Esistono molti personaggi nella storia, appartenenti ai più svariati settori, dall’arte alla letteratura, dalla medicina alla tecnologia, e così via, che molto spesso vengono messi in secondo piano, o addirittura cadono in una sorta di oblio, quasi una damnatio memoriae potremo dire; forse o perché offuscati da loro contemporanei molto più famosi e celebrati, o a volte perché non sono stati compresi e apprezzati pienamente per il loro valore.
È il caso di Artemisia Gentileschi. La Gentileschi è stata una pittrice di grande talento sin dalla sua giovine età. Nacque a Roma l’8 luglio del 1593. Figlia d’arte, il padre era un certo Orazio Gentileschi, fu istruita alla pittura in casa dallo stesso genitore che subito ne intuì le potenzialità; a quei tempi, e ancora per molto tempo dopo, era interdetto a una donna studiare in accademia, così come fecero invece i fratelli di Artemisia.
Per quanto riguarda la sua pittura, la Gentileschi opera nel pieno barocco ed è riconducibile a quella corrente definita “dei caravaggeschi”.
Infatti, la pittrice sarà molto suggestionata dalla pittura del Caravaggio, benché forse non si siano mai incontrati, tanto da dipingere talvolta lo stesso soggetto. Un dipinto a questo proposito che merita di essere citato, è Giuditta e Oloferne, in cui è rappresentato l’episodio biblico della decapitazione del condottiero assiro Oloferne da parte della vedova ebrea Giuditta, che voleva salvare il proprio popolo dalla dominazione straniera.
Questo quadro, più famoso nella versione di Caravaggio, poi ripreso nella tematica dalla Gentileschi, è secondo alcuni, il risultato di forse un loro unico incontro, in cui assistettero entrambi a un’esplosione di violenza che riversarono successivamente nel dipinto.
Mi riferisco all'esecuzione di Beatrice Cenci condannata per parricidio, della matrigna e del fratello maggiore che avvenne la mattina dell'11 settembre 1599 nella piazza di Castel Sant'Angelo gremita di folla. Tra i presenti vi era proprio Caravaggio insieme con il pittore Orazio Gentileschi e la sua figlioletta Artemisia. Addirittura la giornata molto afosa e la calca, più il cruento spettacolo, provocarono la morte di alcuni spettatori; qualcun altro cadde ed annegò nel Tevere. Beatrice e la sua matrigna furono decapitate, mentre il fratello fu condannato allo squartamento. Quell’ episodio toccherà profondamente la giovane Artemisia, anche alla luce delle sue vicissitudini successive, tanto che alcuni studiosi reputano che nel quadro si possa vedere una sorta di desiderio femminile di rivalsa rispetto alla violenza sessuale che subirà da parte di Agostino Tassi. E proprio come lei, stuprata dallo stesso padre, Beatrice Cenci fu condannata per aver vendicato quella violenza mai creduta, uccidendo il genitore.
Anche Artemisia, come ho detto prima, subirà la triste esperienza dello stupro che all’epoca era un’onta da coprire, semmai da vendicare privatamente, come fece la Cenci aiutata dalla famiglia che finì così dal passare da vittima a carnefice, e a nulla valse neanche il tentativo dell’accusa di stupro verso il padre Francesco dell’avvocato difensore della famiglia Cenci durante il processo che la vide condannata insieme al fratello e alla matrigna per l’assassinio del genitore.
Artemisia fu abusata sessualmente da un certo Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva, presso il quale il padre Orazio aveva insistito affinché insegnasse alla promettente figlia l’uso della tecnica prospettica; invaghitosi di lei, il Tassi respinto la violentò, in casa Gentileschi stesso, approfittando dell’assenza del padre e della compiacenza di un servitore.
L’episodio segnò profondamente la vita, anche artisticamente della Gentileschi, che rimase sconvolta dall’abuso subito nella sua casa paterna. Il Tassi, dopo la violenza perpetrata sulla ragazza, arrivò persino a brandirla con la promessa di sposarla, per rimediare al disonore arrecatole.
A quell’ epoca infatti, il reato di violenza carnale si estingueva con il matrimonio riparatore. Artemisia cedette alle lusinghe dell’uomo e visse con lui more uxorio nella speranza di un matrimonio che mai sarebbe arrivato. Il Tassi infatti era già coniugato, e una volta scoperto, Orazio Gentileschi non poté fare altro, dato l’indignazione provata, che denunciarlo tramite una querela all’allora pontefice Paolo V, di aver deflorato sua figlia contro la sua volontà.
Fu così che ebbe inizio un lungo processo, mentre la Gentileschi era ancora profondamente traumatizzata dall'abuso sessuale, che non solo la limitava sotto il profilo professionale, ma la mortificava come persona e, per di più, oltraggiava il buon nome della famiglia. Ella, tuttavia, affrontò il processo con una notevole dose di coraggio e forza di spirito: ciò non fu cosa da poco, considerando che l'iter probatorio fu tortuoso, complicato e particolarmente aggressivo. Dall'impiego di falsi testimoni che, incuranti dell'eventualità di un'accusa per calunnia, arrivarono a mentire spudoratamente sulle circostanze conosciute pur di danneggiare la reputazione della famiglia Gentileschi, alle numerose visite ginecologiche lunghe e umilianti, che secondo la prassi la donna dovette subire, durante le quali il suo fisico fu esposto alla morbosa curiosità della plebe di Roma e agli attenti occhi di un notaio incaricato di redigerne il verbale.
Le visite, in ogni caso, accertarono un'effettiva lacerazione dell'imene avvenuta quasi un anno addietro, ma per verificare la veridicità delle dichiarazioni rese le autorità giudiziarie disposero persino che la Gentileschi venisse sottoposta ad un interrogatorio sotto tortura, così da sveltire - secondo la mentalità giurisdizionale imperante all'epoca - l'accertamento della verità. Il supplizio scelto per l'occasione era quello cosiddetto «dei sibilli», e consisteva nel legare i pollici con delle cordicelle che, con l'azione di un randello, si stringevano sempre di più sino a stritolare le falangi. Con questa drammatica tortura Artemisia avrebbe rischiato di perdere le dita per sempre, danno incalcolabile per una pittrice della sua levatura. Lei, tuttavia, voleva vedere riconosciuti i propri diritti e, nonostante i dolori che fu costretta a patire, non ritrattò la sua deposizione. Fu così che il 27 novembre 1612 le autorità giudiziarie condannarono Agostino Tassi per «sverginamento» e, oltre a comminargli una sanzione pecuniaria, lo condannarono a cinque anni di reclusione o, in alternativa, all'esilio perpetuo da Roma, a sua completa discrezione. L’uomo ovviamente scelse l’esilio, anche se non scontò mai la pena: egli, infatti, non si spostò mai da Roma, siccome i suoi potenti committenti romani esigevano la sua presenza fisica in città. Ne conseguì che la Gentileschi vinse il processo solo de iure e, anzi, la sua onorabilità a Roma era completamente minata: erano molti i romani a credere ai testimoni falsi pagati del Tassi e a ritenere la Gentileschi una «puttana bugiarda che va a letto con tutti».] Impressionante fu anche la quantità di sonetti licenziosi che videro la pittrice protagonista.
Dopo il processo il padre riuscì a combinare un matrimonio per la figlia con Pierantonio Stiattesi, pittore fiorentino, che determinò il trasferimento a Firenze e una nuova stagione, definitivamente da “solista” per Artemisia. A Firenze nacque la sua prima (e unica?) figlia e venne accolta, contrariamente al marito, presso l’Accademia delle arti del disegno: fu la prima donna a ottenere questo prestigioso riconoscimento. Ottenne importanti commissioni dalle famiglie fiorentine (Medici compresi) e strinse amicizia con Galileo Galilei che nutrì per lei grande stima, e con Michelangelo Buonarroti il giovane, il quale le commissionò una tela per celebrare il suo illustre antenato e con il quale intrattenne anche una corrispondenza, avendo da poco imparato a scrivere.
Nel 1621 si trasferì a Genova per un breve periodo, poi tornò a Roma come donna indipendente, allontanandosi definitivamente dal marito, e portando con sé la figlia Palmira.
Dopo Roma, partì alla volta di Venezia, e probabilmente vi soggiornò tra il 1627 e il 1630, alla ricerca di nuove commissioni. Successivamente approdò a Napoli, e lì rimase definitivamente, se si esclude una breve parentesi inglese a Londra, dove raggiunse il padre per assisterlo fino alla sua morte. Fu quella l’occasione per collaborare artisticamente con lui, dopo tanti anni di distanza.
Nel 1642, con lo scoppiare della guerra civile, Artemisia lasciò l’Inghilterra e, dopo altri spostamenti di cui si ha scarsa conoscenza, tornò a Napoli dove morì nel 1653.
La fama di Artemisia più recente è forse proprio legata agli aspetti drammatici e romanzeschi della sua vita, e al suo coraggio nell’affrontarli, che ne hanno fatto quasi naturalmente una eroina femminista ante litteram.
Questa lettura però rischia di offuscare la forza con cui Artemisia si impose come pittrice, e su generi decisamente lontani da quelli delle altre pittrici dell’epoca (non molte ma neppure pochissime), le quali si erano avventurate sino a quel momento limitatamente a nature morte, paesaggi, ritratti. Artemisia affrontò la pittura “alta”: soggetti sacri e storici, impianti monumentali; con una totale padronanza della pittura, e abbracciando completamente la lezione caravaggesca, radicale nella concezione della scena, nel contrasto che descrive le forme e i colori, nella predilezione di un taglio ravvicinato che drammatizza il rapporto con lo spettatore, nell’abbandono di moduli iconografici convenzionali.
Da sicura professionista dell’arte sapeva di poter esplorare anche toni più lirici, atmosfere più intime. La vasta gamma delle sue corde era insomma in piena sintonia con la vastità del sentire barocco.
Quindi si fa forse torto alla sua opera se la si considera solo come riscatto o sublimazione dalle violenze subite, poiché nella sua completezza, essa esprime una potenza e varietà poetica che vanno oltre la sua vicenda biografica.
Una donna quindi che ha reso grande la sua arte, forse anche per le conseguenze della sua vita turbolenta, ma pur sempre una grande pittrice del suo tempo. Che poi, per la sua personalità battagliera e indipendente, sia diventata anche un’icona femminista di oggi, non fa che accrescere l’alone di fascino che da secoli investe la sua figura.
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