Pubblicato il 23/10/2009 19:42:00
Ecco finalmente rivelato “Il Vangelo secondo Pilato”, come recita il sottotitolo, ma di supposizioni, si tratta, e non di Scritture finalmente ritrovate. In realtà proprio da questo sottotitolo si mette in moto la poderosa macchina narrativa costruita a quattro mani dal Colli e dal Rizzo. E visto che le mani sono state quattro, il romanzo doveva essere almeno doppio, ed infatti lo è: una parte è ambientata ai giorni nostri e l’altra, ovviamente, ai giorni in cui Ponzio Pilato era in vita. L’intreccio tra i due piani è semplice, ma assai ben costruito, un gruppo di archeologi ritrova il relitto di una nave romana e tra i reperti vi è un’anfora con dei semplici oggetti ed una misteriosa poltiglia che altro non è se non una lettera inviata da Pilato alla figlia. Appena il lettore apprende del ritrovamento, prima ancora di sapere cosa è stato trovato nella nave, viene catapultato al cospetto di Ponzio Pilato, ad Atene dove sta accompagnando la famiglia per poi continuare il suo viaggio verso Roma, dove l’attende un nuovo incarico, voluto per lui da Caligola in persona. Pilato viene mandato in Gallia, dove rischia la vita a causa del brutto tempo e in seguito a ciò decide di stabilirsi a Cirene, sulla costa africana. Qui conduce una tranquilla ed agiata vita, lontano dall’amata figlia, la quale struggendosi di nostalgia per il padre decide di affidare una lettera all’equipaggio di una nave. Quando Pilato, leggendo la missiva, viene a sapere che la figlia sta per abbracciare la nuova fede che si stava diffondendo in quegli anni lungo l’Impero Romano, non può fare a meno di ricordare che proprio lui è considerato l’assassino del Cristo. I suoi ricordi vanno a quegli anni, a Gerusalemme, quando tentò di tutto per salvare quel giovane dall’aria mite ma accusato di essere un sobillatore di folle. Pilato rivede, nitidamente, la folla inferocita che gli chiede di crocifiggere quell’uomo, forse aizzata dal Gran Sacerdote. La Storia fa il suo corso, gli avvenimenti, ben noti, accadono e Pilato racconta tutto ciò alla figlia perché percepisce un velo d’acredine che ella respira tra i seguaci della nuova fede. Purtroppo la figlia non vedrà mai la lettera a causa del naufragio della nave che la trasporta. E a questo punto riecco i nostri archeologi, che ritrovano l’anfora in cui Pilato ha messo la lettera, ma non riescono a decifrarla e non capiscono neanche l’importanza degli altri oggetti rinvenuti con la missiva. Per fortuna che gli autori, lungimiranti, fanno giungere il libro addirittura nel futuro, nel 2027, quando, grazie ad una tecnologia ancor più sofisticata, il misterioso rinvenimento comincia ad assumere una fisionomia comprensibile. Il libro è senza dubbio avvincente, diverte coi suoi piani narrativi così lontani, tanto da sembrare quasi due libri differenti. Ed in effetti una certa “scollatura” tra le parti la si percepisce, gli autori ci raccontano la vita di Pilato, quasi per avvalorare le tesi degli archeologi, in quanto ciò che si legge della vita del romano non si apprende in seguito alla scoperta del manoscritto, è semplicemente una parte narrativa atta a circostanziare la parte ambientata ai giorni nostri. Insomma, la costruzione risente a mio avviso di una certa ingenuità: l’idea è eccellente ma in alcuni tratti appaiono alcune forzature. Detto ciò bisogna tuttavia riconoscere che il libro è narrato assai bene e la ricostruzione storica assai efficace e credibile, abbiamo anche il dolce lieto fine e l’italiano è usato con grazia e rispetto. Il romanzo è assai godibile e ci porta a spasso tra i secoli con disinvoltura e leggerezza senza far pesare lo scorrere delle pagine, con una sensazione di freschezza e di divertimento, uniti ad una abilità narrativa felice, soprattutto considerando le quattro mani – e due teste – che dà vita ad un romanzo comunque omogeneo e che si attesta su di un ottimo livello, consigliabile.
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