Pubblicato il 26/07/2008 15:51:10
1 Si la do (Alla ricerca della musa ben disposta)
SETTEMBRE DI SPERANZA
Il liceo mi aveva sempre affascinato. Me lo immaginavo come un bel posto che straripava di fanciulle-muse-ispiratrici piene di curve e di emozioni da regalarti senza pretendere nulla in cambio. A stento ero riuscito a superare le scuole medie con un po’ di intuito e pochissima attenzione durante tutte le spiegazioni e adesso me ne stavo zitto zitto con la faccia del bambino che sa già cosa vuole dalla vita (anche se non ne avevo proprio idea, di che cosa volessi) e con i miei famosi puntini di barba già cresciuta proprio l’estate prima. Osservavo incuriosito tutte le ragazze presenti cercando di registrare i volti delle tipe che venivano chiamate per osservare le prime reazioni del mio cuore all’impatto con i loro graziosi sorrisi e con i loro piccoli e snelli corpi imprigionati in completini e gonnelline estive che rimpiangevano la libertà delle ultime vacanze da bambine di già finite. Tirai su i miei jeans un paio di volte e mi pentii di non essermi mai degnato di usare una cintura anche se portavo jeans che erano due taglie più della mia ed io ero magrissimo e ci stavo dentro come una sottiletta in un lenzuolo. Ascoltai ancora attentamente il Preside che non smetteva di chiamare ragazzini e accarezzare i loro capelli come fosse un lontano zio che salutava i suoi nipoti, poi mi stufai già della situazione e presi ad osservare gli alberi che ci stavano intorno nel cortile dove eravamo, immobili e solenni quasi stessero assistendo ad un borioso cerimoniale. Mi ero già rotto le palle di quel posto e della gente che lo frequentava, forse non avevo avuto una bella idea a decidere per un liceo scientifico. Ma non stavo lavorando bene: il mio compito nel mondo era quello di sentire, non osservare, non partecipare ma solo immergermi nel flusso caotico neutrale di cui è composta la realtà e scivolare al suo interno attraverso le mie sensazioni, niente di più e niente di meno, niente sforzi mentali, niente di niente. Questo non era un liceo, questo non era il cortile di un liceo, quello di fronte ai miei occhi non era il Preside di un liceo e quelli dinanzi ai miei occhi non erano studenti al primo anno di liceo. Questa dinanzi a me, tutta insieme, era la realtà ed io ne facevo parte, niente digressioni o quanto altro, tutto molto più semplice del previsto. Tornai ad occuparmi della realtà, senza ulteriori astrazioni. Le ragazzine che erano già state chiamate dal Preside e che avrebbero formato la classe che mi avrebbe accolto, erano perlopiù facce da studiose serie e motivate da una grande passione per materie che per me erano incomprensibili quali la fisica, la matematica e le scienze. Mi lasciai girare nella mente per qualche secondo quella sensazione, mentre guardavo allungarsi la fila dei miei futuri compagni di classe, poi decisi di dedicare lo sguardo alle punte delle mie scarpe che dal basso mi guardavano e mi chiedevano di andare via da quel posto, che in fondo non era proprio come me l’aspettavo. Rialzai lo sguardo solo quando il mio nome venne pronunciato dalle labbra del Preside che non risparmiò lo stesso trattamento ai capelli neppure a me che un bambino non lo sembravo già più dalla scorsa estate. “Gabriele Barra” esclamò quasi sorpreso “Sappiamo del tuo particolare talento per il calcio, può risultarci utile per la squadra scolastica. Ma non devi trascurare lo studio però, un vero uomo non è completo se non sa dedicarsi ai suoi hobby senza togliere nulla al suo lavoro” Annuii semplicemente col capo guardandolo direttamente negli occhi, ero stato nella squadra degli allievi del paese per un po’, ma a dire il vero non ero mai stato un patito del gioco di squadra organizzato. Agli stadi avevo sempre preferito i campi sterrati che magicamente comparivano dietro una collina, magari in pendenza con pali di legno scheggiato o immaginarie porte segnalate soltanto da due pietre poste ad una ipotetica distanza regolamentare, alle divise delle squadre di calcio preferivo i torsi nudi ed i pantaloncini mezzo strappati dall’asfalto o dalle pietre. Quello era calcio ed il resto chiacchiere senza storia. Il Preside mi lasciò andare verso gli altri, mi inserii nella fila senza dire una parola, mi guardai affianco scrutando di profilo i volti degli altri ragazzini. Mi chiesi se avrei mai fatto amicizia con qualcuno di loro, mi chiesi se sarei riuscito a fondermi nello spirito di classe, io che i gruppi li avevo sempre malvisti e che ero sempre stato malvisto dai gruppi. A giudicare dai nasi che vedevo sporgersi da quella angolazione, non ci sarebbe stato molto di interessante a cui partecipare da lì ai prossimi cinque anni. Sbadigliai, pensai di grattarmi una chiappa. Mi grattai una chiappa.
Quando raggiungemmo finalmente la nostra aula, mi scelsi un posto in prima fila, isolato sotto la finestra, così avrei potuto guardare fuori ogni tanto e tanto per ambientarmi presto, cominciai a guardarci da quel momento. Puntai i miei occhi sull’antenna parabolica di una abitazione quadrata che sembrava una di quelle messicane che si vedono nei film e che aveva i muri ingialliti dalla polvere. Un tempo doveva essere stata una bella villetta solitaria nel bel mezzo di un campo abbandonato. Mi ricordò la casa di mia nonna, quella che riuniva tutta la mia famiglia sparsa per l’Italia nelle torride estati degli anni ottanta, quando, ancora bambino, con linee di muco che mi spuntavano dalla narici e la maglietta intima bagnata di spruzzi d’acqua, me ne stavo seduto in mezzo ai miei cugini e iniziavo a battere forte sulla mia chitarra gridando più che cantare canzoni che non avevano nessun significato, fatte di frasi senza nessi logici tra di loro. La mia chitarra. Adesso se ne stava abbandonata in una casetta di campagna che avevamo trasformato in un magazzino. Non eravamo mai andati particolarmente d’accordo, io e lei, anche se il mio sogno da bambino era stato quello di diventare un chitarrista prima ancora che di diventare un calciatore. Certamente l’avevo delusa, se la nostra fosse stata una storia d’amore, allora potevo dire di averla tradita con una pianola Yamaha più moderna e meno dura da far commuovere. Non mi piaceva suonare la pianola a dire il vero, non ce l’avevo mai avuta la fissa per i tasti io, avevo sempre preferito le corde, poi un giorno il mio professore di musica delle medie, osservandomi le mani, mi aveva messo in testa che erano due mani da pianista ed io, come se ci volesse lui a dirlo, mi ero preso la cotta per questa rivelazione ed avevo lavorato per tutta un’estate per comprarmi una pianola e qualche libro di musica che potesse insegnarmi ad usarla, così, giusto per non limitarmi a leggere il libretto delle istruzioni. Ed allora avevo abbandonato la mia bella chitarra acustica regalatami da mio nonno quando avevo ancora sei anni, neanche avessi il potenziale di un futuro Elvis, mi ci ero fissato così tanto che mia madre tuttora mi ricordava che spesso la nominavo nel sonno, a quell’età e così un giorno di un estate che ricordavo ancora vividamente, mio nonno me l’aveva portata, recuperata da chissà quale suo amico. Ormai avevo le basi, il successo garantito e la mia storia poteva anche cominciare, ma tranne che farmi dolere i polpastrelli per cinque o sei anni, non ne avevo mai tratto nulla di buono. Proprio non mi si ficcava nella testa, non avevo metodo né questa grande volontà di applicarmici. Era un gioco e non superò mai quella proto forma di esistenza. Ogni tanto l’avevo ripresa tra le braccia e l’avevo accarezzata come sempre, ma lei era stata fredda con me, aveva sputato fuori suoni duri e le sue corde si erano irrigidite in una maniera bestiale, così avevo deciso di metterla fra la roba che ormai non serve più e ce la avevo lasciata lì senza neanche più guardarla. Un amore quando finisce, finisce. Adesso come adesso, mi ero dedicato del tutto alla Yamaha, sperando che qualcosa potesse ispirarmi a comporre un po’ di musica decente. In tutto vantavo dodici grandi successi che avevo scritto e tenuto per me, con un testo stupido e note molto distaccate fra loro. “Bene, vi chiamerò ad uno ad uno e cercherò di memorizzare i vostri nomi, mi parlerete di voi, così ci presenteremo un po’, va bene?” captarono le mie orecchie. Una specie di professore era arrivato da poco in classe ed io, come al solito preso dalle mie stronzate, mi ero perso la prima occasione di partecipare alle presentazioni. Era un tipo dai capelli a spazzola, grigio scuro alle punte e più bianchi verso la radice, portava un paio d’occhiali da vista con lenti alternative da sole (evidentemente graduate) applicate sopra la montatura grazie ad una minuscola cerniera. Era il professore di educazione fisica o tale mi pareva da quanto avevo capito dalla tuta e dalle scarpe da ginnastica che indossava. Un coro di vocine timide rispose sibilando come la somma di tanti versi di rettili in situazione di pericolo. “Allora... mmm... Altamura Sabrina... chi è Altamura Sabina?” Proprio nella seconda fila, due banchi a destra dietro di me, una ragazzina dai capelli lunghi e castani, con la faccia pulita e gli occhi da studentessa decisa e brava a tutte le materie, si mise in piedi poggiando i palmi delle mani sul banco. “Sono io” rispose con una voce stridula che sembrava il cigolare di una porta male oliata. “Bene, Sabrina, quale scuola media hai frequentato e quale è stato il tuo voto di licenza... Ah, parlaci anche un po’ della tua situazione familiare, naturalmente” La piccola non mosse neanche per un attimo gli occhi da dove li aveva messi e cioè da sopra al viso del professore. “Ho frequentato la Scuola Media Statale ‘Ugo Foscolo’ nella sezione di bilinguismo. Il mio voto complessivo è stato Ottimo in tutte le discipline, compreso educazione motoria e musicale. Mio padre si occupa di medicina ed è chirurgo presso l’ospedale del nostro paese, mia madre insegna latino nel Liceo classico ‘Carlo Troya’ che è ubicato in Andria, sono figlia unica” Sabrina attese comunicazioni. “Molto bene, Sabrina, puoi riaccomodarti” il professore incrociò le mani sul registro, osservò ancora per pochi secondi la ragazza, poi puntò l’indice nuovamente sulla lista e passò avanti. “Barra Gabriele...” Iniziai a tastarmi l’orecchino a cerchio che avevo all’orecchio, mi capitava spesso di farlo, quando ero colto alla sprovvista. Tranquillo, tranquillo, che tanto non te ne frega di fare brutte figure, in fondo a quanto si è visto fuori, qui non c’è nessuna tipa che potrebbe ispirarti, no? “Ho passato i tre anni più brutti della mia vita nella scuola Bovio (non ricordo il nome di Bovio, mi scusi), non so se ho studiato francese o inglese, perché non ho mai studiato molto, ma fa lo stesso. Il mio voto complessivo è stato sufficiente in tutte le materie, compreso ginnastica e musica. Mio padre si occupa di muri ed è il muratore più in gamba della nostra città, mia madre insegna... a cucinare a mia sorella e gestisce l’educazione di mio fratello di tre anni. Come vede non sono figlio unico” Ripresi posto incastrando la mia testa nelle spalle come fanno le tartarughe, fermo nell’imbarazzante silenzio degli sguardi addosso, finché a stemperare la tensione ci fu una schietta risata del professore e, dopo un soffocato ridere che girava di bocca in bocca per tutta la classe, anche i miei nuovi compagni risero apertamente. Rise perfino la ragazza che mi aveva preceduto nella presentazione. Tentai di fare l’indifferente, non amavo molto salire su un palco o tenere la scena, ma quando mi capitava di farlo, cercavo di vincere la timidezza, di parlare senza esitazione, di non passare per deficiente, almeno. E dalla vergogna della prima cazzata fatta, presi a decifrare le scritte che erano incise nel mio banco sentendo lentamente le guance imporporarsi. Ce ne era qualcuna divertente come un botta-e-risposta di due ragazze che, a quel che sembrava, si erano innamorate della stessa persona e si insultavano a vicenda chiedendosi l’un l’altra di lasciar perdere il tipo. Evidentemente il mio banco doveva essere appartenuto a un latin lover.
Altri nove fra ragazzi e ragazze si presentarono parlando di genitori avvocati, professori, medici alcuni per di più Assessori, per non parlare di tutti gli ottimo e distinto che avevano proferito labbra di bambini che erano già decisi di proseguire e bene, nella strada intrapresa, cosa che io non avevo mai tenuto in considerazione neanche per scherzo. Avevo sempre pensato più che altro che nella vita c’è chi nasce a Milano o Roma o Bari e gli tocca fare certe cose e non è lui che le ha scelte, io invece ero nato qui e mi toccava andare a scuola e non ero io che l’avevo scelto, vivevo il tutto abbastanza passivamente proprio per questo, non ero stato io a scegliermelo, ma mi toccava farlo e basta. La porta della nostra aula si spalancò quando una ventina di persone, e cioè due terzi della classe, dovevano ancora presentarsi ed un ragazzo dai capelli di un biondo scuro venne spinto all’interno violentemente. Il professore si voltò con calma, osservò il ragazzo e le sue labbra si mossero ad un leggero sorriso. “Corona?! Primo superiore anche quest’anno?” Il ragazzo sorrise e si avvicinò alla cattedra, poi strinse la mano del professore senza smettere di sorridere e gettò da un lato alla base del muro sotto la lavagna, la sua cartella piena di murales e di disegni che parevano tatuaggi. “Se voi non vi siete ancora stancati di tenermi!” allargo le braccia “Purtroppo mio padre sta fissato che devo studiare” “Vatti a sedere che a presentare te ci penso io, visto che la C…” disse il professore, abbassando il mento per osservare il registro, il ragazzo rimase al suo fianco “l’abbiamo già superata. Lui si chiama Luigi Corona, è la terza… terza?” “Terza” rispose Corona. “…volta che frequenta questa classe o eri in qualche altra sezione gli anni scorsi?” “No, sempre la C” disse ancora sistemandosi un ciuffo di capelli dietro un orecchio. “Che altro dire? Ha collezionato almeno dieci sospensioni l’anno scorso ed una cinquantina di note disciplinari” “E questi qui non sanno niente!” aggiunse Corona rivolto a noi, stampandosi in viso uno di quei sorrisi da criminale che avevo riconosciuto in mille volti apparsi sui giornali dopo una rapina o un omicidio o una maxi operazione antidroga portata a termine dalla polizia il giorno prima. “Abbiamo bisogno di un banco ed una sedia per ospitarti, Luigi, va’ a chiamare un bidello” fece il professore, così il tipo scomparve dalla porta e se ne tornò senza l’aiuto di nessun bidello con un banco ed una sedia tutti suoi. Doveva aver liberamente optato per la sottrazione da qualche aula vicina. Gli occhi del ragazzo scrutarono tutta l’aula alla ricerca di un po’ di spazio libero e poi si fermarono su di me. Il mio era l’unico posto singolo di tutte le file. Così trasportò il banco fino a me e lo lasciò cadere a terra mentre il professore riprendeva a sparare nomi di persone che avevo già sentito una volta, fuori. Corona alzò di peso la sedia che aveva poggiato sul banco per portarli entrambi e poi la rimise giù sedendosi in maniera composta. Due minuti dopo se ne stava già stravaccato con un piede nel ripiano sotto il banco e dondolandosi sulla piccola seggiola che cigolava pericolosamente. Stetti a guardarlo per un po’. Era un tipo abbastanza alto, piuttosto muscoloso, con un codino dai riflessi chiari e un paio di basette triangolari che gli coprivano mezza faccia. Un gigantesco tatuaggio nero e rosa che raffigurava quello che pareva il volto di un diavolo che sbuffava, spuntava dalla manica corta della sua maglia e finiva proprio sul bicipite ben allenato. Non si voltò nemmeno per uno sguardo, verso di me, non era minimamente interessato al suo nuovo compagno di banco, ma d’altronde anch’io me ne ero sbattuto degli altri e mi ero scelto un posto da solo.
Alla fine della prima ora il tipo era riuscito a cambiare un centinaio di posizioni diverse, c’era da apprezzare però il fatto che se ne era stato zitto per tutto quel tempo preoccupandosi solo di studiarsi le unghie delle mani prima di farle fuori. Il suo zaino era rimasto piantano dove l’aveva lasciato e cioè sotto la lavagna finché non squillò la campanella. Mi alzai appena il professore era fuggito via dalla sua prima ora di lavoro effettiva dopo un’estate di riposo. Mi stiracchiai un po’, compostamente, sentivo le mie chiappe rigide e quadrate come il fondo della sedia. Un paio di ragazzi (uno dai capelli rossi ed uno abbastanza robusto) che dovevano conoscersi da prima di essere entrati nella nuova classe, si avviarono verso la porta e dopo essersi affacciati, presero a chiacchierare su quello che vedevano fuori nel corridoio. Una ragazza che il professore aveva chiamato Del Monte nel suo appello, stava osservandosi la collanina che portava al collo; ogni tanto si ravviava i capelli con entrambe le mani. Non sapevo proprio cosa fare e cosa dire e soprattutto con chi poter parlare in quel momento, così seguendo l’esempio dei due ragazzi che dovevano conoscersi, varcai anch’io la porta e mi levai dalla possibile situazione imbarazzante di dovermi trovare a parlare con qualcuno che non conoscevo assolutamente. Qualche bel culetto ondeggiava a destra e sinistra nel corridoio spostandosi da una classe all’altra, ragazzi più grandi di noi, invece, si divertivano a correre avanti e indietro sgommando platealmente davanti ad ogni porta. Tornai nella classe proprio nel momento in cui un signore che poteva avere tra i cinquanta ed i sessant’anni, basso e con un cappello alla Dick Tracey a quadratini grigi, iniziò a gridare qualcosa al nostro indirizzo, appena imboccato il corridoio. Sorreggeva una cartellina marrone scuro e doveva essere un altro dei nostri professori. Capii che non era così dopo aver ripreso il mio posto sotto la finestra; infatti il signore si presentò come un professore di italiano e latino e dichiarò di essere un supplente per quell’ora. Comunque non era in classe neanche da cinque minuti, che già ci stava parlando di Dante Alighieri e Petrarca e Platone e di quanto questi tre tipi fossero amanti delle ‘umanae litterae’, di quanto fosse stato importante per Dante ricevere il dono della fede e cose così che percepivo a malapena, distratto dai miei pensieri che mi stavano conducendo in una landa deserta fuori da ogni città. Adesso la mia mente permetteva alla mia pianola di materializzarsi in quella landa ed io mi avvicinavo ad essa ed iniziavo a toccare lievemente i suoi tasti, facevo partire una base ok e prendevo a suonarci da sopra un motivetto niente male, tutto soft. La polvere si lasciava catturare dal vento e si alzava debolmente dal terreno, poi saliva, saliva insieme al vento, sempre più su, più in alto, e più saliva, più il volume della musica aumentava e più le note si facevano reali e, quasi pesanti, le mie dita cadevano sulla tastiera e sapevano già come spostarsi tra tasti neri e tasti bianchi. E le parole mi uscivano da sole dalle labbra e finalmente nasceva un testo garbato in una lingua che non capivo ma che immaginavo fosse l’idioma di una qualche tribù dell’America precolombiana. Questa era certamente una precognizione che dovevo aver avuto, del mio più certo futuro, ma perché tutto questo avvenisse, ci voleva un’ispirazione di quelle estasianti e una ragazza che avesse la stoffa della musa. E dove la trovavo io, una così? La scuola media mi aveva offerto una sola ragazza che potesse essere la giusta fonte artistica, ma avevo scritto per lei solamente una canzone che era la più riuscita fra le dodici da me composte, ma che non aveva assolutamente nulla di musicale come le altre d’altronde che sembravano piuttosto suoni contorti sotto quattro parole messe lì in stato di ebbrezza pesante. Le mie altre undici canzoni le avevo scritte per undici ragazze diverse con cui avevo provato ad ispirarmi, ma che non avevano fatto altro che farmi rendere conto che come musicista non valevo proprio nulla. Forse avrei dovuto mollare, dopotutto che cosa mi faceva credere, a soli quattordici anni, di essere in grado di comporre una canzone? Voglio dire, che cosa mi faceva tendere proprio verso la musica invece che verso una qualsiasi altra forma d’arte se non solo il fatto che avessi avuto a che fare con il mio primo strumento musicale a soli sei anni? Io, a dire il vero, ce l’avevo sempre avuta la fissa di riuscire a plasmare dal nulla una canzone che non facesse schifo e che si potesse suonare ogni tanto, in presenza di estranei che non fossero spinti per questo a riderti in faccia, la sentivo come una cosa naturale, la mia non era una ricerca e basta, era quello che avrei dovuto fare e non l’avevo scelto io. Assolutamente. Come il fatto di nascere lì e di dover andare a scuola. Esatto uguale. O magari la canzone avrei potuto anche tenerla per me, senza farla ascoltare mai a nessuno, ma che almeno mi desse un tantino di gusto a cantarla per intero sbattendo le dita sulla mia tastiera, così, per sentirmi un po’ me stesso più di quanto mi sentissi me stesso mentre me ne stavo sul cesso di casa mia a lasciare andare via parti solide che una volta avevano albergato nel mio corpo. Insomma, io ci avevo qualcosa dentro e volevo che uscisse prima o poi, volevo liberarmene e sbloccarmi finalmente, per non tenermelo dentro, quel qualcosa, perché non avessi avuto più bisogno di scavare sotto mucchi di emozioni per ritrovarlo e perché fosse stato sempre a mia disposizione nella mia canzone. Magari nelle mie canzoni. E invece quel qualcosa non mi era mai uscito del tutto e molte volte ero convinto che non sarebbe uscito affatto. Questo mi faceva paura per davvero, così stavo cercando da un po’ di tempo una ragazza che mi aiutasse a sputare fuori tutto quanto, che mi ispirasse quanto mi bastava, che mi offrisse non dico un sorriso, non dico una parola, non dico nemmeno uno sguardo, ma quel poco di ispirazione che mi era utile per fare ciò che dovevo, poi avrei finalmente trovato la mia pace, ne ero sicuro. O parte della mia pace. Ma forse era veramente arrivato il momento di smettere di pensare a tutte quelle stronzate, così ricominciai a seguire la lezione dal punto in cui Petrarca aveva detto a Boccaccio di non bruciare il Decamerone e questo dimostrava il loro intenso amore per la letteratura. Nel giro di un’ora dovevano aver già fatto l’intero programma d’italiano di terzo o quarto superiore. Qualche giorno di tempo e saremmo stati tutti già diplomati.
Alla fine della mattinata e dopo tre o quattro presentazioni ufficiali con i professori, pensai che tutto sommato la classe non era proprio piatta come mi era parsa inizialmente, in tutto c’erano tre ripetenti: Corona, Ieva e Morra, diciassette ragazze fra cui mi restarono impresse Del Monte che avevo già stabilito di far rientrare nelle ‘carine’ (anche perché probabilmente era l’unica), una ragazza robusta dalla vocina sottile sottile seduta nella seconda fila dietro di me e vicino ad Altamura che era magrissima e poco attraente e un’altra ragazza dalla faccetta semplice semplice che se ne stava seduta proprio dietro di me ed a cui avevo mandato sì e no due sguardi in tutto e di sfuggita. Poi c’era una dai capelli ricci, lunghi e piuttosto chiari che era magra pure lei e aveva l’aria da intellettuale con un neo proprio sopra le labbra e si chiamava Antonella Cavallo; questa qui era seduta vicino a Marialucia Del Monte dal lato opposto alla mia fila, sulla destra. Le altre ragazze erano più o meno le fotocopie delle tre ragazze della fila dietro la mia, quella di Sabrina Altamura: facce serie e laboriose dall’aria di chi vuole impegnarsi nello studio ed è tutta dedita ad esso, senza concedersi minimamente ad altri interessi. Per quanto riguarda i ragazzi, c’era qualche genietto da ottimo scientifico piccolo piccolo, c’era uno che si chiamava Tarantino e piccolo piccolo non era proprio, era quello uscito insieme al rosso (che si chiamava Coviello) alla fine della prima ora e pure se aveva anche lui l’aria da genio, era alto e massiccio. L’altro colosso della classe era un tipo che parlava con un fortissimo accento pugliese e, a quanto avevano fatto capire i suoi compagni di scuola media, era bravissimo in matematica. Il suo nome era Antonluca Marcantonio. Gli unici due ragazzi che mi stavano simpatici, oltre ai tre ripetenti, erano stati da sufficiente alle medie: il primo era uno basso, smilzo e curvo come i genietti e di nome faceva Pastore, il secondo non rientrava nella categoria dei massicci soltanto perché era un vero e proprio gigante. Si chiamava Fortunato, ma non avevo capito se quello era il nome, il cognome o tutt’e due. Avevo già imparato i nomi di quei tipi e la sensazione di aver fatto proprio una scelta di merda si faceva ancora più opprimente ora che mi ero reso conto di essere capitato in una classe fornita quasi unicamente delle due categorie di ragazzi che avevo sempre odiato: i criminali ed i figli di papà. Il resoconto della giornata, tratto direttamente dal Diario Appunti Viaggio nell’Esistenza di Gabriele Barra, fu: - Nessuna tipa in questa classe, manco a pagarla oro; - Sono capitato in una classe di merda stando all’organico in generale; - E per di più seduto vicino ad uno che mi darà un caaaaaasino di fastidio; - Non capisco nulla delle materie scientifiche e questo è un Liceo Scientifico; - Forse c’è qualcuno che mi sta simpatico. Note complessive cinque. Note negative: quattro. E mezzo (se contiamo che il forse dell’ultimo punto è per metà negativo) Note positive: mezza (se contiamo che il forse dell’ultimo punto è per metà positivo)
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