a cura di Roberto Carifi
Una distanza tra il grido e la ferita: la poetica di Ninnj Di Stefano Busà.
Quasi tutta la sua opera si affaccia sul silenzio percorrendo tutte le strade del dolore e dell’assenza.
Del resto i poeti, quelli veri, giungono all’ultima parola dopo aver
percorso fiumi «di dolore e di destino». L’autrice sa cos’è il lento
dipanarsi della vita, «la distanza tra il grido e la ferita» e sa
come attraversarli, come portare la sua croce, e tuttavia sa come
si spegne «la nuda realtà della sete». La realtà della sofferenza
(del dukkha, per dirla con il pensiero buddista) è in quasi tutte
le poesie di Ninnj Di Stefano Busà per superarlo, per raggiungere
il silenzio, la pace. Tuttavia bisogna viverlo il calvario della
vita, fino in fondo, fino all’abisso, fino quasi a scorticarsi l’anima.
«Ogni piccolo filo d ’orizzonte / si ritrae, si ripete la meraviglia / che
serve alla cecità / per estinguere il suo pianto». Versi alti, di una
poetica che resta ai bordi della sofferenza, persino del male dettato
dal destino. Il tragico, ricorda Hoderlin, ha più fato e virtù
atletica, rispetto a ciò che è dùsmoron, privo di destino.
Ma Ninnj Di Stefano Busà vuole liberarsi dal destino, preferisce il silenzio, la libertà, l’apertura d’ala.
La sofferenza è il sottofondo della sua scrittura, ma la liberazione è lì,
a portata di mano. La poesia di Ninnj Di Stefano Busà è bagnata da quella forza contemplativa che ha in sé la rivelazione e il dono è accostabile al ringraziamento che fa di ogni lingua poetica una pietà del pensiero. A volte si ha l’impressione di sentirla quasi respirare, offrirsi all’esterno, all’aperto, all’infinito, essere tutt’uno con la libertà che caratterizza in fin dei conti, la sua poesia.
Se resta è un filo sottile,
uno scampolo di cose malandate,
un punto e a capo, un altro tempo
che non sai se separa
i tuoi ritardi, cancella i tuoi respiri.
Lo smalto poi si scrosta, invecchia
in altro modo, si smaglia dalla pelle,
e non c’è iato, qui dove svampa,
tra il buio e il mondo, tra la notte
e il cuore.
***
Senza gioia il mattino,
tra sguardi che ritardano
e un sole avaro, un luogo condiviso,
qualche nube.
La scopri da una strada polverosa
l’altra verità che s’attarda
a tentare un cielo terso,
un vento che sosta ad ogni porta,
come un passante senza nome,
lo vedi andare piano,
quando il canto è breve
e l’ombra fugge e il mondo
è solo un suono dimenticato.
18
Un viaggio senza ritorno,
una storia che porta due parentesi
tra un poco e l’altro della vita,
una distanza tra asintoti e tangenze
sempre più lontani, linee d’ombra.
Qui – dove ogni giorno è muto,
e manca sempre un punto
di congiunzione che ti stringa, –
e torni indietro per cercare
un codice segreto che lo acquieti
ne scopra l’ordine, una rotta condivisa.
Qui è terra consumata, senza più elegia:
terra di rami spogli, di malinconia.
***
Il tempo appena di guardarle le cose,
e già sfuggono, e il mondo ha uccelli
di passo, ozi, cose di breve conto.
appena un foglio bianco
e neppure un’odissea da raccontare,
un’elegia da vendere o incrociare
coi suoi morti, un’anemia di versi,
di suoni, di tinte accavallate.
Qui – dove le parole hanno solo l’ombra
a farle già diverse –
Qui – dove il verso scorre per cercarsi,
come se niente fosse e manca
la voce che lo stringe, lo conserva.
19
SEZ. VERBI INASCOLTATI
Sembrano prendersi gioco dell’ora
le sciabolate di luci imminenti.
Ti corre un brivido fragrante di felicità,
quello che s’insinua tra le tamerici e il nulla,
il frutto acerbo era la giovinezza.
Così spalmo l’ineguagliabile acqua serena
sulla fronte del dio, profetizzo altri templi
e sentieri con la stagione del miele,
mentre le salmastre acque
si fanno opalescenti e sorridono al cielo.
***
Nel grido del sole c’è lo splendore
autunnale, stupiscimi col tuo nettare acerbo,
declina i tuoi lembi azzurri
sul portale di memoria
che ci è appartenuta come emozione,
ora radice dilapidata e sofferto dolore.
M’incanta l’ebbrezza, un lungo brivido di pioggia,
le ombre nei riflessi dorati della giovinezza.
con te ritrovo quel doloroso miele dell’abbraccio.
20
Momenti d’erba scioglie la sera,
un desiderio che stringe il mondo
nel suo oscuro moto,
e respira venti di tempesta il suo stupore,
perdendosi nel folto della siepe,
tra ali di ortiche e aquiloni.
***
Un sentiero di luce costeggia
il sereno dei tuoi occhi.
vi è il respiro frale del giorno,
la salsedine delle marine assolate,
le mareggiate notturne, nel gioco delle trasparenze.
Noi siamo lì con la spietata illusione:
le palpebre chiuse e quella poca argilla
tatuata in seno – ombre celate tra la resina e la pelle –
21
***
Raggiungere il confine,
misurarne il suo perimetro di pietra,
il tempo che trasmuta in appunti
di diario necessari a immunizzarsi:
ai silenzi, ai tempi, ai luoghi
che si travestono di passato
per escluderci.
***
Può venire solo dal labbro
la parola amata, a piegarci,
senza l’ombra di peccato,
oppure volgere lo sguardo al bene prezioso,
alla tenera notte che artiglia la tenebra,
a custodire quel tuo sorriso
come un sole sbucato dall’inverno,
o regalare la neve come un giorno felice
che arrossisce alla luce.
Di ogni cosa resta la fitta malinconia
sul filo del tempo, a riparo dalla sorte.
22
La notte ha occhi seducenti,
dal sogno evoca l’oro di memorie,
si fanno lente come clessidre vuote
all’ombra delle attese le ore,
alzano vessilli d’alba, reti di dolore,
sfilano come lame sul velluto
le giostre colorate dalla luce,
preparano il giorno al sangue già versato,
agl’immemori presagi della resa.
Sarà ancora dubbio questa disarmonia
di canti? Artiglio delle favole incompiute
scioglie la nera uniformità notturna.
Ogni silenzio è guado in mare alto,
vena di attracco lungo il bordo scuro,
riarso dei ricordi.
E non vorremmo migrare in altri luoghi
che quelli di un cielo di cobalto.
uccelli migratori ora smarriti
non sappiamo chi ci salverà.
23
Come acque chete
che accarezzano scafi, accelera
l’aprile lungo il litorale, fiati di brezza
promesse di equinozi attendono
il sogno dell’estate, ignara
dentro la trafittura di ferite, anela
l’erba a rinfoltire il verde sui muretti,
sui dossi e sugli anfratti.
E ci spingiamo al largo dalla secca,
dai canali melmosi, al lampo azzurro,
al porto più sicuro come velieri
salpati al vento di bolina.
Terra che si sfalda ereditammo
e oro che la ciurma inabissa
al suo naufragio. E giungemmo
al lampo delle stelle con audaci pensieri,
a sfogliare giorni lievi, parole
che precedono il canto dell’addio,
forse il perdono o la dimenticanza,
senza voltarsi indietro.
Alcuni testi ripresi dalla raccolta vincitrice del Premio Il PORTONE di Pisa
pubblicata con ETS, Pisa settembre 2013
I testi, le immagini o i video pubblicati in questa pagina, laddove non facciano parte dei contenuti o del layout grafico gestiti direttamente da LaRecherche.it, sono da considerarsi pubblicati direttamente dall'autore Ninnj Di Stefano Busą, dunque senza un filtro diretto della Redazione, che comunque esercita un controllo, ma qualcosa puņ sfuggire, pertanto, qualora si ravvisassero attribuzioni non corrette di Opere o violazioni del diritto d'autore si invita a contattare direttamente la Redazione a questa e-mail: redazione@larecherche.it, indicando chiaramente la questione e riportando il collegamento a questa medesima pagina. Si ringrazia per la collaborazione.