Pubblicato il 22/05/2009 13:35:00
La produzione poetica di Giampiero Neri, classe 1927, è indubbiamente tra le più interessanti di questa nostra Italia in versi. Egli si distingue nettamente dai suoi contemporanei per le modalità analitiche con cui tratta i soggetti/oggetti poetici dei suoi componimenti, soggetti spogliati della loro complessità dalla semplicità descrittiva, quasi scientifica, che conferisce alla sua scrittura lo stesso caratteristico ordine dei sistemi naturali, regolati da ben definite leggi. Il dettato poetico lascia nel lettore una sorta di positivo sconcerto, si ha la sensazione di ricevere una blandizia allo spirito, il corpo si rilassa, l’attenzione penetra tra i versi e si viaggia col poeta nel suo teatro naturale e umano, dove il passato riaffiora; anche se è un passato che non appartiene ai ricordi diretti del lettore, quest’ultimo si ritrova comunque coinvolto a sperimentare una controllata emozione personale, poiché Neri, nel suo caratteristico equilibrio tra sentire soggettivo e oggettiva descrizione del mondo, raccoglie l’esperienza collettiva del creato, dei luoghi naturali, della vita, e li pone sotto il manto della sua poesia che diventa territorio familiare al lettore.
L’intelligenza analitica di Neri riesce quindi a soddisfare la mente logica e il pensiero emotivo, senza interrompere mai, neppure da una sezione all’altra del libro, e, oserei dire, neppure da un libro ad un altro, quella tessitura leggera tra i vari poemi che li rende nel complesso armoniosi, e che emergono dall’unica e unitaria opera che è la vita stessa del poeta e che traspare dai suoi scritti come meditativa, protesa a ciò che ancora è da esperire nel presente/futuro ma che allo stesso tempo attinge in modo notevole dalle esperienze del passato.
Un elemento molto interessante di questa raccolta – a mio avviso una caratteristica dell’intera opera poetica di Neri – è la forte interconnessione tra il paesaggio umano, fatto di persone e relazioni e luoghi, quali case e strade, e il paesaggio naturale, fatto di animali e ambienti di natura dove essi vivono. Da notare che Neri in gioventù tentò, a Milano, dove la famiglia si trasferì, di portare a compimento gli studi di Scienze Naturali, mai terminati a causa dei problemi economici in cui versava la famiglia, Neri dovette trovare un lavoro e abbandonare gli studi. Ecco quindi che la rilevante connotazione naturalistica delle sue poesie trova giustificazione nella sua mai sopita passione per le scienze naturali, già prefigurata nel bellissimo titolo “Paesaggi inospiti”. La tendenza del poeta ad una analisi quasi scientifica dell’ambiente che lo circonda, si rivela come qualcosa di assolutamente attraente, egli riesce, abilmente e in modo coinvolgente, da osservatore (come farebbe un naturalista), ad avvicinarsi ad animali e ambienti naturali per descriverne, in pulitissimi versi, le caratteristiche fisionomiche e comportamentali; ma il poeta non è uno scienziato che deve scrivere trattati molto lunghi ed fare pubblicazioni sovrabbondanti di termini assai desueti per chi non è del mestiere, egli, in quanto poeta, ha il dono della sintesi fulminea e della libertà di movimento tra i vari livelli del creato, che non è soltanto animale e vegetale, ma è anche umano-sociale e umano-storico. Ha quindi, rispetto a un naturalista, la libertà di porre sul foglio la sua visione d’insieme del tutto, proponendo così uno sguardo unitario sul mondo naturale e sociale.
Nella prima decina di poesie di questa breve raccolta, vi è la descrizione di paesaggi naturali in cui l’unico punto di osservazione è quello del poeta-naturalista, attento osservatore, si ha l’impressione di essere da lui accompagnati in questo silenzioso stare tra l’erba, “Dagli spalti del dosso” in cui “il paesaggio si apre sulla pianura” sotto il cielo in cui volteggia la poiana: “Di questi boschi in partibus infidelium / è abbastanza comune la poiana, / dove qualche spuntone di roccia / e mozziconi di sassi / che si alzano da terra qua e là / offrono asilo e protezione.” Ad un certo punto, esattamente come in una scena teatrale, si affaccia sull’ipotetico palco del libro, la figura di un ragazzo: “Si era affacciato alla terrazza / quel ragazzo sui trampoli. / Stava sul suo aereo sostegno / come un dio campagnolo, / sembrava felice della sua prodezza.”; da lì in poi iniziano ad emergere, dal passato, vicende umane abilmente dispiegate da Neri nei suoi versi: “Via Mainoni odorava di biscotti / appena sfornati. / La grande vetrina della posteria / esponeva due figure di burro / […] / Anno che va, anno che viene, / continuava per qualche giorno il teatro / anche di sera, nella vetrina illuminata.” Via Mainoni ricorre spesso nel libro, è il luogo della memoria, dove, molto probabilmente, si svolse la prima giovinezza di Neri. La maggior parte della narrazione poetica è al passato (si contano su una mano le poesie al presente): “Dalla cucina della casa / di via Mainoni / si vedeva la linea dell’orizzonte / e sullo sfondo una strana costruzione / fra radi alberi, / come una grande macchina scoperta / ferma sulle colline.” Come si può notare il poeta tiene in garbato equilibrio la descrizione dei luoghi dell’uomo e dei luoghi naturali, due realtà, quella umana e quella della natura, che si contendono l’esistenza; è rilevante la spontanea tendenza della natura a esistere nei luoghi umanizzati in cui cerca di riprendere spazi di precedente appartenenza, o inesistenza: “Nella strada che ai lati / ha qualche pianticella di robinia / facevano commerci / i giovani studenti. / Un francobollo delle isole Svalbard, / se mai sono esistite / quelle lontane isole, / l’aveva comperato un ragazzo.”
Il poeta, nel corso della raccolta, è come se preparasse una scena teatrale, dove fare apparire persone attraverso il ricordo, e delle quali talvolta, di poesia in poesia, come di scena in scena, se ne segue la storia: “Nella stessa casa / al numero 5 di via Mainoni / abitava una famiglia milanese. / Una ragazza con uno strano nome / e un giovane allievo della Guardia. / Era difficile vederlo / ma nelle cerimonie ufficiali / portava la bandiera.” In una successiva poesia, si legge: “Di quel giovane alfiere / portabandiera nelle parate ufficiali / non si può tacere il mutamento di rotta / nelle fasi finali della guerra. / era stato accolto nelle file opposte / che andavano ingrossando a vista d’occhio.” Via via che la lettura procede, le poesie diventano scene sempre più investite di esperienza umana. Il poeta vive la sua giovinezza proprio a cavallo della guerra, da cui non può certo non essere influenzato nel ricordo. Il libro si avvia alla conclusione con alcune poesie che lasciano la scena all’”amico del paradosso”: “Quel fumatore di tabacco nero / preside dell’Istituto Carlo Annoni / era finito nel cerchio di Nomadelfia. / Si lasciava dietro una storia / […] / Soltanto il suo sodale / l’amico del paradosso / era sembrato immune al contagio, / come un indizio della sua diversità.” Tale personaggio sembrerebbe essere un professore della scuola da lui frequentata in gioventù; riporto, a tal proposito, una nota di Daniela Marcheschi sulla vita di Giampiero Neri: “Frequenta con scarso profitto i primi anni dell’Istituto Magistrale ‘Carlo Annoni’ di Erba, dove, peraltro, ha la fortuna di incontrare Gino (Luigi) Fumagalli, un professore di lettere a cui resterà legato con sentimenti dapprima di ammirazione e, in seguito, anche di amicizia. Alcuni detti e atteggiamenti memorabili – per esempio "Mi darete un mondo speciale" – di quest’uomo dal forte impegno umanitario e politico, nel Partito d’Azione, avranno una eco negli scritti di Neri”. Nelle poesie conclusive, Neri traccia, con versi decisi, una linea che parte da quegli anni adolescenziali e lungo la quale prende forma la descrizione della vita di un soggetto che a tratti pare essere il suddetto professore, a tratti pare essere lo stesso autore, in una interessante commistione di identità, tipica di un allievo verso un maestro di idee e di vita. In questo senso Neri non sembra essersi mai sganciato da quella importante figura della sua giovinezza e anzi col passare degli anni essa rimane, dopo aver contribuito a plasmare la visione del mondo del Neri adolescente, certezza e riferimento per una linea di vita e di pensiero.
Un’opera poetica, questo “Paesaggi inospiti”, davvero ben riuscita. Nella sua brevità, una settantina di poesie, rimarrà sicuramente un libro su cui si avvertirà la necessità di tornare, sia come esempio di sobrietà di scrittura poetica, sia per imparare a rivivere i propri ricordi con quell’asciuttezza emotiva tanto caratteristica di Neri.
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Pubblichiamo di seguito un importante contributo critico di Antonio De Marchi-Gherini, pervenutoci il 12 marzo 2010:
Se dobbiamo crederci, Paesaggi inospiti, dovrebbe essere l’ultima fatica poetica di Giampiero Neri, e titolo mai fu più calzante per i tempi e i luoghi, del corpo e dello spirito, che viviamo in questo primo scorcio del nuovo secolo e del terzo millennio dell’era cristiana. Come nelle precedenti raccolte, più volte rimaneggiate, accorpate, limate; ‘Paesaggi inospiti’ non è terra di spreco. Si ravvisa una levigatezza di linguaggio e una strutturale e sapiente sintassi classica che è merce rara di questi tempi ,sia in prosa che in poesia. Linguaggio dicevo, e d’altra parte già sottolineato da più parti, ridotto alla pura essenza, non solo controllo dello scialo verbale ma anche emozionale, questa è la cifra stilistica di Neri, che ne fa un caso unico nel panorama della poesia contemporanea italiana. Non è neppure regione di canti salmodianti o di tiritere, tanto per riempire pagine, anche se una religione laica, una pietas per gli uomini, gli animali e le cose è ben presente; religione intesa come ‘religo’: tenere insieme, prima che il tempo cancelli tutto. Il poeta scava minuziosamente in profondità alla ricerca dell’eterna sorgente dell’essere e dell’esserci , qui e ora, con il suo carico di memoria dolente ed euforica ad un tempo. Un euforia particolare, quella gioia che scaturisce per improvvise folgorazioni di memoria che una via, un monumento, una piazza, anche solo una nenia o un profumo, ci riporta magicamente indietro nel tempo, ladro dalle mani rapaci. Con un amore quasi maniacale, parrebbe che il nostro si trovi più a suo agio con gli animali che con gli esseri umani, e come dargli torto. Queste creature, a volte indifese, non sanno commettere le atrocità che l’uomo d’oggi come quello di ieri è capace di mettere in atto. Amore per gli animali, anche se a volte usato come pretesto descrittivo, per raccontare altro, che ricordano il Guido Gozzano dei ‘Colloqui’.Ma le sue poesie, da sempre, fanno venire alla memoria le nature ‘morte’ di Morandi. Spoglie all’osso ma con una luce sempre crescente, cambio d’angolo, aggiustamento di prospettiva o ‘occhio di bue’, per illuminare zone d’ombra. Eppure , pur nel verso libero, le sue poesie hanno un ritmo, una musicalità interiore, il suo, però, è un solfeggiare a togliere, più che a mettere. Quasi a scolpire una sintesi nel granito, più che a scrivere, conscio che tanto rimane poco o nulla di tutto l’affannarsi a vivere e a scrivere. Per dirla con Paul Valéry: “Quello che colpisce in lui e ce lo rende vivo, è la consapevolezza di sé; dell’essere interamente raccolto entro la propria attenzione; e l’acuta coscienza delle operazioni del pensiero, coscienza così volontaria e così esatta che può fare dell’Io uno strumento la cui infallibilità dipende soltanto dal grado di coscienza che egli ne ha”. La vita di ognuno diventa paradigma del male e della sofferenza universale: “La madre non ne aveva sopportato il lutto,/ ed era stata trovata annegata/ nella piscina della villa,/ i suoi gioielli in ordine sul bordo/ senza nessun messaggio”. E qui un dolore atroce, quando il poeta aveva solo diciotto anni, dolore che si sommava ad altro dolore di cui, dopo un rovello durato una vita, Neri è riuscito a ‘liberarsi’ calibrando il tiro al millimetro. “Quella mattina di novembre/ aveva visto l’arrivo di suo padre/ davanti alla scalinata del Terragni./ Nell’abbracciarlo la bicicletta era caduta a terra,/ ‘se erano tutti da ammazzare’/ aveva detto ‘doveva essere l’ultimo’”. Ma come sfuggire all’idea che: “A sentire il contadino/ che guidava il carretto/ l’asino sia stato colpito / da una pallottola vagante/ Si era trovato sulla scena/ di un crocevia conteso/ negli ultimi sussulti della guerra/ e come un eroe di Metastasio/ vi era condotto a morire.” Questi versi, che idealmente chiudono la trilogia iniziata con “L’abito occidentale del vestito” (1976), seguita poi da “Armi e mestieri”(2004) che includeva e arricchiva “Teatro naturale” (1998), hanno la forza quieta della memoria che resta tale come sigillata in istantanee senza tempo, che forse ingialliranno un poco, ma, sia pure con il pudore del nascondimento e la rappresentazione mimetizzata di un “bestiario sociale”, hanno la peculiarità di ridare dignità e senso ai fatti e alla realtà vissuta ma sempre presente. Il poeta però é cosciente che tutto scorre, o come direbbe un buon buddista, tutto è impermanente, ma lo sforzo e la “fatica” della scrittura è proprio questo remare controcorrente per risalire al punto alfa, da dove nascono e si generano tutti gli eventi del destino personale, epperò universali se è vero, come amava ripetere David Maria Turoldo, che ogni uomo è un’esperienza unica e irripetibile, con tutto il suo carico di eventi, di gioie, di sofferenze, insomma quella che con un termine abusato, ma che trova pochi sinonimi, si chiama vita.
Antonio De Marchi - Gherini
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