Pubblicato il 26/06/2009 00:50:00
La scrittura di Maurizio Cucchi incuriosisce, attira, adagio delinea al lettore un mondo materico fisicamente ruvido, abrasivo, in cui “Far fruttare anche il minimo gesto”. Cucchi si occupa dei singoli aspetti inerenti la realtà empirica secondo sue proprie prospettive universalmente accettabili, seguendo metodologie descrittive che partono dalle esperienze del reale, dalle visioni, dai suoni, dalle forme, dagli oggetti e le loro qualità, i colori in primis, con quella loro forza evocativa; in particolare il colore rosso si ripete svariate volte nel corso della lettura, direttamente o indirettamente, il rosso della ruggine, del cuore, del sangue: “[…] / Ma dice giusto l’amica, dice / profondo: la memoria è in fondo / inaffidabile, imperfetta, tutta / caverne e trappole. E’ il sangue, / invece, il corpo, il vero / testimone che non mente, / che porta impressa, sicura / anche se mutante, la memoria. / […]” (pag. 16). In un processo oserei dire proustiano, di memoria e percorsi a ritroso nel tempo, Cucchi parte dalla materia, dalle sue geometrie, in cui sono impresse somiglianze (come in una sorta di auto-somiglianza frattale), per arrivare alle sensazioni, ripescandole dal proprio mondo interiore, e da quelle proponendo interessantissime meditazioni. C’è quindi in Cucchi, a mio avviso, in questa sua nuova raccolta, più che un tentativo, proprio della metafisica, di andare oltre gli elementi instabili, mutevoli e accidentali dei fenomeni, un concentrare l’attenzione sugli aspetti inerenti la materialità del mondo nel suo misterioso svolgersi e manifestarsi in leggi fisiche e biologiche inevitabili. Non ravviso in questa scrittura, ferma e in qualche modo ciclica nei processi mentali, il posto per una vera e propria trascendenza – e questa è, a mio parere, una peculiare gradevole caratteristica di questo autore –, non v’è l'intento di uscire dalla realtà fisica onde cogliere le strutture fondamentali dell'essere, ma, semmai, il movimento della mente e del pensiero di Cucchi avviene all’interno degli elementi naturali nei quali si conclude l’esistenza: “Per rimanere insieme ancora un po’, prima / del risucchio totale che assorbirà anche, con me, / la tua memoria. Quando altro non saremo più / che un vorticare alto nell’aria, ma lento, e sempre / più lento… // […]” (pag. 31). Si legga anche la bella poesia di pag. 95: “Mi venivano in mente, / mentre guardavo gli amici malati, / certe strane idee. / Dio, anima: parole, / concetti remotissimi, inservibili, / bolle svuotate, strutture / di pensiero arcaico.”
Nella sezione finale del libro, intitolata “La traversata” – aperta da questa poesia: “Arrivo al porto con l’ansia / e la gioia dell’avventura. / E’ stato difficile. Voglio dire venir fuori / per vivere. Star dentro / per non morire, e dire: / ventre, acqua, tetto, morbido / cuore, letto.” (pag. 87) – l’autore inizia un viaggio che, per quanto breve, probabilmente della durata di una mezz’ora, simbolicamente è forse il viaggio della vita dell’uomo e della sua nascosta, perché intima, identità di poeta. I ricordi, inevitabili nella mente, si sovrappongono continuamente all’esperienza diretta dell’esistere, che talvolta tocca momenti di rara spensieratezza alleggerendo il carico della vita stessa con il sorriso, nel gioco circostante degli spruzzi delle onde, ma quando il viaggiatore guarda oltre il parapetto della sua imbarcazione, verso l’orizzonte, scende un cupo silenzio e, quasi involontariamente, lo spirito scivola in un prezioso canto, assorbito dalla vastità degli spazi, il viaggiatore, prima svagato, si ritrova poeta a pronunciare questi versi: “[…] Desideroso / di luce e terra l’orizzonte è una lama, / uno specchio che mi cancella.” (pag. 93). In apparente contrasto con “Il marinaio che scende nella botola / con uno straccio, fischiettando” e che, dopo aver svolto, fischiettando (anch’esso quindi svagato come il poeta e comunque vivente nel suo stesso spazio d’esistenza), il suo compito di accendere i motori, “[…] / si aggiusta il berretto sulla fronte / e guarda l’orizzonte, indifferente. / Sa già che presto si rivedrà il paese. // […]” (pag. 96). Il gioco di contrasti sta nel fatto che il poeta, nella novità del suo viaggio, non pensa che rivedrà il paese quasi subito, forse neppure sa quanto tempo sarà necessario, si trova quindi in una sorta di sospensione temporale, dovuta alla breve novità di quella esperienza di viaggio e di abbandono, a differenza del marinaio che governa la nave ed è fautore del proprio destino, il poeta è abbandonato ad una fluida oscillazione che lo porta a investire l’orizzonte di ampi significati e tendenze, mentre il marinaio, nella routine del suo vivere, rimane ormai indifferente, “sa” cosa c’è oltre l’orizzonte. La differenza tra quel marinaio e il poeta sta proprio nel fatto che la vita è recinto di certezze per il primo, incerto confine per il secondo, in questo si delinea quella che potrebbe essere la figura del poeta per Cucchi, una sorta di mistico della natura che sa accogliere le visioni che la mente naturale suggerisce allo spirito della mente.
Sempre in questa sezione finale, con i due versi “Ma che cos’è / il nulla?”, che prendono spunto dalla teoria dello scienziato S. Hawking secondo il quale la materia, nella forma di un buco nero, evaporerebbe lasciando il nulla, Cucchi si avvicina al confine del rapporto tra scienza e poesia: “[…] // Ho sentito la mia voce che diceva: / ‘Tutto è materia, c’è un vorticare / di materia. Fuori, dentro di noi, nel cosmo, in questo sasso / che sto gettando in mare, in quello / che tu chiami il vuoto, o che tu chiami / lo spazio. Aggregazioni varie di materia / orribili e mirabili. Campi e forze, / vibrazioni che creano /materia’.” (pag. 96). E’ molto interessante la capacità dell’autore di entrare nel vivo del rapporto triangolare tra la fisicità dell’uomo, il suo spirito e la fisicità del mondo. E’ come se la conoscenza, per Cucchi, passasse, come già accennato, da “l’esperienza /abrasiva” del mondo ruvido: “Sento le cose ruvide / addosso, mie”, “[…] / succhiare questa sola radice di terra / con ansia, sfiorare questa macchia di morchia. / […]” (pag. 89). Lo spirito dell’uomo cerca di elevarsi sulle ali di un richiamo trascendente innato, ma Cucchi rimane nella terreità azzerando tale richiamo, il poeta, dopo la traversata, è contento di sbarcare e tornare alla certezza della materialità: “[…] // e mettendo già il piede sul suolo / mi fingo a me stesso più goffo / per darmi certezza del felice attrito / col mondo, con la materia / che mi accoglie e accarezza. / Che dolcemente mi azzera.” (pag. 103). Anche dall’orizzonte, che prima sembrava condurre verso qualcosa di vasto in cui annullarsi, trascendendo se stessi, sbuca il ricordo di un tempo vissuto e materiale: “Allora ho pensato a te, / […] alzando / quel poco lo sguardo ho osservato / […] come una suggestione, / […] una forma/ […] Come una nave, / […] che rompeva l’orizzonte […] / emersa da un nero immenso tutto.” (pag. 98). Ma sia chiaro che la materialità di Cucchi non è materialismo ma anzi egli condanna l’eccesso come degradante e sottraente attrito personale con le cose rendendo superficiale il contatto con esse: “Perché l’eccesso – dico io – distrae, / rende discreto, occasionale, / il tuo attrito vivo con le cose / e ti sottrae, così, vita, valore.” (pag. 102). Nella stimata sezione del libro intitolata “Il denaro e gli oggetti”, Cucchi parla del rapporto con le cose: “[…] / Le cose, vedi, si nutrono di noi, ci assorbono / […] Ma oggi di meno, sempre meno, perché / siamo altrove, schermati. […]” (pag. 69); esse sono diventate oggetto di consumo, non più consumate e assorbenti le nostre vite: “Gli oggetti […] / Erano fatti per resistere, durare anche oltre noi; / […] / Oggi sono […] / impermeabili, scivolano via / di mano, viscidi, io stesso / nel processo del tempo destinato / a questo oceano sgargiante di immondizia”. (pag. 73).
Ho analizzato più a fondo, in queste poche righe, una parte del libro che molto mi ha colpito, perché penso che essa sia l’epilogo dell’intera raccolta, ma molti sono gli interessanti percorsi di pensiero che l’autore propone nelle sette sezioni in cui è suddiviso “Vite pulviscolari”. Ho toccato soltanto alcuni aspetti, che non esauriscono, neppure in minima parte l’ampiezza della poetica di Cucchi. “Vite pulviscolari” è da leggere e rileggere, lascia dell’umano in tasca, se così si può dire, apre la soglia dello spirito del lettore sulla fisicità del mondo, mostrando le cose, gli oggetti, e i loro scenari come inestricabilmente connessi all’uomo, ai suoi sentimenti e al suo pensiero, restituisce valore al mondo, converte lo spirito a un possibile equilibrio fatto di naturalezza. Un libro sul quale ci si può adagiare sereni per approntare un tentativo di slancio verso un probabile, quanto mai soggettivo, slancio di trascendenza ben saldata nella materialità, oltre l’orizzonte degli eventi dove la realtà conosciuta perde consistenza, fondata su scale infinitamente piccole e ripugnanti: “[…] / Ma come darti torto? Eppure / è solo questione di scale, rapporti, microscopi: / solo questione di noi.” (pag. 37).
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