(fotografia: Montecassino, 1986. E. Evtušenkoe F. De Napoli)
Una testimonianza e un ricordo
Ritengo che la poesia di Evgenij A. Evtušenko (Zimà, Irkutsk, Siberia, U.R.S.S., 18 luglio 1932 – Tulsa, Oklahoma, USA, 01 aprile 2017) - e, insieme con essa, tutta la sua opera letteraria (narrativa, saggistica, teatro), nonché quella cinematografica - sia inscindibile da un suo intimo "credo", le cui motivazioni, del tutto particolari, si presentano di conseguenza, nel bene e nel male, di difficile comprensione.
Chi scrive ebbe in sorte il dono di trascorrere un'intera giornata con il Poeta del disgelo, domenica 20 aprile 1986 a Cassino e a Montecassino, in piena era Gorbačëv, quando Evtušenko sosteneva la perestrojka e meditava di candidarsi a deputato. Pertanto, è legittimo esprimere - sia pure con una certa approssimazione - un giudizio abbastanza credibile e veritiero. Si tratta di riflessioni già maturate, in parte, nel volume "Nel Tempo, A Ženja" (Prefazione di Alfonso Cardamone, dismisuratesti, Frosinone, 1998), seguito da “Evgenij Evtušenko, Cantore dei mali del mondo. Riflessioni su ‘Se tutti i danesi fossero ebrei’, Opera teatrale inedita” (Centro Culturale Paideia, Cassino, 2002).
Ženja (diminutivo di Evgenij) era visceralmente, inconfutabilmente un idealista dotato d’un animo volitivo e generoso. Egli considerava l'impegno culturale - letterario, artistico, scientifico, ecc. - come qualcosa di inseparabile da una doverosa "presenza" all'interno della società civile, pur collocando l'attività letteraria al di sopra di tutto.
Secondo il Poeta di Zimà, compito precipuo della politica era porsi in una posizione di "ascolto", rispettando e soprattutto adeguandosi alle ragioni della cultura. Gli uomini di cultura, a loro volta, per poter essere presi in considerazione dalla politica, avevano il dovere di urlare forte le loro ragioni. Finché fu possibile, Evtušenko evitò un impegno personale e diretto in politica, persuaso che la vera cultura - proprio in quanto tale - possedesse di per sé la capacità di condizionare, di influenzare dall'esterno il corso degli eventi. Solo negli ultimi anni dell’inarrestabile declino dell’Unione Sovietica, Evtušenko scese nell’agone politico al fianco di Gorbačëv, convinto che quella fosse l’ultima occasione per cercare di trasformare il regime comunista in un socialismo democratico. Diversamente, con il definitivo crollo dell’U.R.S.S., la Russia sarebbe divenuta terreno di conquista per il capitalismo occidentale.
La concezione della cultura – e della poesia in particolare – da parte di Ženja poggiava sul prestigio e sull'immagine di superiore umanità e saggezza di cui godono da sempre i poeti in Russia, una terra di inguaribili romantici innamorati della poesia. E' divenuto proverbiale il verso di Evtušenko: "Il poeta in Russia è più che poeta".
L'intellettuale ha bisogno di sentirsi libero dai legacci del potere per esprimere con obiettività il suo pensiero, nella convinzione che certe idee siano destinate ad imporsi, a lungo andare, sul costume e sulle abitudini della collettività, e quindi anche sulle scelte politiche. In un certo senso, è quanto succede in Europa e in America, dove giuristi, economisti e filosofi (assai meno scrittori e poeti) posseggono un’autorevolezza tale da incidere sulle decisioni governative.
Evtušenko celebrò alcune conquiste del socialismo, senza nasconderne, nel contempo, gli orribili misfatti. Perché l’U.R.S.S. non poteva essere considerata - e, di fatto, non era – la Terra Promessa, ovvero l’incarnazione suprema degli ideali del socialismo, ma non era neppure il regno della Geenna. Non c'era alcuna contraddizione in questo atteggiamento, nonostante le tante insinuazioni da parte di osservatori prevenuti i quali continuano ad accusarlo, anche dopo la sua scomparsa, di falsità e doppiogiochismo.
La verità è che il Maestro siberiano credeva sinceramente in un socialismo dal “volto umano”, ossia in un socialismo libertario i cui valori giudicava non in conflitto con le conquiste fondamentali della Rivoluzione d’Ottobre che, sul piano ideale, considerava un evento di assoluta portata nella storia della Russia. In effetti, è ciò in cui credettero ciecamente – ed in cui confidarono per decenni - le classi lavoratrici di tutto il mondo, Italia compresa. Erano le medesime posizioni tenute dai Partiti Comunisti d’Occidente, da quello italiano a quello francese e spagnolo: nel mentre celebravano la Rivoluzione leninista, muovevano critiche molto accese contro i dirigenti del Cremlino.
In alcuni momenti Evtušenko sosteneva l'Unione Sovietica – così come incoraggiò ed esaltò la rivoluzione di Cuba -, in altre situazioni la condannava senza mezzi termini, esponendosi anche a tremendi rischi. Egli si rendeva conto che la mancanza di libertà, le repressioni e le chiusure ideologiche erano contrarie, e oltretutto controproducenti, alla causa socialista. Frequenti le sue confessioni in versi, come la seguente: “Non mi hanno ancora ucciso e c’è un motivo: / non sono abbastanza saggio per questo onore.” (in "Fukù!", Poema, Garzanti, Milano, 1989).
Già nel 1957 Ženja, appena venticinquenne, prese le difese di Vladimir Dudincev, autore del romanzo "Non di solo pane vive l' uomo", procurandosi guai a non finire. Negli anni Sessanta, a causa della pubblicazione di opere quali "Babij Jar" (1961), "Gli eredi di Stalin" (1962) e "Autobiografia precoce" (1963), subì ripetute intimidazioni e ritorsioni. Dovette rinunciare, ad esempio, ad interpretare il ruolo di Gesù Cristo nel film “Il Vangelo secondo Matteo” (1964) di Pier Paolo Pasolini, poiché gli fu negato il visto d’espatrio. Negli anni successivi, tra le sue clamorose prese di posizione vanno ricordate le dichiarazioni in difesa di Aleksandr Solženicyn e contro l’intervento militare sovietico in Cecoslovacchia. Sul fronte opposto, non fu da meno nel condannare con veemenza l’aggressione militare americana contro il Vietnam. Partecipò e seguì con apprensione tutti quei sotterfugi e stratagemmi che consentirono al manoscritto de "Il Dottor Živago" di Boris Pasternak di oltrepassare la cortina di ferro, finché quel capolavoro non venne pubblicato in Italia dall’Editore Feltrinelli.
Sempre impulsivo e passionale, Evtušenko esternava pubblicamente il suo pensiero senza pensarci due volte: da autentico “figlio del popolo”, era visto come un carismatico interprete della coscienza popolare. Ogni sua dichiarazione veniva passata ai "raggi X", sia dal Partito che dall'opinione pubblica internazionale, ma lui continuava imperterrito, sfidando provocatoriamente le convenzioni e il potere. La nomenklatura usava, nei suoi confronti, il metodo del "bastone e della carota", e ne era da lui ampiamente ricambiata. Ženja veniva sottoposto a continui controlli da parte della polizia segreta, come ha raccontato egli stesso in molte poesie e articoli editi anche in Italia. Si veda, in particolare, il poemetto "Dora Franco. Confessione tardiva", Milano, Ed. ES, 2012. Le autorità addivenivano a malincuore a più miti consigli, considerata la straordinaria notorietà - soprattutto all'estero - di cui Evtušenko godeva.
A conti fatti, all’U.R.S.S. faceva comodo lasciare Evtušenko libero di recriminare e protestare, onde diffondere nel mondo l’immagine d’un Paese tollerante. Di punizioni e sanzioni, neanche a parlarne: il Politbureau aveva le mani legate. Evtušenko, autentico bastian contrario, non si dichiarò mai, né accettò per se stesso, la limitativa etichetta di "dissidente". Il problema è che egli credeva nel socialismo, in un socialismo dal "volto umano", da realizzare soprattutto nei settori dell’informazione, della cultura e dell’arte.
L'intera produzione letteraria del Poeta di Zimà contiene una ininterrotta dichiarazione di fede nei valori di un socialismo aperto e libertario nel nome della Rivoluzione d'Ottobre, snaturata e tradita da ignobili mestieranti. Se qualcuno sostiene il contrario, è perché non ha letto con la dovuta attenzione le sue opere, molte delle quali ottimamente tradotte da Evelina Pascucci: "La stazione di Zimà" (1962), "Le betulle nane" (1974), "Il posto delle bacche" (1982), "Mamma e la bomba" (1985), "Non morire prima di morire" (1995), "Arrivederci, bandiera rossa" (1995), "Nel paese di Come se" (2002), "Romanzo con la vita e altre poesie" (2007).
Certo, anche un grande Poeta è passibile d'errore, come può sbagliare qualsiasi essere umano. Evtušenko di sicuro peccò nel giudicare negativamente il futuro Premio Nobel Iosif A. Brodskij, ma neppure quest'ultimo fu tenero nei suoi confronti. D’altronde, Ženja non confondeva l’inalienabile diritto alla libertà d’espressione con il talento e le capacità d’uno scrittore. Persino nei confronti di Solženicyn, la cui libertà artistica egli aveva difeso a spada tratta, avanzò delle riserve sul piano strettamente critico e letterario: ne è prova la sua raccolta di saggi e memorie “Condannato all’immortalità. Piccola antologia con inediti” (Ed. Interlinea, Novara, 2008).
Molte intuizioni del Maestro del "disgelo" si sono dimostrate, col trascorrere del tempo, assolutamente geniali. Credo che Evtušenko, personaggio estremamente "scomodo", in Russia fosse l’interprete - più o meno in/consapevole – di alcuni passaggi della lezione di Antonio Gramsci in materia culturale, così come in Italia lo erano personaggi come Pasolini, Dolci, Fortini, Sciascia, Volponi. Un paradosso assurdo: Gramsci compreso e apprezzato più dai poeti che non dai dirigenti del Partito da lui fondato.
Ad Evtušenko non si può rimproverare il suo singolare ma coinvolgente "impegno", la sua presenza sulla scena politica. In altri Paesi erano, all'epoca, come lui impegnati - tanto per fare qualche nome – figure quali Bertolt Brecht, Rafael Alberti, Nâzım Hikmet,Pablo Neruda, Nikos Kazantzakis, Jean-Paul Sartre… Ma vivere nel Paese del "socialismo reale", al quale guardavano i diseredati e gli esclusi della Terra, era terribilmente complicato e difficile. Quando i "sogni" (le utopie?) tendono a trasformarsi in realtà, è allora che iniziano i problemi.
Nel periodo in cui Michail Gorbačëv fu eletto segretario del PCUS, Evtušenko prese la decisione candidarsi a deputato. Me ne anticipò di persona a Montecassino, in quella domenica d'aprile del 1986, le intime e profonde ragioni, con un tono di voce divenuto improvvisamente insolito, diverso da quello disteso e sicuro di qualche attimo prima, quando aveva criticato – indicando, all’interno del Sacrario Militare Polacco, gruppi di chiassosi turisti – “le miserie della guerra in tempo di pace”. In un misto di italiano e spagnolo, comunque ben comprensibile, dispiegò il suo discorso con una inflessione tremante, mentre seguitava a fissare le lapidi dei soldati caduti. Non ricordo le parole precise, ma il concetto era chiaro: le coraggiose scelte libertarie e democratiche di Gorbačëv avevano bisogno d'essere appoggiate con ogni mezzo, pena il crollo del socialismo in Russia. Gorbačëv - aggiunse - era molto odiato in Patria, aveva molti nemici. E concluse, questo lo ricordo bene: "Ma al di là del socialismo non c'è altro, solo il capitalismo… con il suo spietato sfruttamento dell'uomo sull'uomo".
Ad un tratto, ripensai ad Evtušenko cittadino del mondo, all’infaticabile viaggiatore - quasi un “esploratore dell’avvenire” –, che aveva incrociato, lungo il suo cammino, il mitico Ernesto Che Guevara insieme con Fidel Castro, e poi Robert Kennedy, Pablo Neruda… Accanto ad essi, ogni sorta di miserabili, mentecatti, reietti sparsi per i cinque continenti.
Immaginai quel ragazzino lasciato completamente da solo, sperduto tra le macerie di Mosca nell’immediato dopoguerra. Abbandonato dal padre, geologo, e subito dopo anche dalla madre, cantante lirica, l’ancora adolescente Ženja prese la temeraria decisione d’avventurarsi alla ricerca del padre, impegnato in Kazakistan in una spedizione geologica.
Il progetto politico di Gorbačëv sembrava recuperare le speranze di cambiamento degli anni della giovinezza di Ženja, quando Nikita Chruščëv aveva dato inizio alla politica del "disgelo", poi interrotta a causa della successiva restaurazione di Leonìd Brèžnev. Ciò che aveva tentato Chruščëv non fu affatto uno scherzo, né un bluff: basti pensare che ai funerali dell'ex-Segretario, caduto in disgrazia, non prese parte alcun esponente del Partito né scesero in campo i tanti intellettuali - allineati o dissidenti che dir si voglia -, al di fuori del solito Evtušenko… Il suo fu un atto di coraggio, non un semplice gesto formale.
In quel giorno d'aprile nella Città Martire, mi impressionò enormemente, e nel contempo mi commosse - un po' intimorendomi -, il vigore e l'umiltà, la semplicità e il candore con cui quel gigante della letteratura mondiale confidava a me, sconosciuto scrittore alle prime armi, il suo credo, tutto sommato lineare e coerente. E mi resi conto, in maniera palpabile, di come Evtušenko fosse un uomo solo, terribilmente solo.
Negli anni successivi alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, il Poeta siberiano decise di trasferirsi negli Stati Uniti, dove gli era stata assegnata una cattedra di Letteratura russa e cinematografia all'Università di Tulsa (Oklahoma). In una società globalizzata qual è l'attuale, che ha accantonato del tutto le ragioni dell' "impegno" per esaltare il "disimpegno" più frivolo e sfrenato, la poesia di Ženja riscoprì – con un timbro sempre personalissimo - il versante intimistico ed elegiaco dell'esistenza, senza rinunciare alle acute, sferzanti invettive d'un tempo, ora addolcite da un complessivo senso di disillusione e di sconforto.
Di recente, in occasione della scomparsa di Umberto Eco, scrisse versi incredibilmente belli, che ricordano l’Evtušenko dei tempi migliori: “Ci sono uomini nei cui occhi tiepidi, in punto di morte s’intravvede / l’orlo sottile della storia. / Ci hanno mostrato soltanto quest’orlo sottile, / senza dirci altro, ed esso si consuma folgorante / assieme ai tanti occhi che si spengono sul rogo.”
Invero, neppure nelle sue poesie d'amore c'erano mai state scontate e banali emozioni, ma sempre qualcos'altro di più sofferto e profondo, con una straordinaria apertura alle ragioni dell’umanità sofferente, alla ricerca d’un mondo più giusto. E così continuò ad essere, fino alla fine.
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