Pubblicato il 30/05/2016 23:37:27
Vorrei riuscire a descrivere come mi sento ora. In questo preciso, esatto, momento. Ma non lo so fare. Dovrei saper scrivere per farlo e non ne sono capace. Ho scritto un libro. Così dicono e così sembra. Un romanzo breve o racconto lungo, non so nemmeno questo. Mi sento nel vuoto. Le uniche cose vere che percepisco sono le mie lacrime alle quali non riesco a dare un senso compiuto. Nemmeno a loro. Non credo di avere molta speranza di farcela. Non più. Gli errori si sono susseguiti senza che io avessi il tempo di catalogarli, metterli in cartelline, spillarli in qualche modo ordinato per poi riprenderli dall’inizio e con ordine cronologico, cominciare a risolverli. Non esiste più nemmeno il tempo. O forse è lo spazio a essersi dileguato nell’unico istante possibile, incolto. Questa è la solitudine. Quella vera, profonda, intima e indissolubile. Ti si appiccica addosso e diventa il tuo abito. Ad un certo punto: un ricamo, un punto croce che si trasforma nella tua pietà. Non è la pietà che di te possono avere gli altri, quella non la cerchi e la detesti, non vuoi nemmeno che sia concepibile, e non è la pietas che potresti avere per te stessa, perché non esiste. C’è stato un angolo, un metro, un centimetro, un qualche cosa di misurabile in passi che ti sei perso e quei passi non hanno più avuto la possibilità di trovare una strada. Una che fosse percorribile. Troppi fantasmi. Tutti qui luoghi non riempiti. Il vuoto, appunto. Quello che torna, torna sempre, e si fa sentire come un enorme monolite immobile e criptico. Ecco, ora ho scritto, qualcosa ho scritto: queste sono parole che si susseguono e significano e dicono e fanno pensare, ma chi? Chi legge? Io non lo so, non so nemmeno questo. So che ci sono perché le vedo sullo schermo, appaiono mentre riempio con le dita lo spazio dei tasti. L’unica cosa che è accaduta nel frattempo è che le lacrime hanno smesso di scendere dai miei bulbi e forse stavo meglio prima. Forse ho cominciato scrivere per stare peggio, per acuire il malessere fino al punto di renderlo una sostanza palpabile. Una specie di palla da tenere tra le mani, ora, e decidere che farmene. Qui davanti è fastidiosa, m’impedisce la visione dello schermo, mi crea disagio nel battere i tasti. Quindi la getto. La lancio. Sta rimbalzando nella sala della casa che fu di mia nonna, morta a bocca aperta. La tiro dentro a quella bocca. Ora quello spazio della sua gola, della sue labbra, della sua lingua esanimi, è pieno della palla della mia disperazione. La vedo. Riesco a vederla. La mia angoscia è stata ingoiata dalla morte stessa. Ci tengo a ricordare che non so, non ho alcuna idea di cosa sto scrivendo, perché non sono una scrittrice. Non lo sono. Cerco la sofferenza in queste parole, di trasmetterla come una malattia contagiosa. Volevo solo dire che il tempo non esiste, è lo spazio che ci frega. Se noi occupiamo quel segmento, quel cerchio, quell’esagono di terra senza prendere un sasso appuntito e inciderci sopra una cosa qualsiasi, abbiamo permesso al tempo di entrare e prendersi gioco di noi. Il tempo non esisterebbe se fossimo capaci di riempire lo spazio: lo spazio si riempie e il tempo ci svuota. Sto occupando la parte destra del divano con i miei glutei e con i piedi il bordo del tavolinetto posto sul pavimento qui davanti: giusto lo spazio dell’estensione delle mie gambe ripiegate per tenere il computer sulla pancia e digitare queste lettere ad una ad una. Punto, volevo vederne la lunghezza, del punto dico, ma forse essa sta nel periodo che lo precede. Si può ancora dire “essa”? non lo so. Non sono uno scrittore. Perché prima avevo usato il femminile? Che differenza può fare, nella sostanza dico; ma anche nella forma: se fa differenza non m’interessa, quindi non la fa, non per me, non per me su questa parte destra del divano sul pavimento di un appartamento di tre piani che occupa uno spazio su un rettangolo di terra. A volte, e qui torna il tempo, ci preoccupiamo di cose davvero futili. Ci meritiamo le aggravanti. Ancora il tempo: rendere più grave una cosa, un reato, lo colleghiamo alla pena e alla sua durata. Come se la gravità fosse un concetto temporale, ma non lo è: è spaziale, per definizione. La definizione dell’universo stesso. Io vorrei, su questo divano, dentro questo appartamento di cemento e sabbia di una palazzina a tre piani che occupa questo rettangolo di terra essere il pieno, ma riesco solo a sentire l’eco dei rimbalzi di una palla sputata da una gola, perché troppo viva per essere il gioco di un fantasma.
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