Alcuni appunti su Dire silenzio in Fragilità del silenzio di Daniela Monreale, Joker Ed., 2016
Il silenzio, sublime/ sintesi delle tre vie, è potere/ esclusivo degli déi.
A.R., da Antinomie, in Simmetrie, 2000.
«Resti tu, silenzio puro/ contro le inutili farse/ le sterili divagazioni/
di chi confonde l’oro/ con la patina triste/ del risorio».
A fronte di questi emblematici versi di Daniela Monreale (nella prima sezione, Dire silenzio, del volume, a pag. 19), il lettore potrà interrogarsi sulle motivazioni che spingono l’Autrice a rischiare la voce, la caduta dalla fune in equilibrio tra parola e «silenzio», key word dell’opera, sostegno sia del titolo della silloge che di quello della raccolta, nonché oggetto dei preziosissimi commenti di Armando Saveriano nella Postfazione (talmente esaustiva e precisa che è arduo aggiungere altro), il quale proprio nell’evidenza della componente di fragilità ne identifica «la provvisorietà, la labilità, l’effimero».
Cosa sostiene, quindi, la poetessa nel suo violare questo spazio rarefatto del non detto, con la lieve tenacia del dialogo con un “tu” tanto presente quanto indefinito, «sia con il sé più profondo quanto con l’altro» (S. Montalto, nel risvolto di copertina)? Cosa opporre, nel recinto delle possibilità umane, a questa condizione pura? Daniela Monreale lo esprime con la chiarezza del suo dettato, dove lo scarto tra il movente e l’esito è minimo e consente al lettore un’adesione diretta e intima con la fonte del pensiero e del sentimento, senza dispersioni interpretative e decodificative che vadano oltre la suggestione di misurate immagini.
Una scelta pura e fragile, preziosa e “sognata” come quella del silenzio, può essere temporaneamente valicata solo da qualcosa di altrettanto elevato: «ogni pagina quotidiana/ si tingerà di sacro/ nel cono di luce/ appena necessaria» (p. 31), nel «libro che scrivo e ancora scrivo/ [«come tessuto dorato», p. 29] quando la notte non c’è nessuno/ a soffiarmi cenere e fango» (p. 17). Sin dal testo d’apertura ammette, lucidamente: «Questo so fare e volere, scrivere come fosse/ l’ultima sillaba della mia avventura» (p.7).
Forte e inequivocabile, a fronte della «sete di verità», dell’anelito ad una «vita non posticcia,/ colma di fresca luce» (p. 9), è l’avversione - resa con voce chiara, diretta, intimamente convinta e convincente – per «la finta vita [che] procede […]/ tra retorica, gabbie e indifferenza», per la «finzione oscura/ che le cose/ non descrive, ma le trascina», per «la lunga indifferenza che seppellisce le domande», per «l’autentico [che] digrada nell’effimero». Lo scarto tra la condizione autentica, sia essa frutto dell’indomabile parola sia del fragile silenzio, e quella effimera, eliottianamente svuotata, si dissemina di ferite («i malumori», «l’indifferenza e l’assenza», «la disperata attesa», «il dolore», «le paure», «la noia» e l’«insonnia») accolte a stillare amaramente, ma pronte alla speranza di una dimensione cardiaca ed altra, quella del «terzo occhio,/ quello intuisce stelle, quello che sa/ nuovamente cantare» (p. 22).
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