Pubblicato il 15/01/2013 09:34:27
Giovanni Giudici Gli abiti e i corpi Ormai sfibrate le asole e sapienti Rammendi qua e là – ma gli abiti Sembravano come nuovi. Egli Accurato ogni sera li deponeva Sopra una sedia – quali Che fossero l’umore o la stabilità L’uxorio brontolamento che lo affliggeva. E deponeva con essi il tic-tac Che gli scandiva giorni e notti, l’oriolo Da tasca con una croce Elvetica in campo rosso – emblema Di esattezza agganciato a una teca di cristallo Con dentro una trapunta di velluto In attesa di reliquie microscopiche. Gli abiti duravano anni: Il nero, il grigetto, un altro a spina di pesce. E ognuno col suo panciotto sul quale durante il giorno La catenella che pareva di diamanti Tra un’asola e l’oriolo nel taschino si stendeva. Lui certe sere era greve di vino. Si spogliava nel sonno, puntava al mattino. Ma si destava fresco come certe volte io Adesso forse più vecchio di quella sua età, Che lo sbirciavo ritrovare le sue spoglie: La giacca dignitosa, i pantaloni Dall’impeccabile piega. E perché Non dire del fregio rosa sulle mutande? Perché tacere il colletto inamidato? Tutto così ringiocondiva a ogni Risveglio – sbarbato e tranquillo E di un colore chiaro se distese dal riposo Sbiadivano sulle guance le venuzze capillari. Quale decoro l’abito Rinnovato ogni giorno, restaurato Dal persistere della giovinezza! Dico il nero, il grigetto, un altro a spina di pesce E un quarto credo ereditato da un parente Defunto: duravano anni. Io li spiavo mattina dopo mattina E lui spiavo impassibile a tutto: Al passare del tempo, Al male dei creditori. C’è un calare di forze, un calare di brache. Le note dei taccuini si pasticciano, né Più giova registrare i nomi delle amanti O gli incontri, i doni. Chi se ne frega, Uno si dice, dell’ordine. E lì Lui non ebbe più forza da dare ai suoi vestiti: Di colpo furono vecchi. Primo fu il nero umiliato dal lustro. Poi sparì il grigio, poi quello a spina di pesce. Di- Menticamioli. Altri ne furono addotti In vece – da sartucoli azzeccagarbugli Asserenti per mezzo delle vesti Di portargli vigore. Tra gli OH Dei familiari che COME TI STA BENE COME TI FA GIOVANE mentivano e lui Lasciava fare ma lo sapeva benissimo Che anche i più ricchi panni perdono il loro pregio Quando è mutato il corpo che li indossa. Non ha più gloria da dargli. In tre giorni si sfa il bel vestito. Lui lo trascina nel suo precipitare. Strappi e frittelle e bottoni penzolanti Presto divelti da pestiferi infanti. Muoia con me ogni orpello – sembra dire. L’oriolo diventa aritmico. Anche la Svizzera dà ore da impazzire. Ah il triste riprovare – ché lui stava Ancora in piedi tenuto su Dall’appretto del nuovo ma per poco. Nel cupio dissolvi di tutto poi ripiombava. Ma ancora vivo da spaccare Il guscio che l’imbracava Quando gridava BASTA CON QUESTE FREGNACCE. Perché come se fossero Vivi vestiamo i morti? Quanto più casta e giusta È la nudità dei corpi che li avvicina Al loro finalmente disincarnarsi! Ma noi li mascheriamo così copriamo le ossa Troncate perché fingano la supinità della catarsi La liberazione dell’uomo Bisognava vederlo. Cos’era Una giornata di lavoro per lui? Niente – avreste detto allo spettacolo Di quando tornava a casa, contento Come una pasqua, fresco come un fringuello, Un grillo che saltava Di stanza in stanza «dove sei» squittendo «O mia adorata». E ilare al ritrovarla «cucù» Lanciava il suo gridolino E poi subito all’opera «buona tu adesso» Esordiva rivolto alla pigra befana Tutto il giorno a fumacchiare sdraiata A far parole crociate o solitari di carte. Aveva l’arte di non vederla un orrore Ma anzi le sette beltà, la grazia. Per prima la cucina – oh il lustro Che gli dava quell’uomo a quelle piastrelle Alle pentole ai piatti alle maniglie, Faceva tutto come nuovo ogni sera. E altrettanto la sala lo stanzino Il casto nido coniugale dove A lei diceva con dolcezza «passa Cara in poltrona intanto che faccio il letto». Poi d’un balzo ai fornelli – e in un battibaleno Che intingoli a quella golosa apprestava: Salse bearnesi, vol-au-vent, supreme Squisitezze di caccia e pesca, brodini Di tartaruga, pasticci di funghi A ogni stagione, ananassi. Miracoli di economia – sempre meno Spendendo del gramo peculio. Mai che si chiedesse lei «come fa», Tutto accettava per dovuto battendo Talvolta imperiosa la posata Per una crème-brûlé troppo calda o un raviolo Dalla minima crepa. Ed egli pazientissimo Si scusava «hai ragione, che sciocco». Poi l’assisteva in toilette E la metteva a nanna sprimacciando il cuscino. Davvero «che stronzo» avreste detto E tanto più sapendo quanto sgobbava in ditta Sotto il sopruso dei capi E dei compagni la perenne irrisione: Così per molti anni Finché la beneamata morì per occlusione. Ma nessuno ha saputo mai più Di che libertà fosse il prezzo la sua servitù. Senza titolo Perché con occhi chiusi? Perché con bocca che non parla? Voglio guardarti, voglio nominarti. Voglio fissarti e toccarti: Mio sentirmi che ti parlo, Mio vedermi che ti vedo. Dirti – sei questa cosa hai questo nome. Al canto che tace non credo. Così in me ti distruggo. Non sarò, tu sarai: Ti inseguo e ti sfuggo, Bella vita che te ne vai. Nome Era oro il nome e suono Nella forma di campana Non più ora mattutina Ma ancora antimeridiana Era verde negli ulivi Era blu della marina Nudo piede delicato Su rugiade di declivi Era oro il nome e vetro Di bicchiere musicale Fermo incedere nuziale Nel decoro delle sfere Netta nota e lontana Lucenza al cervello tetro Fiato a fiato che rideva Nell’abbraccio della tana Era oro il nome e mare Era il chiaro della stanza Era il niente del sublime E un patire di speranza Era il sole della neve Era il bianco della fine E poi il gelo crudo e lieve Sull’estremo della danza La sua scrittura Voglio mostrarti un giorno com’era La sua scrittura. Si appartava di là Il foglio su un qualcosa Di liscio con la mano sinistra sul bordo Superiore a tenerlo ben fermo. E intingi giù l’asticciòla Col pennino nuovissimo a vergare Missive… Egregio, esordendo, commendatore Avvocato chiarissimo esimio Ingegnere ammiraglio comandante Eccellentissimo monsignor vescovo Graziosa Regina… O intestando In compìti caratteri sulla busta N. H. un tànghero di bottegaio. Quando osterie e compagni stornava Nel chino silenzio a cui segrete Drittissime le righe scorrevano Del bel corsivo senza pentimenti E gli stilemi – un ove a preferenza Del dove in accezione Temporale scarsamente impiegabile. Stendeva suppliche, chiedeva dilazioni, Esponeva le circostanze imprevedute per cui, Deprecava l’infausta sorte Che a questo punto rendeva la morte Unica cosa desiderabile per lui. Purché gli concedessero il minimo di respiro Creditori e benefattori. Spesso di quelle lettere protagonista Con gli occhi io lo aiutavo nella penombra della stanza Dove a un raggiro di parole Egli affidava la nostra speranza: Di salute così delicata Questo mio povero bambino Impressionabile come un artista. Li abbindolava li teneva a bada sagace Politico a parare I colpi in ritirata necessaria, A rattoppare l’impostura con una nuova Ovvero giocoliere del circo Un turbinìo di palle a palleggiarsi Tra le annaspanti abili mani nell’aria. Quale fatica – sembrava dirmi Da quel tavolino adesso penso a tre gambe A evocare virtù tropi similitudini Esempi da pio debitore, Alla fine del mese senz’altro pagherò, Ma poi riposto il calamaio riuscire Col suo sereno sorriso nel sole. Doctor Subtilis… Anche lui scriveva il nulla. Anche lui rinviava tutta la vita a domani. Con quella prestidigitazione di segni Anche lui remigava nel lieve vuoto impeccabile. Fin quando le sue righe cominciarono a incurvarsi Verso il finire i margini a farsi incerti La forbita sintassi a guastarsi. Fino al delirio d’inchiostri e indirizzi sbagliati. Fino al via-vai sulla porta Di strozzini per reverendi Di ciabattini per prìncipi apostrofati. Ma chi s’è visto s’è visto Risponde la mente morta. Così i debiti saranno pagati.
[Ahimè – dicono – si piega] Ahimè – dicono – si piega. Ahi si svuota e si inarca. Alfa include già omega Navigato in chiusa barca. Mentre nell’estranea forma Ti intuisco e custodisco, Mutazione, chiesa e norma, Buio in cui mi definisco. O diversa sapienza. Presente che bruci il prima. Sapienza d’inesperienza. Mia fabbrica e mia ruìna. da Il male dei creditori [ Mondadori – 1977]
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