono essere comprese e tende a dotarsi di un metodo che le relazioni, sottolineandone le differenze più delle somiglianze. Insomma per Anceschi bisogna ritornare alle cose senza lasciarsi imbrigliare da fascinose pronunce. Ne viene la centralità della poetica sia nella letteratura sia nella critica ed anche l’eteronomia dell’arte. Con la critica storicistica ed in particolare con De Sanctis, l’autonomia e l’eteronomia dell’arte tendono a bilanciarsi perché è rappresentata da autori di grande
40 personalità. Le ragioni storiche ed esistenziali del grande poeta e della sua poesia sono sufficienti per assicurare l’equilibrio. Sono esse a spingere critici come De Sanctis a continuamente riconsiderare la nozione di poetica. La poetica dunque serve: ma deve essere esplicitamente dichiarata? È il testo stesso? O deve essere ricavata da essa? Domande di difficile risposta che, tuttavia, pongono al centro dell’attenzione sempre il testo. E così nel ‘900 grazie a Luciano Anceschi ed a Binni, la poetica si radica e segna i manuali di letteratura, i libri e la saggistica. Negli anni ’60, prospettandosi la rossa primavera, diventa rock, per dirla alla Celentano, metterla nel proprio stato di famiglia; lento, rifiutarla. Quindi, come si dice a Napoli, cà nisciuno è fesso, fa ò fesso. Così come avviene con tutti i termini riconosciuti (vedi libertà, democrazia, giustizia etc.) quasi nessuno la nega apertamente anche se, di fatto, spesso, essa non realizza i miracoli che promette. Certamente la poetica può rivelarsi una boccata d’ossigeno per la scrittura perché è imparentata più a motivi storici che ad estri individuali. Oltre tutto, calata nella storia, e cioè nel linguaggio, modificandone i connotati, provocherà la reazione della tradizione. Dalla sintesi, in questa sorta di dialettica kantiana, sortirà una neo-tradizione. Per certi versi, storicità della letteratura e poetica cammineranno di pari passo. Infatti essa, pur rappresentando l’autonomia dell’arte nella specificità dell’autore, ri-conoscendo il mondo nel suo svolgersi e promuovendone uno nuovo e possibile grazie ai polisensi, riconduce il testo alla storia ed entra nei meccanismi di comunicazione dell’uomo. Da qui la conclusione di Carlino: si delineano due poetiche, una da parte di chi produce il testo, un’altra da quella dell’interprete. Io ne aggiungerei almeno una terza: quella rilevante dell’elastico esistente tra poetica esplicita e testo prodotto. Ad ogni modo la poetica prende le distanze dall’Estetica che si affaccia come filosofia dell’arte. Era apparsa come un modo di ragionare sul bello ed il testo era considerato una sorta di miracolo dell’estro. Buona parte di quei progressisti di cui sopra, la considera un modo di ragionare dell’arte a prescindere dal bello. In tal modo il testo può essere visto e considerato una realtà con più sfaccettature. L’Estetica costruita da Galvano Della Volpe è quella che più intriga Carlino. Perché nasce dal marxismo intelligente in combutta con alcuni elementi tipici dello strutturalismo. Il perno principale è il testo nella sua struttura funzionale. Pensate un po’, anche Della Volpe parte dall’ ipse dixit e riconosce una capacità gnoseologica al testo poetico. Ed è una capacità non da poco, certamente non di serie “B” anche se il processo di realizzazione risulta differente. Perché Della Volpe è convinto che tutte le attività conoscitive dell’uomo includono un concorso biunivoco di fantasia 41 e ragione: anche nella filosofia, persino nella scienza. In fondo, quante scoperte scientifiche poi sperimentate, nascono dall’immaginazione intuitiva? Quindi scienza, filosofia e letteratura pari sono. Non c’è distinzione ontologica: la letteratura non è solo immaginazione, la scienza non è solo ragione. Le differenze sono solo funzionali. In letteratura il modo di conoscere funziona diversamente dalle altre discipline in quanto realizza un testo con una sua peculiarità che è data dal senso arricchito, come dire, surriscaldato. Il testo si fa corpo unico i cui vari organi svolgono mansioni specifiche ma funzionali nella costruzione di un senso sovraesposto, pieno di risuoni. Tutto partecipa, tutto è essenziale, tutto vive per questo. Questo è il polisenso e Carlino dice che anch’esso è soggetto alla storia, è una sorta di astrazione che muterebbe in un contesto differente. È legato alla langue ed ad un soggetto che vuole designare e modellare e, talvolta, può costruire architetture straordinarie. E ripristina luoghi di autocoscienza sia per gli autori che per i lettori. Certo, nel polisenso c’è l’arbitrarietà del rapporto tra significante e significato, tra langue e parole, e c’è il piano della comunicazione. Questo comporta un equilibrio delle forze in campo: non c’è solo l’espressione che urge per dirsi. I componenti letterari non sono solo linguistici. Lo stesso linguaggio è polifunzionale e le scienze della comunicazione mostrano come un testo pubblico risulti un dosaggio al meglio di tutte le funzioni del linguaggio per la migliore resa, per meglio persuadere. Anche il testo letterario mira a questo e quindi non può accontentarsi della sola funzione poetica del linguaggio. Tutte, dico tutte le funzioni sono parte in causa anche la metalinguistica. Anche perché, dice Carlino, è denominatore comune sia della scienza che della letteratura. Procede per metalinguaggio la scienza, per metalinguaggio il testo letterario, per metalinguaggio anche la critica che ri-conosce un linguaggio con il suo linguaggio. Attenzione però. Il metalinguaggio di arte e letteratura può scivolare come Narciso sul greto della fonte e specchiarsi ed innamorarsi di sé. Si finisce per imbellettare il belletto. Può però produrre un risuono del linguaggio in modo tale da rinnovarlo e rivitalizzarlo. Come potrebbe altrimenti un’opera antica superare i secoli e parlarci ancora? Ad ogni modo non si può prescindere dal testo con il suo polisenso costruito nella tensione conoscitiva di un mondo mediato. E bisogna ringraziare Jakobson ed i formalisti russi che studiarono scientificamente la letteratura se anche noi possiamo coglierne l’elemento teorico. Ed ecco che Carlino, con uno scarto da par suo, ci porta sul piano pratico per mostrarci come sia possibile un metodo scientifico di valutazione della, diciamo così, meccanica dell’arte all’interno della comunicazione
42 autore-fruitore. Carlino avanza per gradi, ma io, anche per invitarvi a leggerlo, non vi dirò tutto. Vi mostrerò come egli avanza nella sua lettura critica dei Canti Orfici di Campana. Mi piace mostrarla anche perché la trovo davvero sorprendente. In più, Campana è il mio poeta. Stabiliamo alcune sigle: E=Estetica; LT=Teoria della letteratura; P(a)=Poetica proveniente dall’autore; T=Testo; Ts=Semantica del testo; P(a,l)=Poetica dell’autore ricavata dal lettore); P(l )=Poetica del lettore. Andiamo ai “Canti Orfici” secondo Carlino: nel corpo degli scritti di Campana è possibile ricavare una poetica esplicitata che mostra un programma d’arte che si motiva dentro il contesto storico del primo novecento. Esso è fortemente mediato dalla storia individuale dell’autore. Questi vuole un testo in cui ci sia il senso più profondo del vivere, un testo che fonda le arti e che vada oltre la soglia della sua funzione di rappresentazione. Questa è la P(a). Una tale poetica, dice Carlino, riporta ad un’estetica di tipo wagneriano, dove l’arte è pensata per riscattare la sua separatezza grazie al fatto che il poeta di Marradi insegue un sogno di potenza che probabilmente gli viene da Nietzsche. Questa è la Estetica di marca autoriale=E. Sempre secondo Carlino, la letteratura, è, di fatto, per Campana, di marca d’avanguardia, perché Campana è tutto votato alla sua opera a prescindere dalla sua rappresentabilità. Egli caricando le immagini fino al parossismo, le mette in tensione frantumandole. Questa è LT=Teoria della letteratura da parte dell’autore. Ovviamente, il polisenso che viene da un testo (T) così costruito e la sua semanticità T(s), suggeriscono al critico Carlino la persistenza di una tensione che squilibra e inabissa le strutture iniziatiche dell’opera, provocando uno scorrere delle immagini prima precarie poi violentemente travolte, tanto da penetrarsi ed interfacciarsi come in una figurazione astratta. Tutto questo convince il critico Carlino ed anche me per la verità, che Campana appartiene ad una diversa linea dell’Avanguardia la quale coglie non il trionfalismo futurista ma una crisi che non è rappresentata ma è dentro la scrittura e sulla pelle dell’autore che insegue un sogno esaltante, che lo porta a volare alto per farlo poi rovinare ogni volta giù, sempre alla ricerca di quell’impasto totalizzante. È sperimentazione da integralista e perciò disperata. Questa è la P(a,l)=Poetica mediata fra autore e lettore. C’è da aggiungere che Carlino non rappresenta un campo di forze isolato, per cui porterà con sé una sua poetica ed una sua estetica. Quindi, ecco la formula in sequenza: E_LT_P(a)_T_Ts_P(a,l)_P(l)_LT_E. È convincente Carlino e convincente è anche la sua poetica che parte dalla considerazione del degrado in cui versa società e letteratura. Pensa alla letteratura come strumento di resistenza ad ogni tipo di degrado. La 43 sua non è la poetica della resa al postmoderno che annuncia il nulla. In una società in cui i codici si fanno aleatori, la letteratura deve dotarsene per evitare di farsi yogurt e per aiutare la società a ripristinarli. Quindi la forma letteraria per Carlino, essendo anch’essa una forma di comunicazione, deve dotarsi di questo codice, vivaddio, che la renda collegata alla langue e cioè ad un repertorio posseduto o controllabile. Deve tendere alla consapevolezza ed alla conoscenza. Deve tendere a contrastare l’apparato di produzione esistente istruendo il sapere e la sua critica. Per Carlino non c’è niente di sacro in letteratura. I fiori del male hanno spazzato via il concetto del bello e dell’incanto. C’è il moderno e la sua mercificazione. C’è il gusto indotto dall’industria editoriale, il disincanto, e la necessità d’insubordinazione. La letteratura per Carlino deve schierarsi, politicizzarsi, rendersi utile. Affinare il linguaggio, fare in modo che il testo con il suo polisenso sviluppi il risveglio nella consapevolezza dei suoi limiti. L’allegoria è una delle chiavi. Come ci si potrebbe schierare contro queste cose? Ho cercato di essere il più vicino possibile al testo di Carlino che condivido integralmente a parte qualche minima considerazione più legata al transeunte che alla sostanza. Permettetemi di dire, però, qualcosina. Le vicende della vita mi hanno spinto all’essenzialità della ragion pratica. Vediamo un po’: l’uomo è diverso dal cavallo perché intelligente, cioè pensa. È uomo anche il poeta. Anche lui intelligente. L’intelletto ha una meccanica funzionale che corrisponde, fondamentalmente a tre modi, ma, attenzione, la distinzione è solo descrittiva perché l’intelletto è uno solo: senso, ragione e amore. Ciò che distingue il conoscere della poesia e cioè un testo di poesia da un altro qualsiasi testo, è il maggior grado di senso e di amore che investe la ragione e informa il testo. Da qui la semantica ed i polisensi. Insisto, l’intelletto del poeta è uno solo ed è unico come quello del filosofo e dell’uomo di scienza. Quindi non tutti gli intelletti hanno neuroni della stessa razza e qualità. Tutto qui. Io credo che anche i poeti subordinati pensano. Altro che se pensano! Dunque auguriamoci una poesia che conosca e non una che pensi. (Testo pubblicato nel libro quarantatresimo di SECONDO TEMPO Marcus Edizione (NA))
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