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Agamennone .. Seconda parte

Argomento: Teatro

Saggio di Giorgio Mancinelli (Biografia)

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Pubblicato il 27/11/2016 07:23:50

AGAMENNONE..o la maschera ‘ingannevole’ del mito.

(Seconda parte)

Choros:
«A Te o Eschilo che d'Agamennone scrivesti l'epitaffio, egli chiede mercè. Ma attento! L'ira in cuor suo consuma, e con l'inganno egli a Te ordunque viene. E non già per estirpare il malanimo suo, bensì, a chiedere della vita l'aggio, che non d'appartenere al mito egli si lagna, ma per la vita che quest'oscurità gli nega. Ed ancor più attento sii dell'orda malvagia che l'accompagna, che attende miserevole in questa notte parca, di carpire sì degna sua presenza. Non confidare in loro, sono le ombre dei dannati che il Tartaro attende, pronte a sbranar chiunque la sua dimessa spoglia tenti. E Tuo infine sia l'onore oppur il dispregio di riaverlo in Te qual figlio spurio del Tuo più sommo dramma».
Acciò, ogni cosa scompare, le ombre dei dannati abbandonato il presente fanno ritorno nel buio che l'attende, compenetrate nel nulla da cui sono venute. Nessuna voce risuona più sotto la volta, alcun rumore s'ode. Solo lo sbriciolarsi infinitesimo della pietra che nel silenzio l'inudibile crina. Il taglio luminoso e accecante dell'entrata, insidia per un istante il buio impenetrabile del presente: sì che la realtà quasi scompare, per lasciar posto a un abbaglio obliquo, pretestuoso, e ciò ch'è stato, quasi si perde, entro il tangibile affiorare del rinnovato dubbio.

Quale illusione l'eternità, quale inganno?! Mi chiedo, quale recondita verità ignora l'essere umano nel disconoscere l'inesplicabile corposità del buio? Quale certezza può avere della continuità ineludibile della luce? E se la vita non foss'altro che un mero sogno? Riverbero arcano di un qualcosa che potrebbe non essere stato mai? Cosa sarebbe allora l'eternità? Se non l'essenza illuminante del mito, che dal remoto passato si ripropone nell'astrazione del presente, per tornare a essere materia tangibile del vissuto?:

"Conosci te stesso, Evita l'eccesso".

E come a voler dare un senso alla pienezza del nulla, l'eco risuona delle parole enigmatiche del tempo dentro la compiutezza del pensiero, che da solo, restituisce valore alla fragilità umana, e che ipoteticamente sembra colmare la persistente differenza tra ‘mortale’ e ‘immortale’ comune tanto agli uomini quanto agli déi. (24) Ma la realtà visibile nasconde un aspetto paradigmatico del problema, per cui l'essere che in Agamennone si dibatte è soggiogato dal suo stesso volere e si fa oggetto d'un destino di sofferenza e di dolore al quale egli non può più sottrarsi, e la cui caduta, si rende infine necessaria per la rigenerazione della sua anima. (25) Ed è proprio a quel suo volere ch'egli si appella, allorquando trasforma il suo essere ‘oggetto’ in ‘soggetto’ più ampiamente universale, per ottenere accesso a quel mondo superiore, sovraumano e semidivino dell'eroe, a garanzia della sua sopravvivenza dopo la morte. (26)
Ma più profondamente penetro la materia dei miei pensieri e più persistente si fa in me l'idea d'una qualche connessione fra due elementi cognitivi: l'immaginazione mitica, percezione di un'esigenza antropologica; e la mente estatica, stadio emozionale di un'enfatizzazione individuale. Connessione che si rivela, pur nella sua duplicità cognitiva, la molteplicità insita nell'esistenza stessa quale momento individualizzante dell'archetipo che è all'origine dell'esistenza manifesta. Risultato di un segreto rapporto intercorso dall'esistenza in sé e il suo divenire, nella cui dinamica si evince sempre più l'enfatizzazione di un effimero individuale imperscrutabile tuttavia irrisolto all'origine, proiettato verso la realizzazione di una compiutezza formale, nella molteplicità degli aspetti ad esso connessi, e nelle innumerevoli facce segrete, proprie dell'essere e dell'esistere.
Ed è in questa moltitudine d'aspetti, fra quelle facce più propriamente visualizzate che va a collocarsi la maschera d'oro di Agamennone, enfatizzazione dell'eroe del non essere, archetipo dell'esistenza nascosta; risultato di un rapporto oscuro e al tempo stesso manifesto, intercorso tra l'essere che porta la maschera e l'essere che in essa si raffigura: metafora di ciò che forse avrebbe voluto essere . . .

______epistrophe (conversione, ritorno)

Eschilo:
«Orbene, chi si nasconde dietro la maschera che d'Atreo reca il sembiante? Chi ne adduce la parte?»

Agamennone:
«Chi sono io, mi chiedi? Posso nascondere a te la mia agonia dentro questa parvenza di sogno? Tu dunque, non già venisti al compianto a prender parte, quale amico sincero che come sue accoglie le spoglie dell'infelice amante. Non già io chiedo a te il giudizio, ché di giudicar il supremo Nume deve. Ma acciò che di morir m'accingo, chiedo a te di riveder la parte, prima ancor ch'io affronti l’estremo passo . . .»

"Si ch'io trovi la forza di scalzar da me
stesso l'amara viltà,
stornare dai miei sentimenti lo scatto che svia,
frenare l'impulso acuto dell'ira, che m'aizza a
balzare in battaglia, che aggela;
tu dammi l'ardire, in norme salde di pace,
scampando a scontro nemico,
a fine violenta." (27)

Eschilo:
«Chi in realtà tu sei, che dell'eroe d'Ilio or chiedi di deporre l'armi? Tu, che dell'uomo or reclami l'onore della vita, ed or la dignità d'una giusta morte?»

Agamennone:
«Questo son io, l'eroe d'Ilio, colui che del tuo pensiero reca il più intimo affanno. . .

". . Io, che disperato, incarno sfacelo al mio
trono, alla mia terra natia." (28)

Eschilo:
«Un inganno dunque, affinché nell'adempimento del tuo riscatto, tu possa condurre l'uomo mortale che sei, al sacro Olimpo degli eroi!»

Agamennone:
«Son io colui che ambisce di sostituire all'oscurità di una sì tremenda morte, il regime diurno della vita».

Eschilo:
«Mi chiedo: da quali meandri dell'occulto tuo essere si raccoglie siffatto orgoglio? Che il diritto sancito dal fato, valica i confini della morte corporea, della tua stessa morte, causa la perdita del senso dell'intera tua esistenza. Quale materia della terra esecrata che tende a ritornare ad essa dopo la prova, la tua maschera d'oro si pone all'origine del mito, riluce fra tutte le altre d'una maestosità regale, quasi che fosse il volto stesso della storia che si conduce entro l'immaginario arcano. O forse, dimmi: ciò che tu dici, la maschera che porti, giammai fu quella del veritiero eroe?»

Agamennone:
«Posso negarlo, ma come potrei affrontare gli altri, come potrei affrontare me stesso (?) … non ho più colpe di altri, io.»

Eschilo:
«No, non parlare! Che più t'ascolto e più il dubbio si fa in me convinzione. E come se un sosia al posto tuo mi parli.»

Agamennone:
«Tua la colpa se il velo del dubbio oggi avvelena le tue parole.»

Eschilo:
«Ciò ch'io vedo non è che una maschera beffarda che si prende gioco di me. Il tuo stesso parlare è ambiguo, un gioco di parole schive, di profezia sinistra, di una gestualità precaria, che non capisco appieno.»

Agamennone:
«Il nudo ferro lacera il mio volto e quali pene soffrir io devo, e quanti affanni; ché quello che tu dici essere oro, i miei occhi ciechi, dal di dentro non possono vedere, ché tanto anelano di riveder la luce per un istante, prima ancor di prendere possesso di questa oscura tomba» . . .

______athanassia (immortalità)

Eschilo:
«Di quale pietà il tuo animo incombe! Un freddo disarmante paradosso esalta l'eccellenza della tua annunciata fine, e non per la morte in sé che t'accompagna, ma per la breve eppur eterna vita che t'è data all'interno dell'estremo dramma. E sia che ti munifichi, elevandoti all'altezza degli eroi sublimi, o che ti sospinga nel baratro profondo, la tua ignominiosa morte assicura a te la grandezza suprema, inoppugnabile, divina, per una estrema istanza.»

Agamennone:
«Ma se l'esultanza della fine non è che l'auspicabile conclusione d'ogni dramma, cos'è allora, la vita che pur nel dramma si consuma? Una parte forse? Un ruolo? Un tragico copione? O, forse un miserevole inganno? Dimmi, quale sconsiderata opinione ha dell'umana sorte chi come te mette in gioco la vita altrui?»

Eschilo:
«Ogni singola parte certo, ostenta una qualche divina ispirazione commensurata al tema, lega inscindibilmente il mondo divino a quello terreno, l'intervento della divinità qui preposta e invocata si riconduce all'unico profetismo oracolare che l'ha ispirata. Tuttavia, valutata sul piano delle tensioni umane, essa porta irrimediabilmente allo sgomento, all'orrore, alla paura che precede l'incedere divino. Che non già il mortale affanno vorrebbe l'autore per ogni suo personaggio, ma la sua stessa vita. Quella vita a cui egli anela nel segreto della sua esistenza . . .»

Agamennone:
«Di quale di queste parti tu dunque rivesti gli aurei panni?»

Eschilo:
«D’entrambe, ma altro non sono che l'intermediario ascoso, che rapito dall'enfasi divina mi getto nel vortice dell'esistenza umana con la stessa rabbia che tu riponi nella battaglia, poiché di brame, come la tua, è fatta la mia stessa vita, e di ciechi deliri. Fin quando ebbro del privilegio dell'ispirazione che il cuor m'infiamma, cerco in me il giudizio esemplare, ché la verità infin io colga, che non già il divino assumere a modello deve l'autore del dramma, ma ciò ch'è sublime.»

Agamennone:
«Un altro giorno … un altro destino, è ciò che io chiedo, null’altro.»

______nèmèsis (ordine ed equilibrio)

Eschilo:
«No, non a me spetta di giudicar ciò che ad altri s'adduce, la responsabilità del tuo destino lasso. Sublime è la tensione nell’animo di colui che giudica, la capacità di estendere oltre i limiti dell’immaginazione i propri limiti, i suoi stessi principi, e maggiormente quando il suo ruolo è catartico alla finzione. Se come tu dici, la tua maschera altro non è che l'altra faccia d'un austero sdoppiamento cui io mai diedi volto, sappi che in alcun caso, si rivela così tangibile la tua dualità. E la tua stessa presenza in questo buio arcano quasi mi fa paura, acciò ch’io vedo venirmi incontro il tuo essere mitico, e la tua ombra dentro l'ombra stessa del buio.»

Agamennone:
«E se la ragione di tanto affanno non fosse che un'ultima istanza? Se all'onore di una giusta morte io anteponessi la continuità della mia stessa vita?»

Eschilo:
«Un miserevole inganno dunque?! Che non la morte chiedi di condurti nell'Olimpo degli eroi, ma la pretesa continuità della tua vita.»

Agamennone:
«Se non tua fu la sentenza che m'incolse in qualità d'eroe, tua è quella ch'or m'incombe di voler essere uomo? Ma è come tale che a te io chiedo di cancellare ogni ombra di dubbio, ché a un diritto sacro io faccio appello: d'essere considerato in vita ciò che non posso essere da morto.»

______mimèsis (imitazione, consenso)

Eschilo:
«Mi chiedo chi più di me può voler soddisfare un desiderio sì grande, un sì regale compianto? Acciò, la divina Mimèsis io chiamo, che interceda per me presso i sempiterni déi che già emisero sentenza, e sciogliere così il sacro veto della storia, ché un diverso svolgimento consentano infine della tragedia antica. Che non già il pagamento d'un riscatto qui si conviene, ma un'ultima istanza, che ti veda assolto nella segreta intimità dell'ombra, affinché tu possa riemergere entro una realtà diversa, che purghi l'eccesso delle pene e che l'eroe che fosti torni a essere l'uomo . . . lasciami pensare.»

______stasimo

Eschilo:
«Una rinuncia dunque, in cui tu ombra possa trovare nell'illusorietà del tempo, un'altra identità, dimentica dell'essere appartenuta al mito. Ché d'Agamennone infin non rechi più traccia, e che dell'intimo essere tuo, indifferente dell'immortalità concessa, altro non sia che unica testimonianza vera: d'essere stato umano fuor della scena. E non chiedermi come? Io stesso non saprei, ma in onor della finzione che il teatro m’offre, credo di poterlo, forse … Ordunque: riprendiamo da qui la scena! E tu, togliti codesta maschera! Ch'io possa infin guardarti in viso!»

Agamennone:
«Tuo è il dubbio, Tu dunque compiere devi il gesto supremo.»

______epitrope (decisione, arbitrio, appello)

Una conscia percezione di fatuità incombe in Eschilo nel preciso momento in cui egli si accinge a togliere la maschera dal volto dell'attore che ne ostacola la presa con un atteggiamento di sfida, afferrando la di lui mano. Quando, liberatosi dalla morsa, Eschilo strappa con forza la maschera oggetto del suo ignominioso dubbio. In quello stesso istante un grido si leva alto nel ritrovato buio della tomba che lacera il silenzio. Un corteo di dolenti larve che reca poche fiaccole accese, fa il suo ingresso in scena, illuminando in pieno la figura di Eschilo, che quasi l'acceca, che in verità di nascondere chiede alla sua vista il vero volto del re . . .

Agamennone:
«Infine tutto è perduto, ed io di morir m'appresto col volto sfigurato dalla pena. Dunque non fui che una finzione, niente di più di un al di là prossimo a venire, e che per paradosso, a una ingiusta vita contrappone una giusta morte. Ma una domanda infine legittima s'impone: a quali leggi s'appella la speranza, a quale giustizia? E con te o Eschilo sia la verità, poiché giammai m'incolse l'astio sacrilego che i Numi impietosi ora rivolgono a me. Voi invoco o Erinni, che agli uni i canti donate, e ad altri lacrime e sospiri. Scacciate ordunque l'orrore della vendetta che tutto dissimula e inganna. Che la pietà s'impone infine per quei miei giovani figli che io lascio, che dei miei crimini sol io rispondo, e loro infin non abbiano a pagarne il prezzo. Pietà per loro imploro, e faccio appello al sempiterno Iddio che dei mortali tiene in mano il lume, di abbandonarmi sull'istante, sebbene l'alba sia lontana ancora, in questa mia estrema dimora, che dunque . . .»

". . mi sia dato morir, se dato non m'è da tanta pena scampo" (29)

Eschilo:
«Che la ragione infine prevalga sul pregiudizio, sull'odio che acceca, e che ognun accetti il suo destino, sia esso fausto o nefasto, debito oppur iniquo. E poiché la vita è al dunque ciò che più conta, conforto sia la speranza d'una qualche continuità, seppur possa sembrare vana. Non v'è giustizia che più valga di quella di veder nell'altrui scelta una ragione equa, nel rispetto della dignità dell'altro la propria dignità; nel pensiero e nella parola altrui la propria libertà, l'onniscienza d'ogni ragione umana. Ognun che alla ragione il vanto oppone d'essere giusto nel giudicar l'altrui misfatto, rifugge l'onnipotente giustizia degli déi, che nell'al di là solo prevale un patto: che di giustizia una può vantare il mondo».

Agamennone:
«Ordunque?»

Eschilo:
«Altro non v'è, che il solo giudicar genera colpa; ciò che non menziona il manifesto Ade, quando dal profondo infin caccia costui nel tenebroso nulla. Ed or che giunta è l'ora del ritorno, ancor prima che il velo plumbeo di questa notte, stringere io veda nel colore viola della morte, non tanto il trionfo del giusto o il castigo del colpevole io chiedo, quanto di assolvere gli errori della tragedia umana, e attribuir le colpe a quegli astiosi déi, che del destino degli umani ognor conduce gli inganni.»

Ma ancor che Eschilo abbia terminato il suo dire, le ombre dei trapassati si fanno a lui d'intorno, tornate per un istante ad esser carne . . .

Eschilo:
". . eppure non c'è olezzo di morte, ma di segreto vivere,
d'ombre nascoste, occultate a presenza di chi non può
vedere" (30)

Quand'ecco il lugubre corteo si ritrae verso il fondo della scena, come verso l'oscura profondità della tomba, e si dilegua dentro l'infinito nulla. Ciò che rimane della messinscena non sono che ombre fino a scomparire, come di un copione sconosciuto e segreto, in cui nel ricordo esse si muovono senza mai giungere sul luogo designato. E sono cento o forse mille, hanno il volto coperto di maschere d'argento, di ferro, di legno, di stoffa. Dietro di loro s’agitano le Coefore lugubri nel manto e si dispongono attorno al feretro del re ucciso, esposto al centro della tomba/scena. Giace il re Agamennone colpito da invisibile morte sul talamo di pietra, ha il volto scoperto, immagine di luminosa chiarezza di evidente attinenza al Fato – ". . ma proprio quella totale, irradiata visibilità, tiene l'occhio in sua balia, impedendogli di penetrare più a fondo" (31)

______stasimo

Choros:
«Qui, sotto il cumulo delle macerie sparse che il tempo sembra aver dimenticate, si dispiega l'irreale realtà del mito, e sì coinvolge che sorprende una temuta gioia, che al dunque appaga e sazia, fin dentro la tensione strenua dell'umano. E un brivido scorre nel presagio della fine, o forse, un lugubre silenzio di vaticinio. Sicché piangiamo l'eroe ancor vivo, per l'imminenza della sciagura che lo coglie. Una sorta di pietà concorde che lo enfatizza in vita, che lo esalta, e che lo spinge inevitabilmente nella profonda morte. Non qui, certo, si decide la sua sorte. Il Fato si è già compiuto altrove, quando al suo volgere dall'alto d'Ilio sacra in fiamme, egli impietoso, la spada impugnò contro i nemici suoi, e mercè egli non chiese agli déi dell'Olimpo, dei suoi passati errori e delle innocenti morti. Ed ecco, in quel preciso momento, si compie il Fato, il suo volgere alla fine. Nessuno mai potrà cambiare il corso del destino che incombe, poiché volgendo in bene quel che male è stato, si compiono gli inganni dell'umana sorte. Ne potrà il malvagio attendersi da noi pietà, poiché noi siamo il Fato, la voce intermediaria del tempo che si conduce, che ognuno dentro sé al dunque ode, ma che nessuno ascolta. . .»

_______esodo (uscita del choros dalla scena)

«Micene tutta restava muta, come lo è ora, chiusa nel cerchio di pietra delle sue possenti mura . . .»

______stasimo

Gli dèi, da sopra gli spalti assisi, ascoltano compiaciuti il narrare delle luttuose gesta, e attendono ansiosi che del teatro s'infiammino gli umori. È qui che si dà voce ai canti, che si destano gli umani sentimenti, che si suscitano gli entusiasmi, che si scandiscono i ritmi e le danze. È ancora qui, che fra le confuse espressioni del diniego e del plauso, si cerca l'emozione che trascina, la luce che talvolta acceca, la dimensione dell'oblio o la pietosa pace di un istante. C'è chi alla vendetta adduce e chi la nega. Chi, dopo un inizio esitante, improvviso si desta alla prostrazione, allo sconforto, o preso da supremo sdegno invita l'autore a riveder la parte. È infine qui che i tradimenti inflitti, le colpe cercate o talvolta soppresse, le morti inoppugnate, finiscono per dar consenso all'ineluttabile, in cui ogni cosa infine si conduce.
Ed è ancora quì che la scena, il concetto stesso di teatro, finiscono con l'essere una sorta di mondo estremo, irrazionale, imperscrutabile, in cui l'archetipo scaturito dall'immaginario si ripete, simile a se stesso, e prende possesso del soprannaturale. Gli eroi della tragedia così come gli attori sulla scena seguono la stessa sorte, agiscono in preda a una medesima suggestione che li fa muovere dal lontano passato nella futura memoria del tempo, dentro l’alone rinnovato del mito, e in un momento, li sospinge verso le vette estreme del sublime.

Nel definirsi simultaneo delle parti, in questo punto culminante della tragedia, dove tutto viene a confluire, è il tempo degli dèi che si mostra nel tempo degli uomini. E non tanto per il trionfo della giustizia e il castigo dei colpevoli, quanto per la concezione astratta che permette a ognuno di affrontare le proprie responsabilità, mentre attinge nell’intimo i motivi del proprio impegno, della volontà inconscia legata al timore reverenziale del divino, costretta dalle potenze sacre che la investono dall'interno.

Ma è questo anche il tempo degli eroi, che di fronte alla necessità di agire si mostrano alle soglie dell'azione, al bivio di una decisione che impegna il loro destino, e che si trovano costretti a una scelta difficile ma ineluttabile. Tale è il prezzo che Agamennone deve pagare in quanto acclamato eroe di ritorno da Ilio, re amato che non ha voluto mancare verso i suoi alleati, verso i suoi guerrieri, i suoi stessi amici, con la prodezza del suo braccio, con il sacrificio della sua giovane figlia Ifigenia, e la distruzione sacrilega di una città con tutti i suoi templi dedicati agli austeri dèi, per la colpevole debolezza di un'ambizione, d'una vittoria o d'una sconfitta a cui non poteva sottrarsi.

Ed è di questa empietà che l’eroe/umano è chiamato a rispondere e in cui rivive la costrizione d'una illusoria scelta, tuttavia decisiva, che lo consegna alla sua dimensione tragica. Direbbesi un'istanza di prova, nella speranza che nell'unione mitica con ciò che lo avvicina al divino possa egli infine entrare nell'immortalità . . .

". . e un uomo che contempli tutt'attorno
la vita, in quale misura preponderante in
ogni cosa abbia potere lo straordinario,
il grande, il bello, subito capirà per
che cosa siamo nati" (32)

Ed è così che ogni cosa accade, e in tal senso si ripete, quando con il calar del sole, ogni rumore tace, per lasciar posto ai personaggi sulla scena . . .
Ma già gli attori indossano i costumi, i coturni e le maschere, giungono le austere donne, i sacerdoti pronti per celebrare il rito. Una sola voce si leva improvvisa, s'impone sopra le altre, mentre nella cavea gremita ogni altra si trattiene . . .

Choros:

". .Si lasci un po più di spazio nel mezzo!
Le comparse si mettano d'intorno al grande
bracere di bronzo.
Le donne, lì in semicerchio, sul davanti,
quasi sul proscenio. .
. . e quelle luci, laggiù, in crescendo, a
un certo punto, devono arrestarsi e dare
l'effetto ardente della fiamma.
Prova!" (33)

“E se ciò non fosse che un miserevole inganno?” Se avere accesso all'eterno significasse soltanto rinunciare infine alla propria vita terrena? Come sopprimere quel che è dato d'essere in vita e soggiacere paghi all'annientamento della morte?” Queste e altre domande s'affollano improvvise alla mente dello spettatore attonito, teso nel sostenere ciò che il mito reclama:

"Non vi è senso alcuno già consegnato nel cosmo, possiamo solo industriarci a inventarlo, provvisoriamente (..) poiché senza senso, non si dà esistenza". (34)

Ma più che il sacro transito del vissuto come momento del destino individuale che supera di per sé i confini della vita e va oltre la vita stessa, l'esasperato passaggio attraverso la morte non sembra bastare a ricondurre la precarietà dell'esistenza umana alla purezza onirica della memoria ancestrale. Tuttavia, è proprio la morte, quella aulica e mitologizzata dell'eroe a consegnare la vita a un al di là aureo e raggiante, in cui si configura la memoria cultuale e filosofica della civiltà greca con la quale costantemente tutta l'umanità si confronta.

Ed è proprio lì, in quel suo anelito d'immortalità, così emotivamente sentito, che si pone l'eterna ragione del contendere fra l’uomo e la divinità. E mentre da un lato scopriamo la plus-valenza edonistica nella concezione umana, dall'altro, mai ci abbandona la consapevolezza dell'ineluttabilità della fine. E quale che sia la domanda, la risposta si protrae dal profondo sconforto di un'attesa intristita dall'inevitabile vivere nel costante addensarsi di stereotipe quanto assurde ‘figure dell’inganno’. . .

È ‘Allora (che) la "posizione dell'uomo oscilla, pare fragile cosa rispetto alla forza divina; (..) a volte pare invece ch'egli abbia una sua energia di decisione, per cui devia dalla retta strada e si costruisce da sé il male" (35), e nel quale in fine si ritrova coinvolto. Al dunque cos'è mai la vita?, se non transito, prepotenza, sbaraglio, desolazione, paura, sofferenza, balzo nel vuoto, precipizio, schianto, agonizzo, orrore, se non corsa affannosa verso l'ignoto, verso l'invisibile astratto?

Cos'è mai la morte, dunque? Se non azione, godimento, viaggio estremo, sacro anelito, urlo trionfante, luce assoluta d'un tutto sfolgorante; se non il culmine dell'esperienza, spogliata dalle cose sensibili, che diventa interiore e che più s'avvicina all'indicibile idea del divino? Cos'è l’esistenza?, se non un'ultimo esultante anelito che si fa supplica, preghiera, certezza di legalità, di giustizia, speranza di pace: "..che pone le sue radici nei sentimenti di inquietudine e di orrore dell'infinito; che prende le sue mosse da quel senso di misto sgomento e piacere determinato dall'assolutamente grande e da ciò che suscita nell'uomo il senso della sua fragilità". (36)

Che senso può mai avere l’ostinazione di scrutare l'impossibile, il continuo volersi spingere nella ricerca di qualcosa che mai si consegue, ma che pure sentiamo di dover cercare? Quantunque una risposta sia stata già data, la più semplice e la più emblematica di tutte, è scolpita nella dura pietra e stanzia ancor oggi nell'aria come un epitaffio, rivolta al visitatore di ieri come a quello di domani: "Conosci te stesso, evita l'eccesso”; quasi che la sua essenza, tesa a stabilire un sostanziale dominio delle parti, tenti di contendere all'umano ciò ch'è solo del capriccio divino. Mi chiedo quale forza occulta osteggi talvolta l'esile volontà umana? Quale oscuro disegno affranca il geniale edificio della tirannide divina, se non la segreta speranza d'una imprescindibile superiore giustizia (?).

Forse non arriveremo mai a conoscere, a quale fonte attinga l'esperienza umana quando, facendo leva sulla propria sovrabbondanza di senso si libera dalle forze ambigue e incontrollabili che la governano. A quale occulto potere essa s'appella, quando nell'affermare la propria capacità d'astrazione finisce per dare consenso alla divina Nèmèsis, tutrice e conservatrice dell'ordine e dell'equilibrio dell'universo intero, la cui potenza ci restituisce l'illusione della sua ‘apparenza’, di un destino effimero sospeso nel vuoto, per quanto, quale che sia il potere intrinseco, poco o nulla aggiunge al mistero che avvolge il sacro istituto dell'esistenza. Ciò nondimeno – mi dico – che a quest’ultima insondabile interrogazione, manca la condizione essenziale che accompagna l'evento emozionale del sacro; quello smarrimento ultimo, estremamente umano, che sempre emerge dalle profondità della psiche e che trova accesso nel vuoto onirico dell'inconscio, nel desiderio di luce che pure risplende dell'aura luminosissima del sublime.

Ma come fin qui abbiamo appreso: "il destino dell'uomo è di meteora accesa, astro esploso in cielo, a cui si fissano, quasi per culto, gli sguardi di tutti (..) e il disincanto costituisce la risposta alla millenaria domanda sul senso"; così che l'esistenza risulta essere quasi “apprendistato di morte", e solo "chi ha raggiunto la chiarezza solare della verità; la condizione della purezza, dopo il passo, che non è più varco da esorcizzare, ma scioglimento da attendere con fiducia e amore" può "vivere la morte come liberazione estrema." (37)

È forse in questo la nostra umana inesprimibile inferiorità: "che non sappiamo il senso della nostra vita. E non possiamo saperlo. Ma che dobbiamo inventarlo, se ne siamo capaci." (38) Quel senso ‘altro’ e ‘supremo’ che fa da ponte tra la nostra piccola vita e la ‘fede’ in quel qualcosa di più grande che pure esiste al di sopra di noi tutti e che dà valore al nostro operato, la ‘convinzione’ che ci restituisce, nella consapevolezza dell’umana grandezza, la certezza della nostra esistenza.

Allora ‘cos'è la vita?’ si chiederà il lettore, nella speranza di trovare delle inconfutabili risposte: Cos’è “..Se non una maschera arcana scaturita da chissà quale abisso della mente che si ripropone come metafora d'un immaginario lontano, fatto di paura e di morte, che proprio nel momento in cui si annulla, fa ritorno al presente e si unisce al principio della vita che continua, substrato entro il quale si sgretola e si dissolve ogni sua forma mortale.” (39)

Cos’è se non una maschera iniziatica, una ‘figura dell’inganno’ lasciata cadere nel mezzo dello svolgersi di un dramma entro il quale si celebra, attraverso l'interpretazione luminosa del mito, l'eroe liberato per un istante dalla suprema concezione annientatrice della morte, la sua estrema vittoria umana, ultima, finale, immensa.

E che cos'è, chiede a se stesso l'uomo ritrovato, la riscoperta della Grecia antica? Se non un fuoco che ancor divampa e brucia, se non il riscatto della scontata pena, in cui si erge e si placa un'ultima speranza, se non il viaggio a ritroso verso la Grande Madre pria. Cos'è? Se non l'idea vagheggiata d'una giustizia suprema: se non un inno che al sole si leva, quando istantaneo abbaglia. Cos’è se non l'anelito al sublime, che agli dèi rimena ciò che all'eterno attaglia . . .

". . Musa, lascia le guerre e canta tu con me
le nozze degli dèi,
canta i conviti degli uomini, le feste dei beati" (40)



Note
(*) “Agamennone ..o la maschera ‘ingannevole’ del mito” è tratto da una piece teatrale inedita di Giorgio Mancinelli: “TRAGODIA: Cronache della Grecia antica”.

(**) I versi di apertura d’ogni capitolo sono di George Seferis, tratti da “Poesie”, Arnoldo Mondadori Editore - Milano 1989.

1) Friederich W. Nietzsche, “Verità e menzogna” - RCS 2010
2) Giulio de Martino, “Paradigmi dell’ozio” - Edizioni Intra Moenia 2007
3) Sigmund Freud, “L’interpretazione dei sogni” - Boringhieri 2011
4) Carl G. Jung, “L’uomo e i suoi simboli” - Cortina 2009
5) Rudolph Harneim, “Il Pensiero Visivo” - Einaudi 1974
6) 7) 8) Carl G. Jung, “Tipi psicologici” - Mondadori 1993
9) Carl G.Jung, “Opere” Vol.IX - Boringhieri 1980
10) Martha Nussbaum, “Coltivare l’umanità” – Carocci 1999
11) Claude Lévi-Strauss, “Antropologia strutturale” – il Saggiatore 2009
12) Èmile Durkheim, “Il suicidio” - BUR-Rizzoli 2007
13) Walter F. Otto, “Il mito” - Il Nuovo melangolo 2007
14) Marcel Schwob, “Il re dalla maschera d’oro” - Moizzi 1983
15) P. Flores D’Arcais, “Etica senza fede” - Einaudi 1992
16) J.Campbell, “L’eroe dai mille volti” - Feltrinelli 1984
17) P. Flores D’Arcais, op. Cit.
18) Anonimo, “Il Sublime”- Mondadori 1991
19) H. Hesse, “Religione e Mito” - Mondadori 1989
20) P. Flores D’Arcais, op. Cit.
21) Anonimo - “Il Sublime”, op. Cit.
22) Teognide, in “I Lirici Greci” - Einaudi 2008
23) Minnermo, “Come le foglie”, in “I Lirici Greci”, op. Cit.
24) Karoly Kerenyi “Miti e Misteri” - Boringhieri 1979
25) Karl G. Jung, “Opere”, op. Cit.
26) K.Kerenyi, op. Cit.
27) Omero, “Inni Omerici” - Mondadori 1975
28) Eschilo, “Agamennone”, in “Il Teatro Greco” - BUR-Rizzoli 2006
29) Eschilo, op. Cit
30) Saffo - in “I Lirici Greci”, op. Cit.
31) Frederick Nietzsche, “La nascita della Tragedia”, Adelphi 1982
32) Eschilo, op. Cit.
33) Anonimo, “Il Sublime”, op. Cit.
34) Marcel Schwob, op. Cit.
35) P. Flores D’Arcais, op. Cit.
36) Ezio Savino, “Preghiera e rito nella Grecia Antica”, Mondadori 1986
37) Eschilo, op. Cit.
38) Anonimo , “Il Sublime”, op. Cit.
39) Joseph Campbell “L’eroe dai mille volti” - Feltrinelli 1984
40) Marcel Schwob, op. Cit.


Il testo per esteso è edito da “Quaderni” di Inschibboleth N°5 - ‘Figure dell’inganno’, che ringrazio per il cortese prestito.

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