Pubblicato il 27/11/2016 07:12:29
Tratto da “Quaderni” di Inschibboleth N°5 'Figure dell’inganno'
AGAMENNONE ..o la maschera ‘ingannevole’ del mito.
“Mi sono svegliato con questa testa di marmo tra le mani e non so dove posarla.” (G. Seferis)
Kolophon, (cima, sommità).
Con l’affermarsi dell’individualismo moderno molti legami del passato sono tramutati in principi cardine di talune relazioni sociali dando luogo a gerarchie dinamiche di accettazione e/o esclusione foriere di conformismo e/o oppressione, che si collocano nello spazio-tempo della storicità attuale. Sono entrate cioè, già in illo tempore, a far parte di quella ‘storia universale’ che tutti noi andiamo scrivendo, vuoi per quella sorta di ‘empatia’ che dalle origini dei giorni e, straordinariamente, dopo la liberazione della coscienza antropologica proiettata nel futuro della nostra era, giunge al pieno sviluppo dell’immaginazione collettiva. Sviluppo questo che dagli inizi sapienzali del pensiero umano, passando dai saperi locali (antropologici) legati alla terra e alle stagioni, ai legami comunitari (di razza, etnia, popolazione); come pure dalle pratiche sociali dei ‘riti di passaggio’, alla socialità conviviale delle ‘azioni solidali’ come concepimento del ‘pensiero unico’, fino alla moralità associativa di un certo ordine e convogliato nell’atto etico (politicamente corretto), è giunto a noi attraverso la filosofia e la metafisica con la nascita del pensiero tragico e alll’acquisita certezza di un’autonomia sociale (solidarietà ed economia alternativa), la cura dell’ambiente (sostenibilità ambientale), ecc. che avrebbero dovuto garantire nuovi ideali di ‘libertà’ e di ‘giustizia’ individuale (utopia filosofica) a tutti gli esseri umani a livello mondiale. Allo stesso modo che oggi la ‘globalizzazione’ avrebbe dovuto essere portatrice di un’adeguata ‘sobrietà’ (comportamentale) come ‘visione metafisica’ delle cose della vita, soprattutto per l’idea di linguaggio come prodotto di interpretazione economico-politica all’interno di un ‘codice sociale’ unico, per l’appunto ‘globalizzato’. Quesiti che già secondo Friederich W. Nietzsche (1) “..si possono considerare un capovolgimento della filosofia pessimistica di Schopenhauer organizzata intorno a due nuclei organicamente collegati: uno metafisico e uno razionale. Da un lato l’affermazione della filosofia tragica dei Greci; dall’altro una sorta di scetticismo (di noi moderni) come arma di difesa e offesa contro la filosofia sistematica, in ogni caso di un rigore logico autoaffermativo che rende pensabile quello che non lo è, cioè la realtà”. Una realtà in certo qual modo ‘possibile ma non pensabile’ che ha contribuito alla diffusione di ‘ideali generici’ sul piano etico-morale e che, una volta entrati nel lessico costitutivo delle politiche governative, oggi ci paiono piuttosto decontestualizzati per l’avvenuta demarcazione messa in atto dalla globalizzazione stessa; vale a dire, avulsi da quella ‘responsabilità’ e ‘solidarietà sociale’ che dovrebbero concernere a ognuno, sia a livello individuale, sia comunitario. E che altresì corrisponde un’accertata deprivazione e vulnerabilità della ‘realtà’ che già nella visione di Nietzsche pareva non avere più alcuna sostanza; cioè accolta in un’etica dell’ ‘inutile’ arresasi a una sorta di ‘moralità fluida’, altresì svuotata d’ogni principio fondante lo sviluppo dell’immaginazione narrativa: “Da ché la realtà non è pensabile perché non esiste una qualunque stabile costituzione delle cose” – scrive ancora Nietzsche sollevando così un’ulteriore interpellanza: ‘Che ne è allora della ricerca della ‘verità’ in quanto marca obliterata della ‘realtà’, allorché sono venuti meno i legami col passato e che pure la storia attuale dimostra ampiamente?’ Ovvero: ‘Quale declinazione attribuire alla forza che quotidianamente abbatte definitivamente quegli stessi valori che pure rendevano solidali i rapporti di responsabilità e di appartenenza che davano spessore alla originaria ’empatia’ antropologica, che pure aveva reso possibile il pieno sviluppo dell’immaginazione collettiva?’ A entrambe le domande si conviene con una sola presumibile risposta, fondante l’identità sia individuale che collettiva, determinativa sia del ‘pensiero unico’ che della ‘morale associativa’, ambedue formative di quella che oggi riconosciamo come ‘coscienza mitica’ della nostra società: “Certamente la modernizzazione dei costumi e delle idee – scrive Giulio de Martino (2) – non è approdata ad un risultato integrale ed esaustivo, si è sempre dovuta misurare con fattori limitanti, con istanze individuali e sociali di tipo politico, religioso, artistico ecc. Di fronte ai mutamenti dei comportamenti innati e acquisiti, alcuni autori hanno rilanciato dottrine evoluzionistiche e adattive, hanno magnificato il nuovo tipo umano: l’uomo dell’epoca della tecnica. Malgrado l’indole più profonda, l’emozionalità e l’istintualità dell’uomo, siano rimaste largamente immodificate rispetto alle modalità arcaiche. (..) “Tutto cambia, nulla cambia” (dissoi, logoi – dicevano gli antichi greci), e l’uomo moderno non è altro che un ‘travestimento’ non sempre riuscito dell’uomo arcaico”. Travestimento che ha visto il trasformarsi dall’origine antropologica dell’individuo in una ‘maschera’ artificiosa quanto ineluttabile che fin dall’antichità è stata assunta a effige del quotidiano in sostituzione della ‘realtà’ rappresentata dalla ‘persona umana’, il cui ruolo ha permesso l’azione propedeutica alla mistificazione del teathron, ovvero dell’inganno perpetrato dall’attore sulla scena, entrato poi a far parte dell’immaginazione narrativa. Quella stessa che legata in origine alla rappresentazione tragico-sacrale degli antichi Greci, ha dato forma alla maschera teatrale cui gli antichi adducevano un'intrinseca dualità espressiva che s’imponeva e, al tempo stesso, si metteva in causa sulla scena, unica vera protagonista del dramma rappresentato. Ma se per un verso la maschera esaltava il lirismo poetico dei personaggi, sempre tesi tra la morale antica e la coscienza dei moderni, fra mitologia e realtà storica; per altro verso, essa occultava le vere sembianze del volto che la sosteneva, per rivelarsi poi, dentro un divenire metafisico (metateatro), posto a metà strada fra l'umano e il divino. Ad un'analisi speculativa degli elementi che la compongono la maschera si rivela di natura ontologica, in quanto chiave di lettura di quei simboli attivi che, posti in connessione l’uno con l’altro, danno forma alla sintassi razionale di un concetto irrazionale: “Una conseguenza della negazione della ‘realtà’ come negazione della ‘verità’, come di ciò che per principio corrisponde alla realtà”. Che cos’è allora quella che noi chiamiamo la verità? “La verità – risponde Nietzsche – è l’errore di cui abbiamo bisogno per vivere” … o, forse – aggiungo – solo per accettare di dover morire (?). Allo stesso modo che Eros e Thánatos, cari agli antichi, oggi continuano a esercitare quel contrasto che tuttavia si afferma come ‘costante’ dell’odierna simbologia, in quanto rispettivamente emblematici l’uno della ‘pulsione di vita’ e l’altro della ‘pulsione di morte’ che li tiene legati a quel dualismo irrisolto, tra ‘mimesi’ e ‘catarsi’ che Sigmund Freud (3) sintetizza come ‘negazione della morale individuale’ (autolesionista), e ‘negazione della morale sociale’ (in quanto crea caos nell’ordine universale). “Se l’immagine agisce come simbolo nella misura in cui raffigura cose ad un livello di astrazione più alto di quello cui si trova il simbolo stesso”(4), allora “l’astrazione è il mezzo mediante il quale la rappresentazione interpreta ciò che raffigura”(5). Ecco quindi che la conoscenza dei simboli naturali, cioè di quei simboli entrati nella concezione popolare e in seguito divenuti culturali, si rende necessaria per una lettura significativa dell’origine della maschera da attribuirsi allo stato inconscio della parola. Lettura questa, che consente di entrare in stretto rapporto con ciò che la maschera rappresenta e penetrare nella sua arcana bellezza; sia anche di restare prigionieri del potere che la sua ‘ingannevole’ immagine esercita sugli umani e sulle cose. Simbolismo che va necessariamente interpretato e che Carl G. Jung (6) ha posto fra gli ‘archetipi’ di sua concezione, la cui conoscenza si rende necessaria per un'interpretazione strettamente inerente a una rappresentazione piuttosto ‘onirica’ del mondo e della vita cui la collettività attribuisce importanza psicologica e che, quasi a voler esorcizzare se stessa, esterna per mezzo della rappresentazione visiva. Tuttavia un'indagine del ruolo specifico della maschera tendente a conferire ad essa un’identità culturale ‘archetipica’ può risultare vana o quanto mai generalizzante, perché non connessa con la sua natura accidentale e mutevole, alla quale meglio si addice il gioco sottile e intelligibile della mimesi. “E poiché l'anima non pensa mai senza un'immagine” (7), la maschera non può che esistere nella misura della sua essenza metafisica, alla cui visualizzazione contribuiscono molteplici atti di formazione mutuamente interconnessi, selettivi, astrattivi e finanche creativi. In quanto tale la maschera è quindi la complessa visione di un’astrazione che attraverso l'esperienza della forma, s'impone come rappresentativa della ‘persona’ tra le immagini archetipiche fondamentali: al tempo stesso figura ‘dualistica’ e ‘ingannevole’ perpetrata nella memoria collettiva mediante il confinamento di chi la indossa a un ruolo secondario. Pertanto la scomposizione dei singoli elementi che la compongono porterebbe inevitabilmente alla distruzione dell'archetipo che in sé costituisce. Allo stesso modo che, una volta indossata, la maschera trascende il volto e/o la figura intera entro un ‘tempo’ statico che agisce all’interno d’una eternità, alquanto oggettiva/soggettiva, rappresentativo d’una continuità virtuale della vita. Ne è un chiaro esempio la maschera funeraria, ampiamente visualizzata nell'arte di molte popolazioni antiche, che si pone alla nostra attenzione per la complessa simbologia e la stupenda capacità di sintesi raggiunta, intesa a valorizzare quella che è forse la sua più affermata raffigurazione, catartica della “vita oltre la vita”. Rivestita di significato simbolico, la maschera che nel teatro antico svolgeva un ruolo apotropaico in cui l'attore diveniva oggetto dello straniamento in atto nel momento in cui il personaggio rappresentato s'avvicinava alla sacralità entrando in contatto con la divinità/eroe/eroina evocata. La necessaria catarsi agiva sull’identità di chi la indossava, lasciando posto a “..un ‘io’ più universale e al trascendimento all'autocoscienza, indicata come meta da conquistare attraverso lo sforzo, il rischio di morte e di prova”(8). Come infatti ancora oggi avviene, ma – ". .solo quando l'anima dell'ascoltatore vibra all'unisono con quella dell'autore; solo quando egli si trova in uno stato psicologico di tesa sospensione, in cui i limiti della propria personalità si annullano, si può giungere a percepire la sublimità, che associa alla stessa esperienza il poeta che crea e il pubblico a cui si rivolge" (9). Subire il fascino della maschera significava entrare nell'entità incommensurabile dell'assoluto in cui la vita e la morte terrene infine si eguagliano, l'una compenetrata nell'altra. Una chiave di lettura questa che consente un più stretto rapporto con l'immagine che la maschera rappresenta, onde penetrarne l’arcana bellezza ancor oggi significa restare prigionieri del potere che esercita sugli uomini e sulle cose. La sua funzione rituale risulta altresì determinante allo straniamento delle parti in lotta, le quali si contrastano e si completano a vicenda, alfine di creare quella situazione drammatica da portarsi a compimento sulla scena. Condizione che ‘l'immaginazione narrativa’ nel dramma o nella tragedia, si poneva come ‘paradigma’ allo scopo di giungere a percepire, al suo fulcro, il ‘sublime’ del messaggio dell'autore. Come anche scrive la nota studiosa di filosofia greca e romana Martha Nussbaum(10): “L’immaginazione narrativa è dunque uno strumento necessario per prepararsi ad affrontare correttamente l’interazione morale. Abituarsi ad agire in maniera empatica e riflettere sull’interiorità di chi ci troviamo di fronte concorre alla formazione di un certo tipo di cittadino e di una certa forma di comunità: una comunità che approfondisca e sviluppi la sensibilità simpatetica nei confronti dei bisogni degli altri e che comprenda in che modo le circostanze orientano questi bisogni. (..) Si può giungere a questo risultato grazie al modo in cui l’immaginazione letteraria spinge ad interessarsi al destino dei personaggi e rende manifesta la loro ricchezza interiore, cosa non immediatamente visibile.” Con ciò siamo alle soglie di quel mondo interiore (nel subconscio freudiano), che ha condotto alla conoscenza del ‘sé’ improntata al raggiungimento di una più completa consapevolezza sociale dell’universo antropico e di una visione sicuramente più unitaria di quella catturata dalla rete delle immagini visibili e/o invisibili che hanno portato alla costruzione del ‘pensiero mitico’ di Claude Lévi-Strauss (11) e delle strutture profonde, universali e atemporali, che soggiacciono al pensiero umano. Strutture che già Èmile Durkheim (12) aveva dimostrato “..non essere spiegabili come fenomeni socio-culturali a se stanti, o frutto di scelte individuali volontarie e consapevoli, ma in termini di rappresentazioni collettive”, non in ultimo, concernenti proprio un certo modo di ‘fare teatro’ come di fatto avveniva nella tragedia attica. Successivamente, con la proiezione dell'inconscio che diventa per Sigmund Freud uno degli strumenti più importanti per la comprensione dei sogni, ‘l’immaginazione narrativa’ compie un passo fondamentale per il raccordo mitico fra antropologia e psicoanalisi, o meglio fra struttura psicologica e compagine culturale. Secondo Freud infatti, il sogno traduce i movimenti profondi dell'inconscio, evidenziando l’importanza del linguaggio onirico usato nell’immaginario sia analogo a quello dei miti e quindi la necessità di decifrarne il particolare simbolismo. Il ‘mito’ qui di seguito attribuito ad Agamennone va letto in funzione di una paradossale “..manifestazione collettiva altamente elaborata dello spirito umano, di cui rivela e, al tempo stesso dissimula, certe tendenze inconsce” (13). Prigioniero di un preconcetto invalicabile e tuttavia rivisitato attraverso la lente d’ingrandimento dell’invenzione letteraria, ‘Agamennone’ il cui ‘culto’ è attestato in età storica in diverse località dell’Attica, si pone all’evidenza in questo testo in cui si fa uso del linguaggio teatrale, il solo capace di riaccendere i riflettori sui ‘luoghi storici’ che un tempo hanno idealmente significato, allorché la Grecia tutta era il faro della civiltà e della cultura del mondo intero. Linguaggio ‘tragico’ dunque anche se qui di seguito scomposto, per così dire, destrutturato dalla sua funzione primaria allorché protagonista di un’azione drammatica empirica che di colpo lo investe da un accadimento post-mortem, allorché Agamennone si presenta al giudizio di noi moderni spogliato dei suoi poteri ‘divini’. Al tempo stesso decisamente diverso da quello più conosciuto di comandante supremo dell'esercito greco che Omero ci presenta nell'Iliade e da quello dell’eroe che nell'Odissea fa ritorno in patria e affronta le vicende tragiche che intersecano la sua famiglia. Dissimile inoltre dalle molte narrazioni riprese successivamente nei Cataloghi esiodei o le Ciprie di Stasino, dall'Orestea di Stesicoro alla Pitica 11 di Pindaro e dall'Aiace di Sofocle; nonché diverso dall’eroe che Eschilo ci presenta nell’Orestea, e da quello che Euripide pone al centro dell’Ifigenia in Aulide; nonché decisamente discorde dall'Agamennone di Seneca. In questa specifica piece (tratta da un ‘inedito’ di chi scrive) l’eroe di Ilio si mostra con il volto nascosto dietro la ‘maschera d’oro’ (a lui attribuita), che lo designa dell’identità regale e che, al tempo stesso, stigmatizza, già al suo apparire sulla scena, la condanna dei posteri per l’inganno che dietro di essa si cela. Una sorta di decostruzione del ‘mito’ che lo contempla, relegandolo al ruolo dell’impostore mendace, nell’affrontare il sacrificio dello sdoppiamento che dietro la maschera lo rivela, per immolarsi infine nella dimensione antropica della sua ‘figura umana’:
“Chi può sapere se vera (luce) o se inganno di dèi?”
TRAGODIA (Cronache della Grecia antica)*
“Mi duole d'aver lasciato scorrere un sì vasto fiume fra le mie dita senza averne bevuto neppure una goccia.” (G. Seferis)
_______epithaphion (epitaffio)
Nella pausa (del viaggio) non più lunga di un istante, tutto sembra che improvvisamente si taccia, ogni umano fermento trova in questo luogo toccato dal mito una battuta d'arresto. Un ché d'inaspettato che dal presente si spinge a ritroso nel passato remoto, quasi il propagarsi d’una lontana memoria che ritorna improvvisa. Allorché avvolta nell'astratta sospensione del momento, l’io (che è in me) assista al materializzarsi sulla scena dello svolgersi d'un dramma che non conosce appieno, e che forse trascinava con sé, attraverso quegli stessi luoghi che passo dopo passo andava rivisitando, quale ultimo confuso accolito per un autore segretamente amato: Eschilo. _______epitasis (tensione, intensità) Quand'ecco, fra il repentino accendersi e spegnersi dei riflettori e il via vai affrettato dei tecnici e delle maestranze, s'ode il frastuono delle assi gettate in terra onde preparar la scena che di Micene già rammenta il varco, nel momento in cui una folata di repentino vento che dell'estate ravvisa ormai la fine, fa stormire le fronde degli alberi, sollevando una nuvola di polvere che acceca per un istante lo spettatore attonito, e un brivido lo coglie, una sorta di furente affanno che incombe, come di ansia, come di fame . . . La tomba a tholòs quasi si disconosce immersa com'è nel paesaggio, coperta di secche sterpaglie e qualche insolito fiore di campo. Un solco netto nella terra e le pietre verticalmente esposte formano l'entrata: un limite invisibile che s'oppone al passo con un brusco arresto della luce che si posa per un ultimo istante sulla soglia, oltre la quale, il buio del baratro s’avviene. Come di cecità che improvvisa colpisce gli occhi di chi entra e ché, nel ricordo e nel rammarico di essa, s'arresta in bilico a poter cadere, nel vuoto. Filigrane d'argento e d'oro come bave di ragni ascosi, tengono i blocchi di pietra, sporgenza sopra sporgenza a formare gli infiniti anelli concentrici della volta espandendo lo spazio interno, sì da farlo sembrare un emisfero in moto che ruota vorticosamente, sottratto all'incessante mutare della luce, per rivendicare al buio l'utopia di ciò ch'è per sempre . . . Il passo indugia nel pietroso spazio della tomba, lì dove una cieca presenza s'aggira e lo sguardo vaga in cerca di un’ombra, o forse di un'anima che in sé prenda forma per identificarsi col vissuto. Come di potenza ignara che si manifesta al compimento d'una vicenda che si colora della luce empirica del mito, come corpo nel corpo stesso del buio, quasi parvenza dell'oscura vaghezza che si leva precaria entro una realtà vana: _______epos (poema epico narrativo)
«Micene tutta, restava muta come lo è ora, chiusa nel cerchio di pietra delle sue possenti mura. Sconvolta e inorridita davanti al fatto di sangue che avrebbe segnato la sua rovinosa caduta. S'apprestava a celebrare, senza sfarzo, le esequie del proprio re Agamennone di ritorno da Ilio con la vittoria in pugno. Vivo e tenace nel suo giungere lieto. Sfigurato e trafitto sul suo letto di morte. Non in battaglia ucciso, ma per mano di Clitennestra, sua sposa e madre dei suoi figli, che aveva diviso con lui il regale talamo di Atreo. Il rito funebre, celebrato davanti alla folla attonita avvolta nei lugubri panni, si svolgeva in un giorno sferzato dal vento, e grida e lamenti striavano il plumbeo cielo. Colonne di fumo si levavano dai bracieri accesi, e il mirto e l'incenso bruciati appesantivano l'aria d’un acre inesprimibile odore di morte. . .»
Agl’inni invocanti gli dei di placare l'ombra vagante dell'ucciso affinché fosse accolta nell'Ade, si aggiunse il compianto dei figli e degli amici, e di quanti avevano combattuto al suo fianco. Quando, atterrita, al di sopra di tutti levossi la voce delle donne in accorato pianto:
_______choros (coro/recitativo)
«Ecco colui che torna, quel poderoso Atreo, acclamato e tenace, che gli Atridi condusse alla vittoria. Colui che ordunque giace sotto il cumulo delle macerie, dei massi sconnessi, delle porte abbattute, il cui inquieto silenzio fa riaffiorare all'evidenza del presente, la mostruosità d'un perpetrato inganno: Agamennone!» Alla stregua d’un cadavere violato, sconvolto dalla mano sacrilega che ne ha turbato il sonno, carico delle ferite sanguinanti del sangue versato, Agamennone avanza con la spada in pugno, lentamente, attraverso l'oscurità della tomba. I suoi occhi ardono come fuoco che splende, dietro la maschera d'oro che gli ricopre il viso . . .
"A imitazione del re scarnificato, donne e guerrieri e sacerdoti (..) si levano dalle lontane tombe e vengono a lui incontro (..); hanno immutabili visi d'argento, di ferro, di rame, di legno, di stoffa; la fiamma rosea e porpora che irraggia dalla bronzea grata (..) del braciere acceso, fa brillare le maschere dei volti (..) e solo la maschera d'oro del re è maestosa, e veramente regale." (14)
Improvviso, s'ode un calpestio di piedi, un fragore di spade; qualcuno grida nelle segrete stanze ricche a oltranza d'agili scarabei. Poi, tutto tace, e come per l'addensarsi d'una ambiguità palpabile, s'accende di tonalità drammatiche la finzione della messinscena:
_______parodos (canto)
Choros: «Funesto presagio, quando Borèa sferzante e impetuoso ammassa le nubi nel cielo e le sospinge, le aggroviglia, le dipana; quando solleva le navi nel golfo e le scuote, e le sbatte con violenza contro la scogliera. Acciò, la sconfitta dopo la vittoria, lo scoramento che segue alla pena, al prevalere incerto che spetta all'eroe dall'oltraggiosa morte che all'Antica Madre rimena. Ordunque, una tragica sorte t'aspetta o Micene, il pianto dei tuoi figli e il tumulto delle anime in pena: ché il sangue versato non altri germogli a te condurrà, ma ortica e gramigna, sulle tue terre spoglie. Che già s'ode un fragore di legni alla deriva, e il frastuono che abbatte le tue poderose mura. Ieratiche nell'ombra si stagliano le figure delle Coefore pronte ad agitar le mani, e degli umani il biasimo annunciano per quegli eroi che degli dei or hanno il favore inviso». Egli dunque s'avanza, protagonista e sovrano, entro le spoglie austere, ma un segreto tormento lo insidia, il timore ispido e incessante di dover perdere davanti all'ipostasi suprema, la sua ineludibile finitezza d'uomo . . . _______stasimo (pausa, intervallo)
“Un peccato d'orgoglio nel tentativo di sottrarsi al proprio destino, di impadronirsene e produrlo (..) all'unico esperibile Tutto che è la propria vita individuale, l'esistenza concreta e irripetibile che a ciascuno è data nella incerta durata di una certa finitezza" (15); "quella promessa di autentica libertà e di potere, che avrebbe consegnato alla storia l'eco della sua umana avventura." (16) Nella lucidità del risveglio dall’ebbrezza della morte Agamennone “..vede intorno a sé l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza umana”, e non chiede di tornare a vivere. Una siffatta richiesta sarebbe vile per un eroe. Avvolto nella tenebra egli rivela una doppia natura: due aspetti contrastanti di un medesimo sé, segreto a quell’io che talvolta s'infiamma e grida dal profondo. L’oscuro che del proprio essere egli cela dietro l'apparente mutismo d'una maschera d’oro, segnano i limiti della propria condizione umana: "In virtù della quale egli rinuncia alla sua identità più propria, e al disagio della finitezza che l'accompagna, nell'illusione di poter accedere all'onnipotenza divina, integrandosi e annullandosi nel genere, sanzionandosi come mera replica di una presunta essenza umana" (17): ". . non tutti gli uomini hanno la consapevolezza innata di ciò che è giusto”. (18)
Una sorta d'orgoglioso sgomento traspare dai suoi occhi socchiusi, il cui inesorabile sguardo, vuoto nella terribile fissità dell'oro, conduce al di là d'ogni umano intendimento, oltre il quale, la verità degli uomini non ha più ragione d'essere. La sua maschera d’oro si leva in splendida solitudine al di sopra d'ogni altra, su tutte le altre, configurazione di un io idealizzato, imprigionato dentro l'essenza stessa della morte, sublimazione e trasfigurazione d'una dannazione eterna, o forse, dun’estasi divina (?). Sotto la maschera regale, riflesso dorato di quell'essere impetuoso che mai si arrese alla divina sorte, si cela un volto sfigurato, che si raccapriccia all'idea di dover "considerare l'incomprensibile, la mancanza di senso, come condizione preliminare di tutto ciò che può aver valore" (19) e "in cui ciascuno attinge valore in sé, invece di scoprirsi irrimediabilmente gettato in un ruolo che vale come destino naturale, come articolazione organica di una cosmica volontà fisica." (20) Sì, egli s'avanza nella recuperata memoria del presente dentro la morte, come un'ombra senza sembiante, che non un vero castigo opprime, ma a cui, la mancanza di una vera fede toglie il conforto d'ogni possibile speranza e lo induce a fuggire dalla realtà . . .
_______Mythos (mito - recitativo)
Agamennone: «Sì beffarda è la notte, quando chetati gli spiriti inquieti, s'affacciano le ombre dei vissuti a reclamare il bronzo del riscatto. Perché, mi chiedo, di questa morte oltraggiosa, che non reca vanto ad alcuno? Perché sì tanta crudeltà e il dispregio degli déi, per questo figlio d'Atreo che ad essi non rifiutò il sacrificio estremo? Di chi, per voler loro, condusse la propria spada in Ilio? Perché? Perché di sì orrendo delitto s'è macchiata la mano di Clitennestra? Oh! quali e inquietanti istanze affollano i miei pensieri, quanti angosciosi perché, premono alla mia mente, quale sorta di rabbia mi logora dentro e mi spinge all'astio, alla vendetta estrema».
E già la parola accresce il suo furore, l'incita alla vendetta, e un brivido percorre la sua mano . . .
Choros: «Di che ti lagni Tu, che ingiustamente uccidesti Tantalo, e che il suo giovane figlio strappasti dalle braccia di colei che poi prendesti in sposa? Di lui t’insegue la maledizione estrema, che mai lavò il subìto affronto. Tu, che d'Artemide l'ira placasti con l'immolare la tua diletta figlia Ifigenia, sappi che il sangue dei propri figli giammai può essere lavato. Tu, che coi nemici mai fosti pietoso, dell'empietà dei molti rispondere or devi, e della suprema vendetta dei giusti, la pena eterna paghi». _______stasimo
Quand'ecco la voce ferma del re erompe sotto la volta e fa tremare per un attimo la fiamma che nel braciere improvvisa divampa:
Agamennone: «Triste è il tempo di chi non s'aspetta pietà. O si, questo son io, queste le colpe, ma ben più è il castigo divino che mi danna a questa sopravvivenza di larva, morto alla vita, nella consapevolezza angosciosa di ciò che accadrà. O Ipnos, o Thanatos, o Ermete fraterno, giungete vi prego. O vaghe parvenze dell'invisibile, venite a colmare l'incolmabile attesa. Conducete, v’imploro, la mia anima inquieta verso quell'ultima silenziosa meta, dove io possa infine posar le stanche membra da sì cotanto affanno che mi strema . . .» «Meschina è l'esistenza di chi è oltraggiato, ignorato dalle amicizie d'un tempo, deluso dall'affetto dei cari, inviso agli impietosi dei, obliato nella memoria dei posteri. Ognuno di me conosce le colpe di cui mi macchiai un tempo, ordunque nessuno sa, invece di quale precipizio io sono sull'orlo, ché questo mio volto d'oro s'infrange contro lo specchio gretto dell'invisibile sorte. O, perché dunque, chiedo, l'autore di sì funesto dramma non reclama per sé il riscatto della pena e di un sì cotal destino?» Le anime dei trapassati si fanno in disparte e indietreggiano lentamente verso il fondo, nel mentre l’autore del dramma, invocato, incede attraverso il buio nella piena luce della fiamma . . .
Eschilo: «Caro agli dei già fui e ai mortali che della tragedia danno a me la palma. Qui giungo che Eolo mi chiama e riconduce a me il pianto d'uno dei miei eroi sì nobile e sovrano, che giammai mi dolgo di riaprire il canto. O Melpomene, o Musa alla memoria cara, ascolta questo prode figlio d'Atreo, che d'Agamennone oggi qui si discute il vanto. Per la sua morte il pianto leva tutta Micene, colpita da sì grave lutto, e del re ucciso declama or già l'orrore, ma non dimentica le subite offese, e del figlio suo, per i colpevoli, degli dei sovrani, la vendetta estrema chiede. E tu, prode Agamennone, riponi orsù la spada, che di sì tale fardello ancor la terra lagna. Io non così ti volli. Nella memoria dei molti or tu riposi da quel grande che fosti, come colui che alla sacra Ilio vincitor condusse gli Achei. Parlami, dunque, che chiedi? Quale verità nascondi dietro la maschera d'oro ch'io non ti diedi? Quale enigma? O, quale inganno? Che . . . » "..rispetto a tutte le altre, una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche" (21)
Agamennone: «Quell'io non sono al quale inneggiasti un tempo, quel guerriero impavido assetato di gloria, vittorioso forse, morto di niente. Dietro la maschera che vedi, teatro del disordine, si cela un altro io che non conosci, che urla, che s'agita e mai mi capita di scorgere me stesso; come se insieme al mio corpo, avessi io perduto la sostanza stessa della mia anima. No, quell'io non sono, bensì l'ombra di me. E solo mi è data la parola e l'angoscioso affanno. Allorché il re, con gesto remissivo, ripone la spada levata».
Eschilo: «Non biasimarmi ora per ciò ch'era scritto, nulla io posso contro il supremo giudice divino, ché la storia non tollera l'inganno di chi presume sostituirsi ad essa . . .»
"Colui che giace in gravi pene abbia coraggio, e domandi lo scampo agli dèi immortali" (22)
«La tragedia, è vero, pretende lo spargere del sangue, l'affronto, la vendetta, l'annientamento dei nemici sul campo, i suoi tristi esecrabili lutti; ma nulla, al dunque, può cambiare il suo volgere al fato . . .»
Agamennone: «Poiché giammai vengo ricordato per l'essere stato re, ma per il funesto destino che mi hai dato, ti chiedo di lasciarmi l'arbitrio della scelta: che non altro io chiedo che d'essere ciò che non fui mai, mortale fra i mortali, senza l'onore d'appartenere al mito. No, non so che farmene di questa veste regale, di questa eternità che d'una sola giustizia s'avvale. No, non so che uso fare di questa spada, di quest'armatura che mi costringe il petto. A te, del comando cedo volentieri lo scettro».
Eschilo: «Di rinunciare chiedi d'essere stato un prode? Rifletti prima di pronunciare simile bestemmia che rivolgersi potrebbe contro te stesso. E sappi, che ben poca cosa è la vita dei mortali che tu così ambitamente reclami. Ma proprio quella morte che tu abiuri, t'ha consegnato al mito, al quale ora appartieni . . .»
Agamennone: «Quale illusione l'eternità, quale congiura contro l'umana esistenza. Di quali angosce è segnato il cammino di chi come me persegue un'ingiusta sorte, meglio sarebbe stato per me morire a fil di spada».
Eschilo: «No, la morte non è né giusta né ingiusta, ma soltanto la fine d'ogni cosa umana. Il fato che alla morte conduce è strettamente soggetto alle forze soprannaturali che lo regolano, e a quegli astiosi déi ch'ora dispongono della salvezza o della rovina dei mortali. Or io, non posso qui cogliere l'immanenza del tempo che scorre, e una livida sensazione di sconforto prevale, precaria sul tuo destino d'uomo. Poiché la morte, costantemente connessa con l'oblio, conduce dall'esistenza al nulla “ . . che solo agli dei ed agli eroi del mito l'eterno afflato è dato”. Or che mi chiami quale giudice di parte, io ti ascolto, ma nulla può il voler mio, poiché altro non sono che l'autore di versi, e come tale posso soltanto scandagliare l'ignoto ch'è in te, e non cambiare il corso degli astri che già determinarono il fato … Orsù, venite, vi prego, che già l'ora c'inganna . . .»
Agamennone: «Ciò nulla ha a che vedere con quell'eternità cui tu inneggi. E questa maschera d'oro, riverbero arcano di una luce che non potrà essere mai, penetra e scalza l'immagine mia reale, opaca e nera, che l'oscurità profana di questa tomba a sé reclama. E un brivido spaventoso sovente mi coglie, e sempre presente è in me l'attimo che viene. Dietro la fissità ascosa nell'oro, si cela il volto mio mortale, la cui misera sembianza va ben oltre lo sfinimento e l'aberrante nullità dell'umana sorte. Ciò che chiedo infine cos'è? Nulla di più che di riaffermare il mio essere uomo».
Eschilo: «Chi mai oserebbe contrastare tale diritto, l'importanza d’una sì nobile motivazione? Tuttavia, ciò che tu chiedi, attiene al tragico dissidio fra l’ordine umano delle cose e quello divino che lo sovrasta. Una duplice casualità incorre sul tuo destino e ha comunque un colore funereo di morte. Sia che tu possa tornare a essere uomo e accrescere la tua regalità, sia che tu rinunci all’essere l’eroe, la scelta non cambia il verso delle cose, soltanto porta all'abbandono estremo . . .» ". . come varca la stagione il suo confine, allora essere morti è meglio che la stessa vita." (23)
«Che solo all'eroe è dato di conseguire il divino afflato, l'entrare nel mito che ad alcuno è dato. E ciò fin quando anch'egli, tornato a essere mortale, per traghettare l'anima sua sull'altra sponda, pagare infin dovrà l'obolo a Caronte. No, non ti fu data scelta, come neppure io l'ebbi nel consegnarti alla tragedia antica. E, poiché tale era il prezzo della tua ambizione, non con la spada incontrerai oggi il favore che non avesti allora. Né l'astio placherà la tua anima pregna. . .»
Agamennone: «Com'altro potrei? Cosa s'addice al guerriero quando nell'immanenza del trionfo che lo attende, sente avvicinarsi l'ora ineludibile della fine? Cos'altro mi resta se non di brandire questa spada, che la volontà degli déi mi ha data, quegli stessi déi ch'io servii senza esitazione alcuna? Avrei io potuto fare altrimenti? Ascolta, le anime dei senza onore s'agitano in mezzo a noi. Sono le anime spoglie che come me chiedono una morte degna del loro valore, e in cuor loro una sol cosa bramano: vendetta! Non sì indegnamente muore un figlio d'Atreo!»
_______stasimo Le ombre dei trapassati si fanno a lui d'intorno, cercano di afferrarlo, ne bramano le spoglie, poi, si ritraggono confuse, agitate entro il sortilegio che l'infiamma. Provenienti dal fondo s'odono i loro lugubri lamenti, le loro ombre s'intravvedono appena in controluce, mosse dalla tenue luce della fiamma. Urla sgomente si levano dal profondo buio della tomba. Agamennone nell'udirle è preso da cieco furore e brandita la spada l'agita con fendenti il vuoto . . .
Eschilo: «Aspettate! Non come supremo giudice sono d’innanzi a voi. Ma, acciò d'un prevalere irrevocabile che a ognuno acconsente la vita e l'onore della morte, io venni in quella di spettatore, che come voi si lascia coinvolgere nell’evolversi delle parti. E null’altro chiedo se non che la giustizia faccia la sua parte. E se non la pietà, ad egli ancor più s'impone dei giudici la speranza di ritrovarsi un giorno fra i mortali. Ordunque venite o sacre ombre della notte ad accomiatar colui che questo buio accoglie, che un'altra soluzione chiede consenso al dramma.»
Quandecco si levano le fosche dee ctonie, regolatrici dell'umane sorti, a ravvisare Eschilo di non dare ascolto al reo, ché un deplorevole inganno egli trama . . .
(Continua nella 2a Parte)
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