Pubblicato il 24/06/2017 17:47:53
In veneto ho vissuto poco. Ho rare immagini dell' infanzia che mi riportano alla mente le vecchie cime del Monte Grappa; anni fa, durante le afose estati cittadine regalavano un gelido, brusco conforto. Si andava in macchina seguendo una strada tutta curve che serpeggiava sui ripidi versanti della montagna, ed io, a pochi anni, a guardare giù avevo paura che l' auto potesse scivolare d' un tratto, fino in fondo, inesorabile. Quando non guardavo giù, però, rimanevo di stucco per il fantastico colpo d' occhio, a mezz' altezza, sulla pianura circostante: si scorgeva tutto, persino il mare di lì ben distante da parer così calmo, quasi un tutt' uno col cielo annuvolato. Sarei potuto nascere ovunque, mi dico sempre. Ho visto la pima luce sotto il sole agostino di Verona, vent' anni fa. Da allora, per anni, non smisi di muovermi tra il Veneto e l' Emilia Romagna. Avevo ancora una manciata di anni quando io e mia madre lasciammo i monti e ci trasferimmo ad Imola. Ero troppo piccolo per vedere con rammarico la nostra dipartita, quindi preparati i nostri pochi bagagli partimmo, senza un lacrima, verso la città. Mio nonno fu un fiero Alpino. Insieme a sua moglie si salvò miracolosamente dalla deportazione. Fino a che la salute glielo permise partecipò ai raduni seguenti ed era solito girare per casa con il cappello piumato, portato come motto d' orgoglio che poco più su, tempo addietro, perse amici e parenti. Il giorno in cui io e mia madre partimmo i nonni veneti mi regalarono una spilletta gialla con un cavallino rampante. Il cavallino nero aveva la chioma nera e al vento, con le zampe anteriori sollevate e fiere. Ero matto per la Ferrari. Non avevo particolare passione per i motori, ma la rossa, ai miei piccoli occhi del tempo, mi faceva emozionare ogni domenica. Pochi anni più tardi ricordo mi furono regalati un paio di berrette rosse fiammanti con tanto di cavallini, un giubbotto ed un pantalone altrettanto rossi. Giravo per casa così vestito e mi sentivo come nel paddock a pochi minuti dal via. Fu una gioia andare a vivere ad Imola: al tempo si teneva il Gran Premio, e fu fantastico vedere la rossa di Schumacher sfrecciare sulla Rivazza. Mi ci aveva portato Simone in sella alla sua moto sportiva. Era un appassionato di motori, le uniche volte che potei sperimentare le brezza di cavalcare una motocicletta risalgono ancora a quegli anni. Mia madre non voleva, ero piccolo, aveva paura che potessi cadere, e Simone che fremeva dalla voglia di farmi fare un giro in sella le prime volte desistette. Un giorno, però, mi caricò di nascosto e guidò per ore. Lui davanti io dietro, col casco enorme ed abbracciato al suo pancione, che avevo paura di volare via e perdermi tra il cemento delle strade. Nella nostra casa viveva un altro ragazzo cui delle automobili non gliene importava nulla. Era magro e alto, seppure a quell' età mi sembrassero tutti alti per parlare con lui spesso mi alzavo in punta di piedi, e mi sentivo grande quando indossavo in casa gli stivali di zorro, allora gli unici superstiti di un vecchio costume di carnevale. Marco, si chiamava, era un mago. Lui mi diceva di essere un illusionista, ma io, libero dalla realtà come tutti i bambini, gli ripetevo che era un mago. Ero incantato dal suo trucco della moneta. Me la mostrava davanti agli occhi e pochi istanti dopo la tirava fuori dal mio orecchio. "E' un trucco" mi diceva, ma si rifiutò sempre di spiegarmelo. All' epoca abitavo ad Imola ma frequentavo l' asilo a Faenza. Ogni mattina si prendeva l' auto in tutta fretta e ci si catapultava in tangenziale. Quando cominciai le elementari io e mia madre ci trasferimmo a Faenza. Aveva trovato un appartamento più spazioso che dividevamo con una sua amica. Non vidi più Simone, ed in quegli anni persi l' interesse per le rosse; persi le due berrette, la giacchetta mi divenne stretta e decisi che i pantaloni rossi non mi donassero più di tanto. Alle elementari andavo bene, come tutti i bambini. Mi piaceva geografia, mi interessava il mondo e la sua storia. Non avevo un' avversione particolare per alcuna materia, matematica era divertente. C' era un problema però. Scrivevo male; la mia calligrafia era illeggibile e la maestra di italiano faticava a decifrare i miei brevi scritti. Formò un gruppetto nella classe composto dagli alunni che come me realizzavano geroglifici al posto di ordinate lettere dell' alfabeto, e durante le ore di italiano ci teneva in disparte assegnandoci inefficaci esercizi di calligrafia. Gli altri bambini avevano calligrafia peste, anche se in realtà nessuno scriveva tanto male come Francesco, che addobbava le pagine di cancelloni e strappi. Col passare delle settimane miglioravano tutti, persino il peggiore, Francesco, riusciva terminare le esercitazioni senza ritrovarsi colle mani cosparse di inchiostro ed il foglio sgualcito. Io, però, non miglioravo proprio. Ero piccolo e piangevo spesso, mi sentì inetto e cominciai a piantare il broncio ogni qual volta in classe ci fosse da dover scrivere: ricordo una mattina in cui la maestra mi diede un foglio e mi mise alla prova con pervicacia, volenterosa di risolvere il problema. Presi la penna e cominciai a scarabocchiare qualche lettera. Lei mi osservò con sguardo disteso e mi venne incontro. "Ecco, vedi. Guarda come tengo io la penna" La sua mano s' avvolse a forma di becco attorno allo strumento. "Tu la tieni col pugno, scrivi col mignolo!". Ci trasferimmo qualche mese dopo. Mia madre si sposò e andammo a vivere a Carpi; questa volta piansi. Non avevo lasciato i monti. Avevo lasciato i miei primi amici, quelli dei primi anni di elementari. Luca, Daniele e Davide quando annunciai in classe che sarei partito mi fecero trovare il giorno seguente sul mio banco un raccoglitore pieno di loro disegni. "tienilo sempre con te", mi disse Davide. Lo sfogliai per tutto il viaggio, ed una volta arrivato a Carpi lo misi in bellavista nella libreria grande del salotto, così che tutti potessero vederlo. Paolo, l' amico che ricordo con più chiarezza, non mi regalò nulla. Mi chiese quando sarei tornato; pianse insieme a me. Paolo tifava per l' Inter, io ero cresciuto in una casa di juventini. "E se le tifassi entrambe?" , chiesi a Paolo, quell' ultimo giorno. "Sono nemiche, non credo si possa". Scelsi l' Inter, che perdeva sempre, ma era la nostra squadra. A Carpi dovetti ricominciare. I primi giorni di elementari furono difficili, così come li si immagina per un bambino che cambia scuola in corsa. Me ne stavo solo durante l' intervallo, in banco annoiato durante le lezioni. Mi chiedevano da dove venissi, perché mi fossi trasferito, come mi trovassi a Carpi; le solite domande alle quali un bambino sconsolato non ha voglia di rispondere. "Ma tu parli?" Mi domandò il mio compagno di banco, dopo che per ore non avevo spiccicato parola. Una mattina venne una bambina da me durante l' intervallo che ero solito passare a gironzolare per il prato col naso all' insù. Mi si parò davanti con aria allegra. Aveva appena corso per il campo per raggiungermi insieme ai suoi amici, che più lenti, sopraggiunsero in un secondo momento. "Io ho un fratello come te, sai?", proruppe. "Te lo presento, vieni a giocare con noi, dai!" Le dissi di no, scuotendo il capo con forza. Lo feci subito, prima che i suoi amici potessero sentire. Abbassò lo sguardo e ci rimase male. Non capì il mio rifiuto. Non lo capì neanch'io. Vidi i suoi amici guardarmi perplessi e ripresi a camminare per il prato mentre attorno s' alzavano urla e schiamazzi. Un fratello come me? Che voleva dire? Io ero un bambino triste, era forse triste anche suo fratello? Finì le elementari che piansi ancora, ma questa volta di nascosto. Mi ero fatto molti amici, ma sapevo già che non li avrei più visti siccome tutti loro avrebbero frequentato le medie dall' altra parte della città. Ci fu la promessa di tenersi in contatto ma ci incontrammo solo un paio di volte in estate, poi l' inverno fece ritorno e non ci si vide più. Solo paio di loro, con mia sorpresa, li incontrai nuovamente a basket. Ci iscrivemmo tutti in quel settembre, sia io che loro. Era il terzo sport che provavo dopo le fallimentari esperienze con il nuoto, il judo che mi costò una frattura ed il calcio, che non m' andava di correre. Anche a basket si correva, ma la sensazione di sentire la palla tra le mani e non tra i piedi la sentivo più familiare. Poi ci andavano i miei amici, appunto; sia quelli di scuola che quelli di catechismo. Ricordo il primo allenamento; mi presentai insieme ad un amico. Una volta legate le biciclette una con l' altra alzai lo sguardo: da fuori sembrava una palestra fatiscente, una delle tante costruzioni degli anni settanta che trasudano logorio alla prima occhiata. Entrati, l' impressione fu migliore. Gli spogliatoi erano in fondo al breve corridoio, ma io ed il mio amico eravamo arrivati già vestiti, con le nike allacciate e la canotta dentro le braghette corte. Il mio amico aveva già fatto il primo allenamento, per cui una volta che mettemmo piede sul parquet l' allenatore mi venne incontro per presentarsi. Eravamo a metà campo, tra i due canestri che mi parvero due monti, ed i palloni duri e grossi i massi che vi rotolavano via. Man mano che l' allenatore mi si avvicinava gesticolava in modo buffo e molto articolato. Ricordo che strizzai gli occhi per capire se stesse parlando a me o a qualcuno alle mie spalle, ma quando fu a pochi passi vidi i suoi occhi fissi su di me. Continuò a muovere le braccia e a parlare lentamente. Pensai avesse dei problemi; mi disse, indicandomi ed agitando la mano a mo' di becco: "Tu...parla...italiano?" Lo guardai storto. Annuì con il capo ma la sua espressione rimase perplessa. Dovetti rispondergli per esteso, dirgli che parlavo italiano. In tutta risposta rilassò la fronte corrugata e si voltò, tornando sui suoi passi. "Benissimo. Oggi ci alleniamo sui palleggi." Avevo undici anni, e la mia mente di tanto in tanto fuggiva ancora sulle cime del Monte Grappa. Qua in Emilia parlavano tutti strano, raddoppiavano le consonanti quando non ce n' era bisogno, e non tenevano conto della differenza tra la esse e la zeta, finendo per ammazzarne la pronuncia sotto la lingua. Io non avevo accenti. Avevo una buona comprensione del dialetto veneto; lo capivo bene, così come i miei cugini cresciuti con me in quella valle. La comprensione mi era difficile solo quando il nonno si metteva a tavola con una bottiglia di grappa e chiamava i suoi amici, che abitavano oltre la recinzione: lì, quando confabulavano con francesismi pepati e toni accesi, non si capiva granchè. Ma il dialetto di quei monti non lo sapevo parlare. Quel tono cantilenoso non mi è mai andato giù del tutto, e mi limitavo ad imitarlo, con poco estro. In Emilia il modo di paralare era totalmente diverso, e poi tra bambini si parlava normalmente. Si parlava in italiano, l' unica lingua che abbiamo sempre saputo leggere, scrivere, ascoltare. Mi chiesi perché l' allenatore, quel pomeriggio, mi avesse domandato se parlassi italiano. Non ero mai stato all' estero, neanche in vacanza. I miei amici di scuola parlavano italiano, i miei genitori a casa parlavano italiano. Io pensavo in italiano e conoscevo solo l' italiano. Che altra lingua avrei dovuto parlare? L' inglese, sì, ma alle elementari si insegnava poco e male. L' italiano era nei miei pensieri. Qualche tempo dopo chiesi a mia madre che altra lingua avrei dovuto sapere. Lei non capì. Aveva le braccia bianche arrossate, che si era scottata al sole, e mi disse di non pensarci. Allora insistetti e sospirando mi rispose, mentre si spalmava la pomata. "Tra poco tempo sarai italiano anche tu". Come non ero italiano? Non avevo mai visto altro posto. Tutto ciò che avevo vissuto era nelle città del paese che a scuola insegnano essere a forma di stivale. Ricordai le vacanze in Sardegna dove l' acqua era tiepida ed il mio amico ci si buttava a cannone dagli scogli; le camminate in Trentino, con i cartelli stradali in tedesco che ci fecero perdere per i sentieri. Mi ricordai le vacanze nel tram tram della Rimini d'estate: con il gol di Grosso che fece esplodere la hall dell' hotel, dove erano tutti cogl' occhi sul monitor a trattenere il fiato. Con paura mi tornò alla mente la biscia che trovammo a pochi passi dalla nostra casa Sul Monte Grappa e che scacciammo via tirando dei rametti; Ravenna, dove mia madre ci portava spesso per lavoro, e Mantova, i pomeriggi passati sulla riva del Mincio. Ma io non ero italiano, non come gli altri. Gli altri erano italiani. Allora capì, in fondo era facile. A scuola cominciai a guardarmi attorno con maggiore attenzione. Ce n' erano molti altri, come me, che non erano italiani, ed era piuttosto semplice distinguerli: gli italiani erano solo quelli bianchi, pensai. Mia madre era bianca, suo marito era bianco. Loro erano italiani. Io ero nero, non potevo esserlo. Pensai fosse questo il problema, non era normale un italiano nero, proprio no, non poteva essere. Le cose però si complicarono quando capì che neppure tutti i bianchi erano italiani. Alcuni bambini a scuola erano pallidi come le pareti, parlavano l' italiano come gli altri, con quelle stupide esse confuse con le zeta, ed erano nati in emilia, ma non erano italiani. Ma allora cos' è un italiano?, mi chiedevo. Come si fa ad essere italiani? Mia madre che era italiana mi disse che i miei veri genitori erano ghanesi. O meglio, lo era mio padre, mia madre era nigeriana. Dunque io ero ghanese. "Dov' è il Ghana?" "Si, lo so. Ma dove esattamente?" Mi regalarono un atlante, uno di quelli pieni di disegni e di bambini felici che corrono insieme, bianchi, neri e gialli, attorno al mondo. Imparai dove fosse il Ghana, mi imparai la capitale, ed ogni qualvolta qualcuno mi chiedesse da dove venissi gli rispondevo Ghana, Accra. "Lo sai il ghanese?" "A quanti anni sei venuto qui? Parli bene." "Fai un po' di soldi e torna in Africa, si sta meglio che qua, fidati". Torna, come se ci fossi mai stato. Il rinnovo del permesso di soggiorno capitava sempre quando a scuola c' era ginnastica, le prime ore. Frignavo la sera prima, perché me le sarei perse, che avrei giocato a palla avvelenata per intere settimane, e speravo ogni volta di fare in fretta, così da potermi infilare la tuta alla svelta e catapultarmi in palestra, magari in tempo per eliminare l' ultimo bambino della squadra avversaria, e vincere. Ci volevano quattro ore, invece. La mattina presto si gelava, ed i cancelli della questura aprivano alle nove, ma era necessario arrivare lì davanti il prima possibile per evitare di prendere parte a una fila interminabile. Si arrivava lì davanti di corsa, ma la gente c' era già, e proteggeva il suo posto nella fila con occhiatacce e bruschi silenzi. Vedevo tanti bambini, come me o più piccoli, chiusi nelle macchine, al caldo, a dormire per ingannare l' attesa, mentre quelli fuori, stanchi, saltarellavano di qua e di là tirando le gonne delle mamme infastidite. Una volta entrati si faceva la corsa per staccare il numero e ci si rannicchiava infreddoliti nel salone d' aspetto; sentivamo i poliziotti, al di là dei gabbiotti, ridere e scherzare, e cominciare a chiamare i numeri non prima di un' ora, per poi proseguire lentamente, con toni sgarbati e nessuna pazienza. Mi portavo qualche fumetto, ne finivo sempre almeno un paio, prima che toccasse a me. Mia madre era italiana, quando l' operatore lo capiva sorrideva, e le faccenda si sbrigava in pochi giri di orologio, salvo intoppi. Non tornavo mai a scuola, era sempre troppo tardi, e si andava a casa a preparare il pranzo. A me non fregava nulla del permesso di soggiorno "Se la polizia vede che non ce l'ho tanto non mi può mandare da nessuna parte, sono italiano", dicevo a mia madre, mentre sistemava i documenti nella cartellina e mi tirava per il braccio. Aspettavo con ansia la maggiore età. Mi avevano spiegato che avrei potuto richiedere la cittadinanza, che sarei diventato italiano. Mi avevano proposto di cambiare il mio cognome e di prendere quello del marito di mia madre, che così mi avrebbero adottato e sarei diventato italiano prima dei diciotto anni. Ma non volli. Tenni il mio cognome, sicuro del fatto che quando sarei diventato italiano, lo sarebbe diventato anche il mio cognome; non avevo intenzione di cambiare parte del mio nome per ottenere pieni diritti. Decisi che, una volta italiano, il mio cognome sarebbe diventato un vanto, un punto fermo del mio essere cittadino del Bel Paese. Non so cosa mi aspettassi. Rilessi quella riga un paio di volte. La richiusi per poi riaprirla e rileggerla ancora; continuai così fino ad averne noia. Volevo sentire le brezza, assaporare ciò su cui avevo rimuginato per anni, volevo sentirmi d' un tratto parte di qualcosa di più grande, di più accogliente. Ero tornato a casa, subito dopo il giuramento. Stavo guardando la mia carta di indentità, e me la rigiravo tra le mani, aprendola e chiudendola più volte. Era identica a quella di prima, se non per la foto decisamente migliore. Ora che ero italiano possedevo un documento pronto dimostrarlo: Le mie aspettative erano forse legittime, ma quel pezzo di carta, che andava chiuso e conservato nel portafogli all' oscuro da tutti, non cambiava l' opinione della gente, dei passanti, dei conoscenti. "Sono veneto, sono qua in Emilia da una decina d' anni" "Si, ho capito, ma intendo le tue origini...da dove vieni?" "Si ma sei africano, sei scuro. Guinea? Nigeria?" E allora a cosa serviva? L' avevo rincorso per anni. Agli amici non importava, per loro ero italiano quanto loro, ed ai passanti importava ancor meno: non avrebbero mai visto il documento, e se anche l' avessero scorto, non avrebbero cambiato opinione. Certo, potevo votare. Certo, potevo viaggiare senza ostacoli in tutta Europa. Ma a me, che volevo solo essere visto come un italiano, quel documento non serviva più di tanto. Pensai che se bastasse la cittadinanza a legittimare le origini di un individuo, sarebbe tutto molto semplice: possiedo due cittadinanze; una di un paese che non ho mai visto, l' altra di un paese che non vuole e non riesce a riconoscerci davvero. "Non ti preoccupare, sei nato e cresciuto qua. Del resto, ciò che più conta è la nazionalità". Inseguivo la nazionalità italiana, che già possedevo, desiderando la cittadinanza. Non è sufficiente un documento per creare, modificare, accrescere la cultura dei passanti. È buffo, siamo un po' soli. Apolidi, con due cittadinanze.
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