Pubblicato il 23/04/2013 11:23:56
LA SCHIAVA EGIZIANA
Zoccoli di cavalli, stridori di ruote sul selciato: un carro da guerra correva veloce sulla strada principale di Nippur, lastricata di pietre larghe e quadrangolari. Un suono ben noto per i passanti, che si scansarono per farlo passare. Un gruppo di pecore che un pastore spingeva fuori delle porte della città, si sparpagliò. Buoi aggiogati ai carri, asini someggiati fino all’inverosimile, drappelli di soldati dal passo marziale, schiavi al lavoro nei cantieri di nuovi Templi e Palazzi, operai e infinite altre persone ancora: la vita nella antichissima città sumerica si svolgeva in maniera non del tutto dissimile da quella di duemila o tremila anni dopo. I passanti riconobbero il carro da guerra del nobile Sushin. Era comparso in fondo alla strada e il guerriero, ritto e superbo, incitava i cavalli, neri come la pece, facendo sibilare la frusta nell’aria Il carro si fermò davanti ad una casa del quartiere dei ricchi ed alcuni servi ne uscirono per venirgli incontro. Sushin ritornava da un avamposto militar in prossimità delle montagne del Gutium, le cui genti, pur considerate “barbari” dai raffinati abitanti della città di Nippur, erano gli schiavi più ricercati ed apprezzati per il colore chiaro della pelle e dei capelli.
Alto e prestante, coperto del solo perizoma che metteva in risalto il fisico forgiato dalla massacrante vita di guerra, il volto dalla maschia bellezza, lo sguardo fiero e la mascella quadrata e volitiva, Sushin era un tipo davvero assai interessante. Entrato nel cortile, quadrato e pavimentato di lastre di selce, il giovane balzò giù dal carro di corsa lo attraversò e raggiunse la scalinata che portava al piano di sopra; la casa era a due piani, grande e confortevole. Sotto il portico, che circondava il cortile, si affacciava un gran numero di porte; Sushin si diresse verso una di esse, l’aprì ed entrò. Ampia ed ariosa, la stanza era arredata con pochi mobili, ma di pregio e gusto: un letto, letteralmente sepolto da cuscini e tavolini occupati da ciotole, brocche e coppe; sul pavimento erano stesi tappeti e stuoie. Numerosi lucernai attaccati alle pareti facevano luce.
C’era una donna seduta su uno scanno e un schiava le reggeva lo specchio mentre altre tre o quattro l’aiutavano nella toeletta. Al comparire del giovane sull’uscio, con un gesto della mano la donna le congedò; tutte meno una, quella che reggeva lo specchio. “Shusin, mio amato: Fratello del mio cuore. Torni a me dopo lunga attesa.” esclamò con voce gioiosa alzandosi e correndogli incontro per gettargli le braccia al collo. “Salute a te, Subad. – salutò il giovane – E’ giorno lieto per la mia sposa.” “Sacrificherò agli Dei per il tuo ritorno, Suchin.” Sushin si sciolse dall’abbraccio e sedette sullo stesso scanno occupato un attimo prima dalla donna; mosse lo sguardo intorno improvvisamente i suoi occhi incrociarono quelli della piccola schiava.
Era molto bella e molto giovane. Carnagione bruna, occhi scuri, capelli nerissimi e tagliati a frangia sulla fronte. Non era molto alta, ma assai ben proporzionata: una gioia per lo sguardo. L’umile tunica da schiava, indossata con la grazia di un mantello regale, invece di mortificarne la grazia innata, la metteva prepotentemente in risalto. “E tu chi sei?” domandò Sushin. “Il mio nome è Nefrure, mio signore e padrone.” “Sei tu Nefrure? – il giovane mostrò un sorriso di stupito compiacimento – Ishtar, la Dea dell’Amore e della Bellezza, ha messo sul tuo volto tanta grazia che il cuore di chi guarda gioisce.” Nefrure abbassò lo sguardo. Nefrure aveva quindici anni. Era una schiava egiziana che Subad aveva portato con sé un anno addietro sposando Sushin.
Secondo la legge, sposando Subad, Sushin aveva sposato anche la sua schiava e con contratto matrimoniale che, però, era solamente una litania dei doveri della schiava verso la padrona e il nuovo padrone. Nefrure doveva, per legge, occuparsi della cura della persona della padrona, portare il suo seggio nella Casa di Dio in occasione di Cerimonie Sacre, essere triste o lieta secondo l’umore della padrona e infine, essere madre, assieme a lei, dei propri figli che, in altre parole voleva dire: diritto di prendersi i suoi figli. Verso il padrone aveva il dovere di servirlo in tutto: anche a letto.
In verità presso molti dei popoli antichi la poligamia, sia pur con qualche ristrettezza, era largamente riconosciuta e praticata. Poteva accadere che, per non essere ripudiata in caso di sterilità… e la disgrazia più grande per la donna dell’antichità era proprio la sterilità, la donna portasse in dote anche una schiava che potesse diventare legittima concubina del marito. Senza diritto alcuno, naturalmente.
“Portami da bere.” ordinò Sushin. La piccola schiava si allontanò, pr ricomparire poco dopo con un bricco di terracotta contenente del vino e una ciotola, anche questa di terracotta, stracolma di fumanti ciambelle al miele. Sushin prese il bricco e se lo portò alle labbra. “Tu, vai! – la padrona si girò verso la ragazza – Servirò io il mio signore.” disse accompagnando le parole con un gesto delle mani. “No. Aspetta. – la trattenne Sushin con un sorriso, asciugandosi la bocca sul dorso della mano e porgendole il bricco – Bevi anche tu.” Nefrure fece convergere uno sguardo un po’ preoccupato verso la padrona, “Bevi.” ordinò Sushin, addentando una seconda ciambella con la bocca ancora piena. Nefrure prese la coppa e la portò alle labbra; Subad la fissava severa: con il capo aveva dato il consenso, ma con lo sguardo esprimeva tutta la sua disapprovazione. Dopo aver bevuto la piccola Nefrure si allontanò, ma lo sguardo dolce e gentile del padrone l’aveva raggiunta al cuore. Quella notte si girò e rigirò sulla stuoia, nella stanza accanto, che la padrona con magnanimità le aveva regalato; non riusciva a prender sonno.
La condizione dello schiavo presso i Sumeri non era facile, ma non raggiunse mai quel livello di perdita di individualità e caratteristica di “persona” che conoscerà, invece, lo schiavo d’epoca più tardi, quale la schiavitù romana o quella americana. Sono giunti, infatti, documenti riguardati matrimoni tra schiavi e gente libera, testimonianze di un divario fra le due categorie, non proprio incolmabile.
Erano trascorsi due anni. Gudea continuava a regnare sui Sumeri facendo conoscere loro anni di pace e di benessere. Nei grandi magazzini del Templi erano state riposte ricchezze ingenti e un grande Santuario era stato innalzato in onore del dio Ningirsu , “splendente come il sole tra le stelle”, come lo stesso re Gudea amava ripetere. Giunsero i giorni della festa del Nuovo Anno: sette giorni di feste e rituali.
Verso il tramonto dell’ultimo di quei giorni, una lettiga si fermò davanti alla casa del nobile guerriero Sushin. Portava le insegne reali dei Faraoni di Tebe. Ne discese una donna velata che chiese dei padroni di casa e quando fu ricevuta, con gli onori che competevano al suo rango, la donna si mostrò in volto: era Nefrure. Una scorta di soldati egiziani l’accompagnava. “Tu? – esclamò Subad, cerea in volto, indietreggiando – Che cosa cerchi nella casa del nobile Sushin?” “Vengo a riprendermi ciò che è mio!” sibilò la giovane donna. “Una schiava non possiede null’altro che il nome con cui è chiamata e…” le alitò in faccia Subad, ripresasi dalla sorpresa, ma Nefrure la interruppe, altera e distaccata. “Non si può tener schiavo il sangue reale a lungo. – rispose - Io sono Nefrure, principesa di Tebe, fatta prigioniera dai Gutei e venduta a tuo padre… ma non sarei rimasta a lungo nella condizione di schiava… - si girò verso l’ufficiale che comandava il drappello di soldati – Il Signore d’Egitto avrebbe mandato un riscatto, se tu, ubbidendo al tuo cuore malvagio, non mi avessi scacciata… Ma ora sono qui e reclamo diritti.” Sushin si fece avanti con le braccia tese. “Nefrure, mio dolce fior di loto! – sorrise, increduto e felice - Amica dei miei sogni, compagna dei miei desideri… Nefrure…” Ma Nefrure, principessa di Tebe, ricusò l’abbraccio. Subad guardava il marito. “Hai dimenticato presto il tuo dolce fior di loto!” disse in tono di profondo rimprovero colei che era stata schiava. “Ti ho cercata a lungo, Nefrure, ma mi accorgo di averti cercata nei posti sbagliati. Oggi andrò a sacrificare e Ningirsu perché ti ha ricondotta a me proprio nel giorno della sua festa.” “Andrò via come sono giunta, – continuò con amarezza la giovane principessa di Tebe – ma porterò con me il frutto del mio seno.” “Troppo tardi!” esclamò trionfante la perfida Subad. “Non è troppo tardi. Il funzionario di re Gudea è con me per assicurarsi che tutto avvenga secondo la Legge e la mia scorta è qui per proteggermi… Ridammi mio figlio, Subad.” “Nefrure, cosa dici? – proruppe Sushin – Di quale figlio parli?” “Di Menkaura, che lei – Nefrure puntò l’indice accusatore contro la donna – che lei chiama Assur e pretende essere suo figlio, ma che è carne della mia carne.” “Troppo tardi, Nefrure. – scandì Subad con negli occhi quello scintillio di cattiveria che la principessa Nefrure conosceva assai bene – Tuo figlio è morto!” “No! No!” gridò la povera Nefrure. “Subad… ma che cosa stai dicendo?” Anche quello di Sushin era un urlo. “Che Assur non era del mio sangue, ma del tuo e del suo.” e perfino quello di Subad era un urlo. Ma di rabbia. “Che tu sia maledetta!” gemè Nefrure cadendo in ginocchio; sul suo bel volto, l’espressione di pronfondo, inatteso dolore aveva cancellato tracce di ogni altro sentimento. Udì la voce del funzionario del Re che ordinava: “Sia portata via questa donna e subisca il castigo per tanta colpa.”
La donna si lasciò trascinare senza opporre resistenza; alle spalle le giunse la voce dell’uomo per amore del quale aveva fatto tanto male. “Vieni, Nefrure. – Sushin si era chinato sulla principessa e l’aiutava a rialzasi – Andiamo a piangere sulla tomba di nostro figlio. Per molto tempo ho pianto da solo, ma se tu vorrai…” “Sushin… - Nefrure sollevò lo sguardo in volto all’uomo che amava – Credevo che mi avessi dimenticata,” “Non potrei mai dimenticare il mio dolce fior di loto… Vieni… Andiamo! “ e con estrema delicatezza, il giovane guerriero le asciugò con le dita le lacrime che le solcavano le guance.
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