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’Fuocoammare’ candidato all’Oscar come miglior documentario

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Comunicazione di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 25/01/2017 07:23:28

Fuocoammare un film ‘documento’ di Gianfranco Rosi è ufficialmente candidato all’Oscar come miglior documentario.

In collaborazione con Cineuropa News

Titolo originale: Fuocoammare
titolo provvisorio: Oltre Lampedusa
paese: Italia, Francia
anno: 2016
genere: documentario
regia: Gianfranco Rosi
durata: 108'
fotografia: Gianfranco Rosi
montaggio: Jacopo Quadri
produttore: Gianfranco Rosi, Donatella Palermo
produzione: Stemal Entertainment, 21uno Film, Istituto Luce Cinecittà S.p.A., Rai Cinema, Les Films d'Ici, ARTE France Cinéma
distributori: Istituto Luce Cinecittà, Météore Films, Cinéart, Folkets Bio


Sinossi:
Nel suo viaggio intorno al mondo per raccontare persone e luoghi invisibili ai più, dopo l’India dei barcaioli (Boatman), il deserto americano dei drop-out (Below Sea Level), il Messico dei killer del narcotraffico (El Sicario, room 164), la Roma del Grande Raccordo Anulare (Sacro Gra), Gianfranco Rosi è andato a Lampedusa, nell’epicentro del clamore mediatico, per cercare, laddove sembrerebbe non esserci più, l’invisibile e le sue storie. Seguendo il suo metodo di totale immersione, Rosi si è trasferito per più di un anno sull’isola facendo esperienza di cosa vuol dire vivere sul confine più simbolico d’Europa raccontando i diversi destini di chi sull’isola ci abita da sempre, i lampedusani, e chi ci arriva per andare altrove, i migranti. Da questa immersione è nato Fuocoammare. Racconta di Samuele che ha 12 anni, va a scuola, ama tirare con la fionda e andare a caccia. Gli piacciono i giochi di terra, anche se tutto intorno a lui parla del mare e di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo per raggiungere la sua isola. Ma non è un’isola come le altre, è Lampedusa, approdo negli ultimi 20 anni di migliaia di migranti in cerca di libertà. Samuele e i lampedusani sono i testimoni a volte inconsapevoli, a volte muti, a volte partecipi, di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi.

‘Fuocoammare’ si affaccia sulla porta per l’Occidente
di Camillo De Marco.

16/02/2016 - BERLINO 2016: Il regista Gianfranco Rosi, Leone d’Oro a Venezia con Sacro GRA, si è stabilito per più di un anno sull’isola di Lampedusa per girare il suo nuovo documentario
Facile ricevere così tanti applausi dalla platea della Berlinale con un documentario su un argomento, l’immigrazione, che sta spaccando in due l’Europa. Eppure Fuocoammare [+], in concorso al festival, sembra aver scaldato cuori e occhi soprattutto per come è realizzato. Sottile, asciutto, ma di respiro ampio, con la passione richiesta per affrontare questa immane tragedia ma la distanza necessaria per fissare lo sguardo senza le trappole della compassione.
Lampedusa, come recita il laconico e spietato cartello che apre il film, è un’isola nel Mediterraneo che misura 20 km quadrati e 6mila abitanti. Dista 113 km dall’Africa e 205 dalla Sicilia. In vent’anni hanno tentato di sbarcare sulle sue spiagge 400mila migranti. 15mila sono morti nel tentativo. Il regista Gianfranco Rosi, Leone d’Oro a Venezia con Sacro GRA [+], si è stabilito per più di un anno su quest’isola per girare il suo nuovo documentario.
Fuocoammare si apre su un bambino di 12 anni, Samuele, figlio di pescatori, ripreso mentre si costruisce una fionda con un ramo di pino marittimo che sbuca da un terreno aspro e roccioso. La natura dell’isola sarà un elemento dominante nel film. Le rocce a picco sul mare, le onde minacciose sopra un’acqua purissima e profonda, le improvvise burrasche annunciate dai tuoni, un cielo azzurrissimo che diventa nero. Dopo avere introdotto il piccolo protagonista, Rosi ci assesta subito il primo pugno nello stomaco, e lo fa senza ricorrere alle immagini. Sulla radio di una nave della Marina italiana un uomo sta gridando: “Please please help us, we are sinking!”.

Nel corso del film Rosi spesso opterà per una mediazione dello sguardo, lasciandoci osservare attraverso monitor militari, specchi, oblò bagnati e incrostati di salsedine. Ma negli ultimi minuti non ci risparmierà una visione totalizzante e dolorosa di morte nella stiva di un barcone. Sulla terraferma scorre intanto un piano narrativo parallelo: l’anziana zia Maria detta le sue dediche al dj di una stazione radiofonica locale; un pescatore si immerge con la muta per pescare ricci e patelle; Maria, la nonna di Samuele, si dedica al cucito e racconta al nipote vecchie storie di mare. I migranti, quelli che ce l’hanno fatta e sono in attesa, organizzano tornei di calcio. Siria contro Eritrea, perché Somalia e Libia sono state già eliminate. Sembrerebbe solo un altro “perfect day”. Samuele va a scuola, gioca, non entra mai in contatto con quel mondo di disperazione, che gli scorre accanto. Ma allora perché quell’improvvisa difficoltà a respirare che lo prende di tanto in tanto, e lo costringe ad andare dal medico?
Il medico, il dottor Pietro Bartolo, quello che da vent’anni cura le ustioni chimiche da carburante dei migranti, la disidratazione, che fa nascere i bambini delle donne africane appena sbarcate, che i bambini spesso è costretto a seppellirli. “Odio fare le autopsie. Ne ho fatte troppe. Ho gli incubi”, confessa. “Ma è dovere di ogni uomo, che sia un uomo, aiutare queste persone”.

Rosi, dopo aver descritto gli universi chiusi dei drop-out del deserto americano di Below Sea Level e dei “freaks” del Grande Raccordo Anulare di Roma, è andato dritto al cuore di una grande comunità fantasma che si affaccia sulla porta dell’Occidente, sul confine più simbolico d’Europa. Un film che va mostrato a studenti e parlamentari europei.
Prodotto da Donatella Palermo e Gianfranco Rosi attraverso 21Uno Film e Stemal Entertaiment con Istituto Luce-Cinecittà e con Rai Cinema, Fuocoammare è coprodotto con Les Films D’Ici e Arte France Cinema.

Intervista a Gianfranco Rosi • Regista di ‘Fuocoammare’.
di Vittoria Scarpa.

17/02/2016 - BERLINO 2016: Il regista italiano Gianfranco Rosi ci parla del suo nuovo film documentario sulla tragedia dei migranti a Lampedusa, Fuocoammare, Orso d'oro del miglior film alla Berlinale.
Dopo gli applausi al 66° Festival di Berlino, dove è stato presentato in concorso, Fuocoammare [+], il nuovo, intenso documentario di Gianfranco Rosi sulla tragedia dei migranti a Lampedusa arriva nelle sale italiane il 18 febbraio. Il film, cui è stato assegnato un Nastro d’argento speciale dai giornalisti cinematografici italiani del SNGCI perché espressione di un “cinema che richiama il mondo alle proprie responsabilità”, racconta la vita degli abitanti di Lampedusa – in particolare di un bambino, Samuele – e quella dei migranti che vi sbarcano a migliaia, come due universi paralleli che non si incontrano mai.

Cineuropa: Ha mai avuto la tentazione, durante le riprese, di trovare il modo per far incontrare questi due mondi?
Gianfranco Rosi: No, perché filmo sempre quello che accade nella realtà e sarebbe stato ipocrita innestare nel film delle finte interazioni che non c’erano. Uno dei pochi momenti in cui si crea un contatto è quando Samuele scarroccia con la sua barchetta e si avvicina alle motovedette della guardia costiera, ma era assolutamente imprevisto. Tutte le scene del film sono nate un po’ per caso, un po’ per magia. La realtà è sempre più emozionante delle cose pensate.
Quando e come ha deciso di bilanciare i due aspetti, quello della cronaca e quello della vita dei lampedusani?
Durante il montaggio, ma mentre giravo ho sempre tenuto separati tre momenti. C’è prima il racconto dell’isola, del suo vuoto e dei personaggi che ho scelto fin dall’inizio come compagni di questa avventura. Ho voluto raccontare l’isola come un elemento a sé, perché così è, c’è una separazione reale tra il quotidiano della gente e il mondo dei migranti. Poi c’è il centro di accoglienza, cui ho avuto libero accesso. Poi ancora gli sbarchi, i viaggi sulla nave Fulgosi, dove ho incontrato la tragedia. In tutto, 80 ore di girato. Quando abbiamo iniziato il montaggio sapevo che l’elemento chiave era la storia di Samuele, che con il suo “occhio pigro” si è rivelato una metafora dello sguardo pigro di noi occidentali verso i migranti. Rispetto ai miei film precedenti, qui c’è un arco narrativo più lungo, seguiamo un personaggio passare per vari stadi. E i cambiamenti di Samuele sono stati anche i miei nel racconto di Lampedusa.
Qual è stata la prima differenza che ha trovato tra quello che si racconta sui giornali e la realtà di Lampedusa?
I media arrivano sul luogo solo quando c’è una tragedia in atto. Quando sono arrivato io, invece, tra ottobre e novembre del 2014, c’era una dimensione di assenza perché il centro era chiuso per lavori, non c’era quell’invasione di migranti di cui si parla solitamente, questo mi ha permesso di entrare in contatto con gli isolani. C’è da dire che negli anni sono cambiate molto le modalità degli sbarchi. Un tempo, prima delle operazioni Mare Nostrum, Frontex, Triton, i barconi arrivavano direttamente sull’isola. Ora la frontiera si è spostata, i barconi vengono intercettati in mare aperto. E’ cominciata così una nuova fase per Lampedusa, si è creata una distanza tra gli isolani e i migranti. C’è lo sbarco sul molo, l’accoglienza, il pullman che li porta nel centro; nessuno scambio con gli abitanti.
Nel centro di accoglienza, a un certo punto vediamo un migrante recitare una sorta di preghiera grazie alla quale per la prima volta nel film sentiamo la voce e conosciamo l’odissea di queste persone. Come è nato quel momento?
Ho avuto la fortuna di incontrare questi nigeriani, e che loro si siano aperti e mi abbiano fatto entrare nella loro stanza. C’era una sorta di gospel di sottofondo e poi ognuno di loro raccontava qualcosa del viaggio, più che una preghiera era un ringraziamento per essere arrivati a Lampedusa. Una volta che sono riuscito a filmare quel momento non potevo aggiungere altro, perché quella storia raccontava tutto.
Il film non risparmia immagini molto crude. Quando se l’è trovate davanti, che cosa l’ha colpita di più?
Quando sono arrivato con la barca su quello che sembrava uno dei tanti trasbordi – ne ho seguiti tanti, sono stato più di 40 giorni in mare – la cosa che mi ha colpito è stato vedere quei corpi agonizzanti davanti a me, il rumore dei loro respiri. Quando la tragedia mi si è palesata nella stiva, ho sentito il dovere di entrare e documentare, ma non è stata una scelta facile. Dopo quel momento lì ho deciso che il film doveva chiudersi e di montare con quello che avevo. Non avevo più la forza di girare.
Che cosa pensa della chiusura delle frontiere?
Penso che sia una cosa tragica. Ma quello che mi fa più paura è la chiusura mentale, e questo lo sento molto tra le persone. Far crollare l’idea di Schengen è una cosa spaventosa, anche perché nulla può fermare queste persone che scappano dalla morte. Chiesi al gruppo di nigeriani che cosa li spingeva a imbarcarsi, dissi loro “you might die”… E loro mi risposero che la chiave era proprio in quel “might”: lì da dove erano partiti, invece, la morte era una certezza.

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