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La regina incompiuta

di Luciano Nanni
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Pubblicato il 20/06/2014 14:47:56

LA REGINA INCOMPIUTA

                            di Luciano Nanni

 

   Dopo qualche giorno la mia salute è migliorata; intendo i miei nervi, messi a dura prova dalla vita d’ufficio e dai rumori della città. Ora poi, che abito al terzo piano di uno stabile che dà su un’arteria piena di traffico, i rumori sono continui; neppure di notte si riesce ad avere un po’ di pace, né è possibile, in piena estate, tenere le finestre aperte. La visita medica mi sta rimettendo a posto; mi sento tranquillo poiché la diagnosi ha dissipato i miei timori. Ero dimagrito, una cosa normale, ma in maniera eccessiva; controllando il peso corporeo lo vedevo scendere da una settimana all’altra; certe mattine, svegliandomi alle prime luci dell’alba, non riuscivo più a riaddormentarmi, alzandomi già stanco. Mi ero lasciato andare: la barba lunga e i capelli arruffati. Il barbiere forse pensava: costui vuole risparmiare; facevo la figura del pidocchioso, compiendo lunghi giri pur di non passargli davanti. Infine il benevolo dottore mi consigliò alcuni giorni di riposo, avrebbe voluto in qualche stazione termale, ma considerato che si trattava di un esaurimento fisico decisi per un luogo tranquillo e poco frequentato.

   Il posto conserva numerosi ricordi d’infanzia, avendo trascorso qui il periodo più intenso della guerra, ancor oggi non è raro vedere postazioni, punti arsi dal fuoco e grotte che servivano da depositi. Per via dei torrenti la zona è feconda, ma quasi disabitata; restano i vecchi, qualche donna, e i bambini che devono curarsi. Ci sono aree deserte, le eriche crescono ad altezze sempre maggiori, a differenza di allora, quando il bosco era tenuto come un giardino, e, se ciò non bastasse, i villeggianti gettano lungo i pendii cartacce e rifiuti vari, tanto che sembra d’entrare in uno scarico di immondizie; per trovare il pulito occorre scendere, sin quando si aprono paurose forre. I ricordi stancano chi ascolta, ma per chi scrive rappresentano un godimento solitario; potrei rievocare un anno ricco di funghi; si andava giù da ca’ di Matteo, potendo scorgere gran parte del bosco; i boleti si nascondono tra le foglie, mimetizzandosi per via del loro cappello bruno; per alcuni giorni ce ne furono tanti che si pestavano. Poiché ero un bimbo, due giovani me li rubavano appena li raccoglievo, lasciandomi piangente con le briciole in mano, mentre loro riempivano il sacco. Venivo qui anche con Cesare, l’amico morto due anni fa in un tragico incidente; il tempo vela le cose di malinconia, e vorrei restare così, a guardare il bosco tramutato in luogo sacro, che il profano non deve turbare. Poi venni sempre meno, ma in questa stagione ho trovato, grazie a uno zio, una stanza poco distante dal punto dove mio nonno aveva in affitto una casa. Ciò che sto per dire può essere ritenuto frutto d’una nevrosi, ma vorrei sapere cosa mi ha cambiato se non gli orrori innominabili di cui sono stato testimone; ora, pieno di ignobili paure, abito in una camera ammobiliata.

   Per pura curiosità, avendo del tempo libero, mi ero recato a vedere la casa del nonno; la signora, molto gentile, fece girare la chiave con stridio terribile, sinché nel polveroso locale dopo tanto entrò la luce; ecco cosa sono i ricordi: una stanza vuota, piena di polvere, e con chiazze umide sui muri; il rubinetto, nel suo lento gocciolio, aveva forato la pietra in cucina. Ma la signora trovò da affittare la casa a una ragazza, il che mi stupì; che se ne faceva costei di più stanze, oltre a una specie di granaio? Affari suoi, comunque; non sono troppo curioso, e quel poco di curiosità mi è costato caro. La ragazza si insediò, pulendo alla meglio; qualcuno le regalò una rete e un vecchio tavolo, e lei cominciò ad adoperare il camino, prendendo ogni cosa con filosofia. Cercherò di descriverla; pur essendo bella, in un primo momento mi aveva lasciato una strana ripugnanza; non che fosse la sua forma fisica, o la carnagione; aveva la pelle chiara, la faccia lievemente lentigginosa, e un profilo grazioso; sotto gli occhi piccole zampe di gallina le conferivano un’aria simpatica, le mani erano stupende; in complesso mostrava una costituzione solida; tuttavia c’era un aspetto che mi respingeva, una sensazione appena intuita, e all’inizio non ne fui attratto. Sono realista: essendo stempiato, con gli occhiali, e avendo un colorito poco piacevole, per certi maligni io sarei simile a un frate. A parte l’impressione, che si indebolì durante i nostri rapporti, essa dal punto di vista sessuale era desiderabile; sebbene io anteponga un prologo poetico al corteggiamento amoroso, penso in sostanza di arrivare al dunque. A lei misi le mani addosso soltanto dopo una settimana, anche se per me era un periodo di convalescenza; volevo sfruttare il tempo rimasto: non fare il fesso come altre volte, mi dissi.

   La ragazza viveva a suo agio in quella casa; in cucina c’era odore di fritto, mescolato ad altri odori meno gradevoli. Pensai che non mi sarebbe piaciuto far l’amore su quel letto sgangherato, ma in un posto lindo. Parlando con lei la trovai attenta, quasi assorbita dalle mie parole; era interessata più al modo di esprimersi, alle cose comuni, che alle nozioni di botanica, che io avevo assai profonde. Voleva che le parlassi specialmente dei miei ricordi, e questo mi fece piacere. “Mio nonno” le dissi quando passammo al tu “sedeva qui” mi avvicinai al punto, poi mi fermai “c’è uno scorpione.” Lei fece un gesto, io presi le molle e lo gettai nel fuoco. “Perché l’hai fatto?” mi disse, e i suoi occhi si velarono, era pallida in volto, non riuscì a nascondere la sua emozione. Ora che la vedevo in luce desiderai amarla, e portarla nella penombra d’una camera chiusa a chiave; i peccati si devono commettere con un senso di rituale. Il ribrezzo per lo scorpione mi passò; altri non ne vidi, l’angolo era troppo buio; per prudenza restai vicino al fuoco, il camino ardeva allegramente. Però il comportamento della ragazza mi incuriosì, e le chiesi: “Che hai?” Non seppe che dire, negli occhi d’un grigio acquoso passò un lampo, quasi di odio, o forse mi sbagliavo, erano solo le ombre, e attizzai il fuoco. “Sono creature anche loro” disse finalmente.

   Una cosa di cui non ho mai parlato è la sua pronunzia, e la riservatezza per quanto concerne il suo passato. La pronunzia, pur chiara, era stridula, pareva mascherare la vera voce; è possibile, mi chiesi? le donne hanno spesso idee bizzarre, ma voler parlare in un modo contraffatto mi sembrò ridicolo, se non assurdo. La sua cultura, poi, lasciava a desiderare; non conosceva niente di storia o geografia, pur asserendo di aver frequentato le scuole superiori, e la memoria presentava numerose lacune. Oggi la scuola è cambiata, ma ai miei tempi i privatisti erano falciati senza pietà. La musica non la capiva. Un’altra cosa singolare era il suo passare dal tono affettuoso a una certa freddezza. Trovai comunque che fosse un carattere particolare; non vidi mai in lei un moto di stizza, o interesse per la moda, ad esempio. Vestiva però con gusto; nella valigia di fibra scorsi dei vestiti eleganti. Spesso ne portava uno d’un blu vivace, ornato di pizzo, e sembrava una ragazzina, perciò io la desideravo. Anche di notte pensavo a lei, ma dovevo invitarla di nascosto; la mia stanza era arredata con finezza, la tappezzeria d’un colore chiaro, vi trovai l’eco di tempi poetici, e lei ci sarebbe venuta, anche se io non ero affascinante; gente bella ce n’era poca, per lo più vecchi affumicati o bimbi impertinenti; dopo giornate di luce intensa le mie sere trascorrevano monotone.

   La prima settimana volse al termine, con mio rammarico. Il clima, pur avanzando verso l’autunno, si era fatto tranquillo, e il tempo era migliorato, un’estate piuttosto dispettosa, con improvvisi rovesci di pioggia. La ripugnanza che avevo vagamente percepito si andò cancellando; io amavo quella ragazza, e lei mostrò di ricambiarmi; le narravo i miei ricordi, mescolando il vero col falso; mi sentivo un poeta al servizio d’una regina; ma questa parola suona ora mostruosa, e rinnova l’ondata di orrori vissuti in quel giorno dentro l’oscuro sotterraneo. Avevo notato, di pari passo col mio innamoramento, se così vogliamo chiamare il rapporto che mi legava a lei, la presenza d’un uomo che mi era familiare; forse l’avevo veduto al tempo della mia giovinezza negli stessi luoghi, perciò quando lo scorsi presso la borgata cercai di ricordare, ma invano, chi fosse. Vestito di nero, aveva una corporatura tarchiata, capelli scuri e mani pelose; poteva avere una cinquantina d’anni. Colpiva in lui l’aria distinta, di persona colta, ma senza particolare affettazione. C’era poi un che di funereo che trapelava dal suo modo di fare e dalla faccia misteriosa.

   Mi vide, osservandomi con una certa impertinenza, quasi per analizzarmi; passai con noncuranza davanti a lui; la ragazza col vestito blu mi aspettava, sorridendo; come al solito era pallida, ma gli occhi ridevano di grazia. Fu il giorno in cui, soli, entrammo nel bosco, per un’avventura di cui presumevo la fine. L’uomo tetro guardò la ragazza in modo assai diverso, con un’occhiata penetrante, evitando però che lei se ne accorgesse; mentre m’incamminavo nel viottolo fui sul punto di dirle qualcosa, poi mi trattenni, per non fare la figura del geloso. Egli forse l’aveva guardata per altri motivi; mi sembrò ridicolo che si trattasse di uno spasimante, poteva essere suo padre come età. Dal viottolo ci trovammo in una parte incantevole del bosco; il tempo era incerto, il pomeriggio si presentava nuvoloso, tuttavia non erano rari squarci di luce; mi sentivo in forma, sereno, ma senza voglia di parlare. Lei indossava un abito corto, sopra il ginocchio, che mostrava le gambe un tantino grosse; aveva poco seno; squisite le mani; avendola rimproverata per lo smalto, ora le sue unghie erano chiare e brillanti, e ornavano le dita come anelli. La faccia era con labbra piccole e ben disegnate, gli occhi liquidi, d’un colore tra il ceruleo e il grigio. Intanto mi proposi di iniziare dalle gambe, e poco alla volta sbottonarla davanti.

   Ci inoltrammo tra i rovi, in un punto riparato; l’erba non era alta, il tronco di un grosso albero formava un vuoto, ma era ugualmente rigoglioso, spandendosi in rami coperti di verde; l’incavo era torpido, pieno di legno marcio e friabile. Lei si sedette lì, ci ponemmo vicini, poi chinò la testa; la baciai senza aspettare, e mi accorsi che imparava da me. Fu un bacio inebriante: avevo ritrovato, nel fatuo momento, il tempo perduto, con la gioia di donarsi e ricevere un dono.

   Passai a un’azione più decisa, ma stringeva le cosce, tenendo gli occhi socchiusi, in attesa di nuovi baci. “No, non voglio” mormorò. La baciai sul collo, snello e bianco, poi sulle braccia; la mia mano era già a buon punto e riuscì ad entrarle nel petto, seni piccoli, ma lisci e sodi, però sbirciando la cavità dell’albero vidi un brulicare di scorpioni. Mi alzai, lasciandola costernata. “Che hai?” domandò. “Siamo venuti nel posto sbagliato,” risposi “guarda un po’ lì dentro.” “Sono bestiole” disse. “No, non sono bestiole, ma scorpioni.” Non rispose; forse non provava la mia stessa repulsione. Io amo la natura, anche se studiandola non è come i poeti cantano, e se le formiche entrano nel pane o gli scorpioni tentano di pungermi il mio amore viene meno. La ragazza si era pentita d’aver ceduto? se ci dovessimo vergognare non soltanto per ciò che si fa ma per quello che siamo realmente dovremmo espiare le colpe in un convento. La capii, poiché anch’io ero stato sul punto di perdere la testa, in maniera calcolata, s’intende; con le donne è necessario non essere del tutto sinceri. Così si svegliano gli istinti materni, aggrovigliati con quelli erotici. Lei aveva sciupato il vestito, e cercai di ricreare l’atmosfera di prima, con una gaiezza che suonò falsa. “Andiamo in un altro posto, vuoi?” “No, lascia perdere.” Ma è poi vero che scorpioni e serpenti sono stati creati da Dio? problemi metafisici che passarono in secondo piano. Ora lei sembrò pensierosa, poi sorrise; mi prese una mano e la baciò.

   Devo parlare ancora di quell’uomo; pioveva, e non uscii. La mia stanza era vigilata con caparbietà dalla padrona; pareva che avesse capito che volevo portarvi la ragazza, e mi chiamò: “Venga giù, c’è una persona che la desidera.” Era però una donna premurosa, mi procurava uova fresche e persino dei giornali che riceveva dalla città, perciò preferii un posto esterno per amoreggiare; l’unico luogo idoneo era il bosco, meglio se in una bandita di caccia. Rividi quindi l’uomo in scuro; questa volta il fatto mi disturbò, poiché lui gironzolava per la viuzza che conduceva alla casa della ragazza; lei era uscita nell’orto pieno di erbacce, e lui la guardava con eccessiva insistenza; quasi ci urtammo. “Mi scusi” disse con voce cupa, consona all’abito e alla sua faccia funebre; i lineamenti tetri e quadrati gli conferivano l’aria d’un becchino. “Cerca qualcuno?” e la mia voce stridula contrastò. “No” e se ne andò, come se nulla fosse. Pensai: è un mio parente, perdio, adesso ricordo, l’ho visto a un funerale, faceva condoglianze a tutti, stendendo la mano pelosa, era compassato e con lo stesso vestito di oggi; che mi abbia riconosciuto? no, è impossibile. Fui sul punto di andargli dietro, poi decisi di no, anzi, non ne parlai nemmeno con lei, ed è stata la mia salvezza, ma se fosse tornato l’avrei affrontato.

   La ragazza era vestita di bianco, un colore che mi fece ricordare le ripugnanti impressioni della prima volta; ma era amabile al di là d’ogni previsione, e mi accorsi che il suo umore si accordava col tempo. Appena mi vide mi saltò al collo, e ci baciammo spudoratamente mentre un vecchio fischiettava, staccando un grappolo nel vigneto con un paio di apposite pinze. Però non volevo sposarla, cercai quindi di concludere prima che finissero i giorni; già avevo deciso di non fornire indirizzi, saldando il debito con la padrona, ma la coscienza mi rinfacciò questo modo di agire, far soffrire una brava ragazza, approfittarne e poi eclissarsi: dovevo comportarmi onestamente, o sposarla o non toccarla più (ricordo che una donna, più anziana e più ubriaca di me, esclamò, aspettando invano che la baciassi: con l’amore non si gioca).

   “Ho trovato un posticino delizioso, già arredato” disse. E io: “Cosa vorresti insinuare?” “Ma non hai capito che ti amo? voglio un figlio da te.” Divenne rossa; tutto spiegato, ma non troppo bene. Un figlio significava il matrimonio. “Hai voglia di scherzare? ci siamo appena conosciuti.” “No” e fu un no duro, incredibile. “Aspettiamo, allora.” “Non voglio rimandare; tu non sei un uomo, ecco la verità.” Cercava di colpirmi nell’amor proprio; c’era tepore, il sole scivolando tra i rami scomponeva le fronde in fantasie d’oro e verde. La mia nevrosi era finita, ma lei mi rese pensieroso.

   “Andiamo a vedere quel posto” dissi. Tra le fronde udii un rumore, forse un cacciatore che passava. Scendemmo sinché i rumori sparirono, ed entrammo nel folto; lei sembrava conoscere alla perfezione il luogo, e ciò mi stupì; un cinguettio ruppe il silenzio, poi il mormorio d’un torrente che scorreva poco distante. “Mi sai dire dov’è? io di case nel bosco non ne ho mai vedute.” La mia allegria suonava falsa, ero inquieto, preoccupato. “Sì, che esistono.” La ragazza credeva di aver trovato il suo tipo, ma io non ero il soggetto idoneo: dovevo dirglielo, prima che fosse troppo tardi. Ma dove mi stava portando? Le ombre si infittirono, il bosco era selvaggio, tanto che risultò difficoltoso procedere; il vestito bianco di lei rifulgeva dentro la cupola boschiva, le sue mani emanavano un dolce calore. Arrivammo a una radura, in parte fangosa, non vi cadeva il sole ed era piovuto il giorno prima; ai bordi un’erba rada, e un terreno scuro. Mi sembrò che la radura si sporgesse su una forra; da un lato c’era una specie di boccaporto, a cui si accedeva per gradini scivolosi. La ragazza scese nel buio. “Non vorrai entrare qui” obiettai; mi guardò e rispose: “È un deposito di munizioni del tempo di guerra.” “Vuoi che saltiamo in aria?” “Basta, non dire stupidaggini. Era una postazione, ma è arredata; vi abitava una famiglia che ha lasciato tutto in ordine.”

   Ero curioso di vedere l’ambiente; l’odore di muffa era comunque nauseante, e mentre scendevo gl’incerti gradini scivolai ad ogni passo, tra pareti coperte d’un muschio sempre più fitto e oscuro. Quando toccai il fondo percepii un freddo malsano. Lei mi condusse per mano, all’inizio non vidi nulla, avendo la luce alle spalle; sembrava una galleria scavata nel tufo, di forma quadrata, con una porta massiccia, coperta d’intagli; da lì entrammo in un locale dai muri caliginosi; c’era un camino, quindi lei non mentiva, unici arredi un letto e un piccolo lavabo con specchio. “Sei venuta tu a sistemare?” Non disse nulla, si strinse a me. Da un’ampia porta a finestra si entrava in un cortile dove pioveva una luce smorta; c’erano travi e tronchi ammassati. Chiusi le imposte, ora ero al dunque, in un ambiente tetro e disadorno, e anche umido, ma l’amore ci avrebbe riscaldati. Non pensai alle condizioni dell’ambiente; le lenzuola odoravano di rose, lei aveva predisposto ogni cosa. Cominciò a spogliarsi poco alla volta, ero inebriato, le mie mani la toccarono nei punti sensibili, ma, qualche istante prima che potessi continuare, dei colpi alla porta ci fecero sobbalzare, e una voce cavernosa ci intimò di aprire. Alla svelta ci rimettemmo a posto; lei sedette sulla sponda del letto, ravviandosi i capelli. Ricorderò per tutta la vita quel profilo tetro nella penombra, l’uomo in nero che ci sorvegliava da giorni. Fissò la ragazza con fredda determinazione, e disse: “Noi ci conosciamo.” Rimasi interdetto; il primo impulso fu di chiedere spiegazioni, ma non feci in tempo, perché due braccia poderose, insospettabili sotto l’abito, mi gettarono fuori, nell’oscurità del corridoio. Umiliato e impotente presi a picchiare sulla porta con imprecazioni, ma resistette ai colpi. Cosa stava facendo? perdio, non era difficile immaginarlo, ma lei avrebbe opposto resistenza. Dalla porta quindi non era possibile entrare, l’unico modo era scendere nel terrazzo e passare per la finestra. Guardai dalla serratura, ma non si vedeva niente; allora ascoltai con l’orecchio appoggiato sul legno, e udii terribili parole; compresi che l’uomo stava compiendo un rito immondo, in un linguaggio antico e indecifrabile.

   Poi un odore nauseante di carne putrefatta invase il cunicolo, la sua intensità mi costrinse a tapparmi il naso. “Dio mio,” mormorai “cosa sta succedendo?” Volevo solo uscire per rivedere la luce che percepivo lungo la viscida gradinata, ma le gambe non mi ressero, perciò restai per alcuni istanti fermo, incapace di qualsiasi azione.

   Quando la porta si aprì mi sembrò che un abisso mi entrasse nell’anima; l’uomo parlò pacatamente. “Non oso pensare quel che sarebbe accaduto se tu avessi avuto un figlio con lei.” Questa frase, malgrado lo strano fetore che usciva dalla camera, dissipò parte delle mie paure; era un maniaco, non dovevo più ascoltarlo. La ragazza però non usciva e io feci l’atto di muovermi. “Non entrare nella stanza, e ascoltami bene,” replicò autoritario “non posso dirti esattamente chi era e da dove veniva; nel suo mondo era comunque un essere femminile, una specie di regina, ma incompiuta, non potendo procreare da sola; e allora non le restava che una soluzione: prendere una forma umana, e mascherata nella sua sostanza venire nel nostro mondo.” “Tu sei pazzo” risposi. “Forse non vuoi o non puoi capire: quella cosa non era di questa realtà; simile a una forza oscura è penetrata tra di noi, assumendo le nostre sembianze. La sua origine è sconosciuta, ma io l’ho ricacciata indietro.” Mi avvicinai a lui, che mi bloccò subito in una morsa. “Idiota, guarda cos’è diventata” e brutalmente mi spinse dentro la camera. Oggi debbo convenire che egli mi ha salvato la vita; leggeva libri proibiti, ma era un uomo di Dio.

   Sul letto c’era ancora il profilo del volto di lei, mentre il corpo e le mani gocciolavano come intinti nell’acido, putrefacendosi in chiazze d’un bianco cereo e ripugnante; gli occhi grigi si stavano spegnendo. Ora posso dire che era veramente un’esistenza ignota, una regina venuta da dimensioni che l’umanità non dovrebbe mai conoscere: l’universo contiene misteri innominabili. Poi guardai il corpo, e mi accorsi che il ventre in disfacimento era pieno di scorpioni, allora svenni.

   Niente è rimasto di quell’orrore, ma io non sopporto più la presenza di un insetto e mi manca il coraggio di entrare in luoghi oscuri.


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