Compari ogni mattina ma non al cantar del gallo: il raglio di un asino, testardo ed imbizzarrito, ti annuncia. Signora incontrastata, nata da una terribile schiatta di ciclopi, ariana monocola, annusi l’aria alla ricerca di chi divorare per colazione. Non puoi iniziare la tua giornata senza aver masticato la dignità di uno, a caso, dei tuoi schiavi.
Poi, inizia il tuo mantra: alle mattutine lodi sostituisci una stridula litania di insulti, lamentele ed insopportabili urla, con la quale ti carichi d’odio ed autocompatimento. La dose deve essere assai concentrata per poter sopportare la fatica di un altro giorno di potere assoluto. E, se non bastasse, potrai iniettarti sufficienti richiami, aspirati direttamente dalle vene, vuote di coraggio, dei tuoi sudditi.
Incontrastata, domini sicura sul tuo regno ed edifichi la piramide che ti sarà sepolcro e monumento. Spegni ogni umana pietà, ogni compassione, ogni sorriso ti siano, inconsapevolmente e incomprensibilmente, rivolti affinché i blocchi giganteschi siano saldati con la rabbia e la paura, con calce impastata di lacrime e di defecata obbedienza.
Ti glori di non essere amata, il tuo vanto risiede nella consapevolezza d’essere temuta piuttosto che compresa, il tuo compiacimento si alimenta dell’insoddisfazione che corrode le povere vite dei pupi che, saldamente appesi per i testicoli, al tendere del filo s’agitano, dopo aver represso l’urlo di dolore, sulla scena del tuo teatrino che, nella tua immensa cecità, continui a credere essere il mondo.
Sguinzagli il tuo funesto cardinale ed il giullare gobbo, che s’adoperino a spiare, a raccogliere delazioni, stillate come fetido sudore da omuncoli che ti servono, malgrado tu li schifi e li vomiti.
Ti senti grande nella tua segreta ammirazione per chi, impavido, ti s’oppone ma, più ti vedi crescere, più il tuo piede si leva, pronto a schiacciare il temerario. La tua mente, ormai preda di senile demenza, cerca ossessivamente nuove pene da infliggere a chi rifiuti, anche per un giorno, la parte dell’ortolano.
Ti ergi sopra ogni legge, divina o d’uomo, salvo invocarla nei pubblici conviti, salendo sempre sul carro del vincitore che tratti da amico ma solo sino a quando, come vuole la storia, il suo capo non rotoli nella polvere.
Nazista fin nel midollo, se solo potessi, riapriresti i campi e lasceresti in vita un popolo di biondi ed occhicerulei baciapile.
Dal tuo ventre sterile sale la voglia di procreare una stirpe perfetta: magri, sani, senza imperfezioni; etero, nati in sacre famiglie, custodite da donne programmate per partorire solo una volta così da non dover lasciare la cura dei tuoi possedimenti.
Nelle tue fabbriche si lavorerebbe quindici ore al dì ed il tuo calendario non prevedrebbe giorni festivi.
Ma ora, attenta, a quel che ti dico: fra i tuoi allignano ancora (gramigna scampata ai tuoi occhi ciechi) rispetto, solidarietà, amicizia, gentilezza e gratuità. Lavorano in silenzio, ben nascosti, minando le fondamenta della tua casa degli orrori. Più tu dividi per regnare incontrastata, più essi moltiplicano la loro forza, rodono le funi, indeboliscono con mielosa ruggine le catene.
Verrà il giorno, in cui l’amore, gettato come sabbia negli ingranaggi della tua macchina infernale, riuscirà a fermarla. Non senti gli scricchiolii? Non t’accorgi che il riso ancora serpeggia fra i candidi denti che, col loro ineffabile scintillio, aggiornano il tuo buio medioevale?
Oh, sì, lo sai ma pensi di poterlo spegnere, insieme alla speranza di aver scampo.
Ma il riso è come il sole: ad ogni tramonto, segue un’alba e nessuna eclissi dura mai in eterno.
Non abbiamo neanche bisogno di agognare la nostra vendetta: già si compie in te perché, non il nostro rancore ma il tuo orgoglio, l’ha generata. E’ come un saprofita che vive ospite nel tuo corpo, che tu stessa hai nutrito dei tuoi organi inerti.
La tua infima grandezza ormai ti consuma e, forse, un figlio illegittimo è già nato per usurpare il tuo trono.
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