Fu bussato alla porta: <Dottore, per cortesia, venga subito!>
Era Ignazia, l’infermiera che avevo assunto perché si occupasse di Camilla durante le ore diurne, per fornirle un’assistenza femminile adeguata e tale che potesse con efficacia sostituirmi quando io ero fuori casa o al lavoro.
<Perché un’infermiera? Non sono ancora così malandata>, aveva osservato Camilla quando ne ebbi preannunciato l’ingresso in regime abituale.
<Certamente! Lo so, ma non mi sembra giusto che tu rimanga sola quando sono assente; potresti avere una necessità improvvisa.>
<Tanto non potrà salvarmi!>
<Può darsi che ti salvi da sola … Sono certo che tu hai tante di quelle risorse che nemmeno te le immagini! Piuttosto verifica se la persona ti aggrada umanamente, oltre che professionalmente … Altrimenti ne troveremo un’altra.>
<Non dovresti interpellarmi prima, sulle cose che mi riguardano?> E si ributtò sullo schienale volgendo il capo dalla parte opposta alla mia. Piangeva e io mi scusai perché aveva ragione. Andava talora così, a colpi di scuse tardive.
Ero, dunque, accorso dietro a Ignazia in soggiorno. Camilla, disfatta e terrea si tergeva il volto con un asciugatoio umido cercando di frenare un convulso di pianto che schizzava dagli occhi stralunati e una sorta di respiro sibilante che si mutava in conato di stomaco e si prolungava in una specie di muggito.
. <No, no, non voglio che tu mi veda così!>, urlò appena si avvide del mio ingresso. <Via, via, fammi portare via … Voglio morire in ospedale! Voglio morire!>
Non dicevo niente, semplicemente la stringevo a me e la trascinavo dolcemente verso la camera da letto, intanto che Ignazia apriva la porta finestra e faceva pulizia. Forse erano cominciate le crisi temute. O forse era il rifiuto fobico del male. Occorreva che lei non si spaventasse troppo e che non si ponesse problemi di natura estetica. Lei aveva tutti i diritti e nessun dovere, se non quello di reggere gli assalti della malattia. Nemmeno mi lasciai vincere dal pianto, che pure mi serrava la gola, per non spaventarla ulteriormente. Semplicemente l’abbracciavo, le carezzavo i capelli, il volto, le mani aspettando che quietasse.
Si quietò e forse si appisolò, esausta. La tenni così finché si riscosse. E dopo mi occupai della sua toletta con tutto ciò che poteva risultare gradito al tatto, all’olfatto e alla vista, lentamente. E il suo respiro lentamente si normalizzava.
E allora l’avvicinai allo specchio. Non osava guardarsi. Dolcemente la forzai. E quando sollevò lo sguardo e si vide i capelli ricadere inanellati e lucidi sugli omeri, e un’ombra rosea segnare gli zigomi frizionati con la crema, lei sorrise a sé e a me dallo specchio … Allora le porsi il rosso per le labbra e poi un abito, come per andare al ristorante o al teatro …
< Ti prendi gioco di me?>
<Ma che dici? Forse ti sembrerò ridicolo, ma io ti amo, Camilla. Faccio le cose che posso, che voglio imparare a fare con te, per me. Forse non gradiresti andare fuori, ma possiamo sempre cenare da noi, se te la senti. Oppure vedere insieme un film, oppure leggere qualcosa o semplicemente parlare.>
<Sì, ecco, voglio che parliamo, che diciamo tutto quello che sentiamo di voler dire. >
Sì, vorrei ripetere ogni parola che lei ha pronunciato, ogni gesto con cui l’ha accompagnata; ma non sono sempre in grado di seguire il filo del prima e del dopo, la logica del discorso e dei contesti. Racconterò il disordine del ricordo e gli assemblaggi postumi con i quali io la chiamo ancora accanto a me. Dirò ancora il venir meno del coraggio e il reiterarsi delle mie vigliaccherie.
Finché dura la vita, niente è per sempre: questo ho capito.
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